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ualsiasi discussione sulla fattografia deve iniziare affrontando l’insolita peculiarità del termine “fattografia” stesso: un termine tecnico e deliberatamente inusuale coniato in Russia nella seconda metà degli anni Venti per indicare una specifica pratica estetica ossessionata dall’iscrizione dei fatti. Chi ha una certa familiarità con le altre avanguardie di quegli stessi anni, e che potrebbe essere scettico riguardo l’entusiasmo con cui i sovietici inventavano nuovi termini, si chiederà se la fattografia non sia semplicemente un altro termine per indicare il documentario. Nonostante l’indiscutibile prossimità tra la fattografia e le pratiche al di fuori della Russia, anch’esse impegnate nel progetto di documentare la modernizzazione e le trasformazioni che questa comportava per le condizioni dell’esperienza umana, esistono delle differenze cruciali tra l’avanguardia fattografica sovietica e il documentario tradizionalmente concepito. La principale differenza riguarda l’orientamento epistemologico: se il termine “documentario”, creato nel 1926 dal cineasta John Grierson, indica un’opera che mira a rappresentare la realtà nel modo più obiettivo possibile, questa pratica rappresentazionale passiva e imparziale non potrebbe essere più distante dalle ambizioni della fattografia. Sergei Tret’iakov, la figura più rappresentativa del movimento, basava tutta la sua prassi sulla nozione di “operatività”, sostenendo che la sua opera non rifletteva in modo veritiero la realtà, ma la trasformava attivamente. L’oggettivismo di un documentario neutrale non trovava spazio nelle pratiche interventiste dei fattografi.
Sebbene possiamo iniziare a evidenziare certe differenze tra la fattografia e gli impulsi documentaristici convenzionali, fornire una definizione normativa del genere fattografico presenta ulteriori problemi. L’esplicita preferenza del movimento per il foto-essay e altre ibridazioni intermediali, per esempio, rende difficile una classificazione estetica convenzionale e i tentativi di definire uno stile fattografico coerente. Futuristi per provenienza, i fattografi che pubblicavano sulla rivista Novyi lef non prestavano grande attenzione alle tradizionali divisioni tra le arti. Tret’iakov, che lavorò come fotografo, autore di prosa, drammaturgo, reporter, sceneggiatore, commentatore radiofonico e poeta lirico, considerava il genere come un aspetto mutevole e proteiforme dell’opera d’arte, che doveva essere dinamicamente e opportunamente negoziato nel processo di produzione estetica. Per lui, stile e genere non erano valori fissi. In questo contesto, la concettualizzazione fattografica del genere deve molto al modello di evoluzione culturale descritto da Iurii Tynianov nel suo saggio del 1924 su Lef intitolato “Sul fatto letterario”. Poiché i confini tra i generi sono sempre in movimento e i territori delle forme testuali continuano a sovrapporsi, sostenne Tynianov, è impossibile stabilire una definizione di genere fissa o immutabile. Non esiste un “assolutismo” generico, come scrisse Nikolai Chuzhak nel 1929 nella sua introduzione all’antologia di Lef, “La letteratura del fatto”. Come Tynianov, i fattografi consideravano il “fatto” estetico non come qualcosa di apodittico e senza tempo, ma come un fenomeno che emergeva da un processo di valorizzazione culturale. I membri di Lef, in altre parole, concepivano la fattografia non come un genere statico, ma come una prassi. Per loro, il fatto era il risultato di un processo di produzione. La stessa etimologia della parola “fatto”, che deriva dal latino facere – “fare” (questa derivazione si riflette anche nella parola francese le fait, participio passato del verbo faire) – testimonia la natura costruita del fatto. Il fatto è letteralmente creato. Mentre alcuni assocerebbero il fatto al Ding an sich della filosofia idealista e altri lo equiparerebbero alla materia oggettiva, la sostanza del materialismo ontologico, Tret’iakov rifiutò sia la Scilla del noumenalismo che la Cariddi del fenomenalismo, proponendo invece una concezione del fatto come un’azione, un processo, un’operazione. La sua posizione richiamava così il famoso adagio di Vico, verum factum: “la verità è un atto”.
La fattografia era l’erede immediata dell’arte della produzione sovietica dei primi anni Venti; entrambi i movimenti perseguirono un’arte il cui compito non era riflettere l’esperienza umana, ma costruirla e organizzarla attivamente.
E quindi, mentre potrebbe essere quasi impossibile specificare delle categorie stilistiche o delle etichette stabili per l’opera fattografica, la sua pratica modale e orientata all’azione suggerisce comunque un’osservazione sulla sua genealogia: la fattografia era l’erede immediata dell’arte della produzione sovietica dei primi anni Venti. Entrambi i movimenti perseguirono un’arte il cui compito non era riflettere l’esperienza umana, ma costruirla e organizzarla attivamente. Eppure, il modo in cui i loro praticanti concepirono l’esperienza, segna una profonda divergenza tra la prima generazione di arte della produzione e la fattografia. Nel tentativo di correggere l’errore di un costruttivismo di laboratorio non utilitaristico che riduceva l’opera d’arte a uno schema combinatorio fatto di segni convenzionali, l’arte della produzione riconosceva solo le caratteristiche sensuali e somatiche degli oggetti progettati per l’uso quotidiano. La fattografia, a sua volta, sfidò il positivismo unilaterale di quest’arte della produzione reincorporando nella sua concezione dell’oggetto i sistemi simbolici e ideologici che erano stati trascurati dal suo predecessore. In questo senso, la fattografia può essere intesa come una sublimazione della logica formalista-strutturalista del costruttivismo di laboratorio e dell’iper-materialismo della prima arte della produzione. Come ha dimostrato Benjamin H.D. Buchloh nel suo influente saggio “From Faktura to Factography”, i fattografi diedero battaglia non solo con corpi fisici e dimensionali, ma anche con corpi di conoscenza sociale collettiva e reti di comunicazione. In questo riorientamento delle pratiche artistiche verso l’informazione e il discorso, inoltre, essi concepirono il processo di significazione non come un semplice sistema di riflessione mimetica, ma come un atto di lavoro produttivo.
Quel decennio ha subito una rivoluzione mediatica che ha drasticamente cambiato il rapporto vissuto con il linguaggio e un movimento di corrispondenza operaia che aspirava a trasformare il consumatore di informazioni nel loro autore.
Questa radicale riconfigurazione del rapporto tra lavoro e semiosi apparteneva a un momento storico specifico degli anni Venti, quello della rapida trasformazione dell’Unione Sovietica in una società mediatica moderna. È infatti impossibile comprendere il progetto fattografico senza tener conto della concomitante esplosione delle nuove tecnologie dei media e del loro impatto sull’emergere di nuove formazioni culturali di massa. Quel decennio non solo ha subito una rivoluzione mediatica dovuta all’avvento della radiodiffusione, all’introduzione del suono nel cinema e alle procedure fotomeccaniche che hanno permesso la proliferazione della stampa illustrata, ma ha anche visto emergere organizzazioni di fotografia popolare, campagne di alfabetizzazione di vasta portata che hanno drasticamente cambiato il rapporto vissuto con il linguaggio e un movimento di corrispondenza operaia che aspirava a trasformare il consumatore di informazioni nel loro autore. I nuovi media divennero fatti ordinari della vita. Che la fattografia abbia iniziato a raggiungere l’apice della sua influenza e coerenza metodologica intorno al 1927, che Guy Debord stabilì poi essere l’anno inaugurale della società dello spettacolo, non è quindi in alcun modo un caso, poiché le pratiche fattografiche presuppongono una società sulla soglia dell’era mediatica moderna. In questa società, dove la distinzione tra l’oggetto e la sua immagine diventava sempre più debole, i fattografi compresero i processi di significazione non come riflessi veritieri o duplicazioni di una realtà ontologicamente primaria, ma come componenti effettive e oggettive dell’esperienza quotidiana vissuta. L’era che vide la fine del divario tra la vita e la sua rappresentazione spinse l’avanguardia sovietica a sviluppare modelli di produzione e costruzione che comprendessero sia l’esperienza fisica che quella psichica.
La fattografia sovietica era ossessionata dalle imprese colossali: in un solo decennio, un paese che era stato quasi completamente deindustrializzato dalla guerra civile divenne uno degli esempi più drammatici di modernizzazione accelerata.
Sebbene molti elementi del suo programma fossero già stati articolati verso la metà degli anni Venti, il fiorire del movimento fattografico negli ultimi anni del decennio coincise con il massiccio prometeismo industriale del primo Piano quinquennale, avviato nel 1928. Questa congiunzione conferma un modello generale di consonanza storica tra le campagne di industrializzazione e i progetti documentari volti a registrare e archiviare queste trasformazioni. Infatti, le grandi imprese documentaristiche sono sempre state attratte dai luoghi di rapida modernizzazione e riorganizzazione sociale. La grande opera fotografica degli anni Cinquanta del XIX secolo, la Mission Heliographique, aveva tra i suoi obiettivi quello di documentare Parigi alla soglia dell’haussmannizzazione. In modo simile, in Germania la Ruhrgebiet esercitò una forte attrazione sui giornalisti della Nuova Oggettività, che consideravano la provincia industriale come l’epicentro delle nuove formazioni culturali degli anni Venti. O ancora, l’archivio fotografico della Farm Security Administration, che immortalò l’America premoderna e i suoi piccoli centri urbani sulla soglia della loro estinzione durante l’era delle riforme del New Deal. In modo simile, la fattografia sovietica era ossessionata dalle imprese colossali: l’organizzazione delle aziende agricole collettive, la costruzione della diga sul fiume Dnepr o l’opera di ingegneria urbana e sociale di Magnitogorsk. In un solo decennio, un paese che era stato quasi completamente deindustrializzato dalla guerra civile divenne uno degli esempi più drammatici di modernizzazione accelerata. Guardando a quell’epoca passata, un reporter sovietico si meravigliò di come “tutto era nuovo, tutto era per la prima volta. Le prime fabbriche, i primi kolchoz, le prime cucine collettive… L’informazione stessa era interessante di per sé” (E. Mikulin, “Gody i dni”in Problemy stanovleniia sotsialisticheskogo realizma v russkoi i zarubzhenoi literature). Con così tante rivoluzioni culturali e tecniche che accadevano simultaneamente, l’Unione Sovietica negli anni Venti era, per prendere in prestito una frase di Dziga Vertov, una “fabbrica di fatti”.
La radicale rivalutazione delle tecniche di genere e la produzione di “fatti” estetici innovativi e coerenti con la nuova realtà socialista appartenevano a un momento di radicale rivalutazione nei sistemi di significazione.
Oltre a dedurre una forte corrispondenza storica tra i processi di modernizzazione e una varietà di progetti documentari pensati per tener traccia di queste trasformazioni, notiamo come, nel caso della fattografia, il Piano quinquennale abbia chiaramente contribuito non semplicemente sul piano dei contenuti o delle tematiche. I fattografi non hanno solo rappresentato la costruzione delle fabbriche e la riorganizzazione della società, ma hanno anche partecipato attivamente a questi cambiamenti, incorporando nelle loro pratiche i nuovi mezzi tecnici e i nuovi media. Adottando il Piano quinquennale come base della loro arte, i membri di Lef non furono solo testimoni, ma anche complici della modernizzazione della cultura stessa. Mayakovsky avrebbe riassunto questa strategia nel 1927 in una formula poetologica laconica: “Meno AKhRR, più industrializzazione”. La loro radicale rivalutazione delle tecniche di genere e la loro produzione di “fatti” estetici innovativi e coerenti con la nuova realtà socialista appartenevano a un momento di radicale rivalutazione nei sistemi di significazione. Cercando di ri-coordinare i codici simbolici del linguaggio e dell’arte con le nuove configurazioni sociali e le forze di produzione emerse nell’epoca post-rivoluzionaria, i fattografi futuristi risposero alla richiesta di un nuovo linguaggio che potesse non solo designare gli oggetti della modernità socialista, ma che sapesse anche esprimere le nuove relazioni umane, le istituzioni e i principi ideologici nati alla luce del 1917. Da L’arte nella rivoluzione e la rivoluzione nell’arte (1923) al suo Lo scrittore e il villaggio socialista (1931), molti dei testi di Tret’iakov partono dall’osservazione che la fattografia facilitasse e al tempo stesso fosse condizionata da una rivoluzione nel linguaggio.
Pensando attraverso i suoi oggetti piuttosto che teorizzandoli in modo assiomatico, questa scienza empirica e sociologica ristabilì i punti di contatto tra la contingenza caotica dei fenomeni materiali e la logica speculativa della cognizione astratta.
Nel loro sforzo di industrializzare e ristrutturare le convenzioni della significazione stessa, nella ricerca di ciò che il poeta e scienziato Aleksei Gastev chiamava la “tecnificazione della parola” (tekhnizatsiia slova), i fattografi respinsero l’eredità delle belle lettere e delle belle arti, e si rivolsero invece alla scienza come base discorsiva del loro lavoro. Nel 1928, ad esempio, Tret’iakov si dichiarò d’accordo con una dichiarazione di un membro del Komsomol secondo cui “un tecnico è molto più necessario di dieci poeti mediocri”; Tret’iakov aggiunse inoltre che “saremmo d’accordo anche nell’omettere la parola mediocre” da questa affermazione. Infatti, i fattografi scoprirono nei metodi scientifici e tecnologici applicati una sfera di produzione del sapere de-autonomizzata e funzionalista che prometteva di dequalificare le tradizioni oscurantiste della creazione estetica e di riorganizzare le ormai superate e artigianali condizioni dell’autorialità, guardando invece ai metodi collettivi della produzione moderna. Dobbiamo tuttavia sottolineare che la scienza sperimentale perseguita dai fattografi era molto diversa dal calcolo astratto del razionalismo occidentale. A differenza di quest’ultimo – un metodo idealista che inizia la sua indagine con teoremi già reificati e finisce sempre riconfermando le ipotesi da cui era partito – la fattografia era una scienza compromessa e induttiva che prendeva il particolare assoluto, piuttosto che l’universale, come suo punto di partenza. Pensando attraverso i suoi oggetti piuttosto che teorizzandoli in modo assiomatico, questa scienza empirica e sociologica ristabilì i punti di contatto tra la contingenza caotica dei fenomeni materiali e la logica speculativa della cognizione astratta. Gli sforzi per rimediare al divario tra la conoscenza astratta e l’esistenza quotidiana vissuta situano i fattografi nella corrente del “marxismo fenomenologico”, che fiorì negli anni Venti e si impegnò nella costruzione di ciò che Oskar Negt e Alexander Kluge hanno descritto come un completo “contesto di vita” (Lebenszusammenhang) – una prospettiva sull’’esperienza umana che è cognitivamente coerente eppure concretamente esperienziale e sensuale.
La pluralità di nomi con cui questa pratica era chiamata nell’Unione Sovietica – fattografia, reportage, fatismo, documentarismo – è indice del fatto che non ci fosse una singola metodologia o modello concettuale che potesse abbracciare tutte le manifestazioni di questa pratica incerta.
Un’arte della teorizzazione dell’esemplare unico, della mediazione tra fatto e legge, la fattografia era un’arte indessicale. La singolarità e l’incommensurabilità del lavoro fattografico ci riporta di nuovo alla spinosa questione della fattografia come genere. Poiché ogni oggetto prodotto dai fattografi rappresentava un’impressione unica, le strategie presentate dalla fattografia futurista avevano quindi pochi, se non addirittura nessun, precedente di genere. A differenza dei documentari di oggi, che nell’era dei reality show si sono definitivamente consolidati in uno stile riconoscibile, sinonimo di autenticità e immediatezza, negli anni Venti queste tecniche non erano ancora state codificate come un insieme stabilito di effetti di realtà. La pluralità di nomi con cui questa pratica era chiamata nell’Unione Sovietica – fattografia, reportage, fatismo, documentarismo – è indice del fatto che non ci fosse una singola metodologia o modello concettuale che potesse abbracciare tutte le manifestazioni di questa pratica incerta. Da qui il disprezzo di Georg Lukács nel 1932 per il documentario come “esperimento formale” (Formexperiment). Usando una frase tratta da uno degli articoli di László Moholy-Nagy, potremmo descrivere il lavoro fotografico dei membri di Lef “senza precedenti” (beispiellos). I testi letterari dei fattografi, ciascuno dei quali era analogamente equivalente solo a se stesso, assunsero la forma dell’ocherk, un genere in prosa, in parte indagine scientifica, in parte composizione letteraria, i cui corrispettivi più vicini nella tradizione dell’Europa occidentale sono il saggio breve o la scenetta. Eppure dovremmo essere cauti nel descrivere l’ocherk come un genere. Tret’iakov stesso, nell’introduzione di una conferenza sull’ocherk che si tenne a Mosca nel 1934 disse: “Non voglio usare la parola ‘genere’ in questa sede, anche se non riesco a trovare una parola diversa. L’ocherk non è un genere. L’ocherk è un grande movimento. Al suo interno si annidano dozzine di generi diversi – un’intersezione di strati, come si dice in geologia. L’ocherk si trova nel punto di contatto tra la letteratura artistica e il giornalismo”. Le osservazioni di Tret’iakov sulla volatilità dell’ocherk come categoria letteraria si avvicinano a tutti gli effetti ai commenti di Benjamin quando, a Parigi nello stesso anno, fece notare come il giornale sovietico avesse messo in moto una “imponente processo di fusione e rinnovamento delle forme letterarie”. L’ocherk era in questo senso l’analogia letteraria perfetta dell’instantanea “senza precedenti”, una forma costituzionalmente minore che resisteva alla classificazione generica e che, in effetti, distruggeva le condizioni stesse del mezzo estetico discreto. Tra scienza e letteratura, questo “esperimento formale” può essere descritto più accuratamente come una pratica retorica che come una precisa categoria di un’opera estetica.
Un estratto da AA.VV, Works Fall True (Krisis Publishing, 2024) .