T he Clock di Christian Marclay ha vinto il Leone d’Oro alla Biennale d’arte del 2011. È un’installazione composta da circa 12.000 spezzoni di film e programmi tv, montati in un video che segue per ventiquattro ore lo scorrere del tempo: l’ora catturata nelle scene corrisponde esattamente a quella che vivono gli spettatori, il tempo narrativo è sincronizzato con quello reale. Ci sono orologi, sveglie, appuntamenti da dare o da ricordare, il conto alla rovescia per la mezzanotte, il tè delle cinque, l’avviso che un treno partirà alle otto in punto. Il video è stato proiettato nel corso degli anni in alcune gallerie e musei, attrezzati di divani per gli spettatori; l’ultima in ordine di tempo alla Tate Modern di Londra, questo inverno. In quell’occasione, la giornalista del New York Times Holly Williams scrive: “Il pensiero di addormentarsi nel corso della durata è allettante, ma anche preoccupante: sarà tempo ben speso o tempo buttato?”.
La visione di un film in cui lo scorrere del tempo è costantemente messo in scena provoca reazioni diverse: “Guardando The Clock si entra in una specie di trance”, scrive Zadie Smith in un saggio contenuto in Feel Free, “è un’esperienza quasi allucinatoria”. Ben Lerner, che ne parla in Nel mondo a venire, nota che nel montaggio inarrestabile di frammenti di generi e periodi diversi, a un certo punto “si comincia a percepire una sorta di ritmo circadiano dei generi cinematografici”. Tra le cinque e le sei i lavoratori staccano dal lavoro, a mezzogiorno aumentano i western. Secondo Lerner, “Marclay aveva formato un sovragenere che rendeva visibile il nostro senso collettivo, inconscio dei ritmi quotidiani”.
The Clock è un film ideato per riflettere sulla percezione del tempo. Oltre alla strategia narrativa, colpisce la sua durata, l’accumulo visivo, gli stimoli continui, la frammentazione di un tempo che per l’uomo è naturalmente ritmico (non a caso, Lerner nota una sua organizzazione inconscia e collettiva). È un sovraccarico che aiuta a prendere coscienza dello scorrere del tempo, ma non a sentirlo, arrivando all’estremo del suo annullamento, a una trance.
In un certo senso Christian Marclay ha montato il film perfetto del capitalismo. Il sovraccarico di immagini che si succedono in The Clock inscenano il movimento incessante, la spinta a produrre e consumare, il continuo innescare e soddisfare bisogni, la voracità quotidiana della nostra società. E così la tentazione di abbandonarsi al sonno (“tempo ben speso o tempo buttato?”), vale ancor di più se messa in relazione all’ininterrotta offerta di servizi e prodotti che ci circonda. “L’enorme quantità di tempo che trascorriamo dormendo, affrancati da quella paludosa congerie di bisogni artefatti,” scrive Jonathan Crary in 24/7, Il capitalismo all’assalto del sonno (Einaudi, 2015) “rappresenta uno dei grandi atti di oltraggiosa resistenza degli esseri umani alla voracità del capitalismo contemporaneo”. L’ultimo rifugio dell’uomo può essere uno spazio fisiologicamente inevitabile: il sonno.
Un lunghissimo giorno
L’erosione dello spazio notturno inizia a piccoli passi. Nel Settecento le corti barocche si appropriarono in Europa della notte, un regno fino a quel tempo deregolamentato e popolato da contadini, banditi, prostitute – scrive Cancelli in Colonizzare la notte – e lo trasformarono in uno spazio di festa. Per arrivare alla conversione della notte in un tempo produttivo, invece, bisogna aspettare la rivoluzione industriale.
Un’immagine simbolica di questo passaggio, scrive Crary, è il quadro dell’artista britannico Joseph Wright of Derby risalente al 1782, Il cotonificio Arkwright di notte. In un paesaggio rurale illuminato dal chiaro di luna, spiccano le finestre accese del cotonificio dei fratelli Arkwright, dove il lavoro continua dopo il calare del sole. Il mondo contadino, legato ai cicli stagionali, coesiste in questo primo periodo con un nuovo modello di produzione, slegato dai ritmi della natura. La rivoluzione non risiede soltanto nelle potenzialità tecniche della macchina a vapore, ma anche “in una radicale ridefinizione dei rapporti fra il lavoro e il tempo: si introduce l’idea di un sistema in cui le operazioni produttive non si fermano mai, di un lavoro che, per diventare più redditizio, funziona appunto 24/7”.
Il processo di erosione della notte va di pari passo con l’affermazione del capitalismo: la rottura di ogni barriera fisica o temporale è un requisito fondamentale per la produzione e la circolazione delle merci.
Un secolo più tardi, l’illuminazione fa il resto. Nel 1879 Thomas Edison inventa la lampadina a incandescenza, più economica e sicura rispetto alle lampade a petrolio. La diffusione dei lampioni, già in uso in alcune città, si fa massiccia. La notte diventa meno buia: i pericoli immaginati e reali (folletti, spiriti, ladri, assassini) si ridimensionano alla luce dei lampioni, così come la carica sovversiva che l’oscurità garantiva alle classi inferiori, a contadini, popolani, reietti. Il loro posto viene preso dalle attività commerciali che rimangono aperte più a lungo, la gente va a dormire più tardi.
L’accelerazione del processo di erosione della notte va di pari passo con l’affermazione del capitalismo: la rottura di ogni barriera fisica o temporale è un requisito fondamentale per la produzione e la circolazione delle merci. Come scrive ancora Crary: “le metamorfosi e le accelerazioni di un capitalismo in via di sempre maggiore globalizzazione, tuttavia, si imposero solo in modo lento e parziale sull’esistenza individuale e collettiva”. Ci sono ancora sacche di resistenza, aree dimenticate e zone d’ombra nel processo di ammodernamento. A volte per essere superate, bisogna intervenire direttamente sulla natura.
Luce eterna
Nel corso degli anni Novanta, la Russia ha dichiarato una tacita guerra alla notte. Un gruppo di scienziati e ricercatori, guidati da Vladimir Sergeevich Syromyatniko, si è dedicato a un progetto ambizioso quanto fantascientifico: mandare in orbita una catena di satelliti dotati di riflettori, sincronizzati con il movimento del sole, che potessero intercettarne la luce e illuminare intere porzioni di terra nelle ore notturne. Praticamente, grossi specchi lanciati nello spazio. L’impresa era nata con l’intenzione di allungare i tempi di lavoro, agricoli e industriali, nella Russia settentrionale e in Siberia – dove gli inverni sono particolarmente rigidi e le ore di luce molto ridotte – per permettere di continuare la produzione a cielo aperto anche nei mesi più bui. Lo stesso meccanismo poteva essere applicato alle città, dove il risparmio in termini di elettricità sarebbe stato consistente. La luce riflessa avrebbe dovuto essere cento volte più potente di quella di una luna piena.
Negli anni Novanta, in Russia un gruppo di scienziati e ricercatori, cercò di mandare in orbita una catena di satelliti che potessero illuminare intere porzioni di terra nelle ore notturne.
Syromyatniko, un veterano della ricerca spaziale sovietica, programma una serie di test di crescente difficoltà. Il primo satellite-specchio, Znamya 2, viene lanciato nel 1993 e funziona. Un raggio di luce dal diametro di cinque chilometri illuminò l’Europa, spostandosi dal Sud della Francia alla Russia occidentale alla velocità di 8 chilometri al secondo. Molte persone dichiararono di aver visto un raggio di luce. A questo punto crescono l’interesse mediatico e le aspettative, ma anche le critiche mosse da ambientalisti preoccupati dell’impatto di una luce perenne su uomini, animali e vegetazione. Il fatidico lancio di Znamya 2.5 – un upgrade del satellite-specchio precedente – è previsto per il 5 febbraio 1999; ma fallisce. I resti di Znmaya 2.5 prendono fuoco a contatto con l’atmosfera. Syromyatniko non si arrende e negli anni che lo separano dalla morte continuerà a lavorare a Znamya 3, solo e senza fondi.
Sembrerebbe una storia di hybris umiliata, se non fosse che qualche mese fa anche la Cina ha annunciato un progetto simile. La Chengdu Aerospace Science and Technology Microelectronics System Research Institute Company (CASC) sta lavorando a una luna artificiale, otto volte più luminosa di quella naturale, che ha l’obiettivo di ridurre i costi dell’illuminazione artificiale di notte su un’area ampia fino a 80 chilometri quadrati. Il lancio del satellite è pianificato per il 2020 e alle preoccupazioni dei gruppi ambientalisti per il ritmo circadiano degli animali è stato risposto che il satellite “emetterà un bagliore simile a quello del crepuscolo”.
La lotta al sonno
Non sono solo gli animali a subire le conseguenze di una società che non vuole fermarsi mai. “Viviamo in una società attiva ventiquattr’ore su ventiquattro, ma non in un corpo in grado di funzionare ventiquattr’ore su ventiquattro”, scrive Matt Haig in Vita su un pianeta nervoso (edizioni e/o, 2019). “L’Organizzazione mondiale della sanità ha rilevato un’epidemia di deprivazione del sonno nelle nazioni industrializzate” continua, con tutte le conseguenze che questa deprivazione comporta: problemi di salute fisici e mentali, predisposizione a sviluppare malattie e depressione.
Ci sono aziende e settori commerciali che fioriscono grazie a una battaglia al sonno, basta pensare a Netflix o ai tour de force di imprenditori come Elon Musk.
La mancanza di sonno portata alle sue estreme conseguenze, però, presenta delle ambivalenze anche dal punto di vista della produttività: da un lato, i problemi fisici e mentali indotti dallo stato di veglia prolungato compromettono la funzionalità e l’efficienza sul lavoro, portando di fatto a riflettere sull’eventualità di un effetto boomerang a livello economico. Dall’altro, ci sono aziende e settori commerciali che fioriscono proprio grazie a una battaglia al sonno. “Ai giorni nostri, in questo stadio avanzato del capitalismo, il sonno ha cominciato a essere considerato non soltanto un elemento che rallenta la produttività, ma anche un vero e proprio rivale in affari” continua Haig. Basti pensare alla dichiarazione dell’amministratore delegato di Netflix, Reed Hastings, rilasciata a una convention di settore: “Se c’è un programma o un film che muori dalla voglia di vedere rimani sveglio fino a tardi. Siamo in competizione con il sonno”. Oppure ai tour de force di imprenditori come Elon Musk, che in un’intervista al New York Times ha dichiarato di lavorare fino a 120 ore a settimana.
“Il sogno perverso del capitalismo è un mondo di insonni, un pianeta in costante stato di veglia” scrive Davide Mazzocco in Cronofagia (D Editore, 2019). Il saggio, che prende il titolo da I cronofagi di Jean Paul Galimbert, passa in rassegna le aree depredate di tempo dal capitalismo. Tra campagne di marketing, social e FOMO, Mazzocco sottolinea come: “i pochi interstizi di libertà che in passato sarebbero stati tempi morti vengono oggi occupati da strumenti digitali che espellono la noia dalle nostre vite e ci rendono liberi e potenzialmente attivi 24/7”.
E se un’alternativa fosse proprio in questa condizione passiva? In un tempo dipendente dall’attività, le forme di resistenza potrebbero prendere la forma di stati tipicamente considerati negativi come la noia, appunto, o il sonno – come suggerito da Crary – o ancora la stanchezza. Di questo scrive il filosofo Byung-Chul Han in La società della stanchezza, sottolineando come nel Ventunesimo secolo si è sancito il passaggio verso una “società della prestazione”, guidata da una sensazione positiva di “poter-fare” illimitato. Ognuno è imprenditore di sé stesso, l’inconscio sociale “è palesemente animato dallo sforzo di massimizzare la produzione”. Per rispondere a questo eccesso di positività, Byung-Chul Han offre la prospettiva di una “stanchezza fondamentale”, già postulata dallo scrittore Peter Handke. Più che uno stato, si tratta di una facoltà “che abitua l’essere umano a un particolare abbandono, a un quieto non-fare”: porta a un ritmo, a un’armonia, a una prossimità. È il ritorno a un ritmo condiviso, a una stanchezza non vissuta privatamente. La stanchezza che prelude al sonno.