G od save the Queen, the fascist regime”, cantavano i Sex Pistols nel 1977, prima di intonare il ritornello ripetendo “No future, no future, no future for you”. Il 1977 è lontano, il punk per alcuni non è ancora morto, ma la Regina Elisabetta decisamente sì, dicendo addio al pianeta Terra e al trono nel settembre 2022. E il futuro, che fine ha fatto? Nonostante i proclami nichilisti di Johnny Rotten, dopo cinquant’anni siamo ancora qui. Il futuro è arrivato eccome, sono arrivati gli anni Ottanta, la fine della Guerra Fredda, gli attentati dell’11 settembre, le crisi economiche.
Il guaio del futuro è che arriva sempre. Oggi sembra però una cosa da aspettare con sempre meno trepidazione e con sempre più ansia. Ci circonda un mondo al collasso: epidemie, inondazioni, incendi, temperature che aumentano, calotte polari che si sciolgono, banchise che si fanno ogni giorno più fragili. L’umanità moderna somiglia a un gruppo di bambini che giocano col fuoco: maldestri e incapaci di cogliere l’entità del rischio.
Non ci stiamo nemmeno vivendo la parte divertente dell’apocalisse. Non sono arrivati gli zombie da combattere, né gli alieni con cui trattare, non ci sono stati nemmeno i paesaggi mozzafiato di The Last of Us. Nessuno ci aveva detto che la fine del mondo sarebbe stata la cosa più noiosa che potessimo immaginare: si devono leggere dati complicati, ascoltare notizie provenienti da Paesi e città che quaggiù in Occidente non abbiamo mai sentito nominare, misurare i gradi e i centimetri di oceano. E poi stare dietro agli anziani, agli infermieri in burnout, impastare la pizza per tutta la famiglia e seguire lezioni universi tarie su Zoom. Il futuro arriva, a ogni modo, e bisogna farci i conti.
Il fascino del lungo termine
Questo testo ha come protagonisti gli autoproclamati creatori del futuro: professori di Oxford, miliardari della Silicon Valley, ideologi e guru degli ultraricchi. Mentre il resto del mondo arranca, tra il clima impazzito e la povertà, le elezioni e i colpi di Stato, le epidemie e le diseguaglianze che crescono, questo piccolo e agguerrito gruppo di potenti sostiene di avere in tasca le soluzioni, addirittura scientifiche, ai dilemmi esistenziali dell’umanità. La filosofia che propugnano promette di farci prosperare tra millenni, addirittura milioni di anni, ed è stata nominata, per questo motivo, lungotermismo.
In una società sempre più divisa, i lungotermisti ci dicono che siamo tutti uniti in un destino comune.
A livello logico, filosofico e politico è facilmente smontabile. Ma il fascino di questa ideologia è pervasivo, tanto che sta conquistando le grandi fondazioni filantropiche, le aziende multinazionali, le istituzioni. Nella pratica, le persone che si sono fatte portavoce del lungotermismo stanno acquisendo sempre più potere. La sua attrattiva è comprensibile. In una società sempre più divisa, i lungotermisti ci dicono che siamo tutti uniti in un destino comune. Mentre il futuro si fa ogni giorno più complesso e più incerto, i lungotermisti racconta no di una civiltà fiorente multiplanetaria. Ma se da una parte lasciarsi andare al nichilismo e alla rassegnazione è la ricetta per arrendersi alla follia dei tempi, affidarsi alle fantasie di un gruppo elitario autoreferenziale e scollegato dalla realtà è un biglietto di sola andata per il disastro.
Il mito del tempo
Un aspetto che rende così affascinante, allo stesso tempo così vuoto e a tratti ridicolo il lungotermismo è quello del tempo. I lungotermisti proiettano la vita umana milioni di anni nel futuro, promettono un’umanità florida, multiplanetaria e felice, se si seguono i loro calcoli.
Durante la pandemia abbiamo tutti vissuto una dilatazione, o una contrazione improvvisa, comunque un’alterazione significativa della nostra percezione temporale. C’è chi si ricorda il 2020 come un decennio della sua vita. C’è chi ha completamente rimosso diversi mesi passati in casa davanti allo smartphone, chi confonde le stagioni o le settimane, chi si sente più giovane o più vecchio. In tutto questo si parla diffusamente di paura della fine, ecoansia e ultime generazioni. L’orologio del cambiamento climatico ticchetta inesorabile, al ritmo di autunni ogni anno più caldi, di piogge sempre più scarse e catastrofi sempre più ravvicinate. Non c’è da stupirsi che una filosofia parareligiosa che promette ricchezze e be nessere millenni nel futuro, che vuole istruire le persone su come creare la migliore versione della società abbia un ascendente così forte in questo periodo storico.
Non si tratta di un’influenza forte, ovviamente, tra le persone comuni, ma tra le élite intellettuali e imprenditoriali. Tuttavia, alcune ideologie elitarie, spesso anche considerate bizzarre, possono influenzare enormemente la mentalità comune, come è già accaduto, tra gli anni Settanta e Ottanta, con il neoliberismo. I lungotermisti ci promettono un lungo avvenire pieno di novità emozionanti, prendendosi gioco dello spirito malinconico della nostra epoca.
Annullare la complessità
Abitiamo un mondo che sembra trovarsi sempre un passo più in là della nostra comprensione. In cui fare delle scelte giuste o etiche appare quasi impossibile. Possiamo decidere di consumare meno acqua quando facciamo la doccia, o diventare vegetariani, usare meno l’automobile, fare volontariato, attivismo, arruolarci in brigate di solidarietà internazionaliste.
Alcune ideologie elitarie, anche considerate bizzarre, possono influenzare enormemente la mentalità comune, come è già accaduto con il neoliberismo.
Tuttavia, la realtà resta troppo complessa per arrivare a comprendere, anche solo a concepire, la vasta rete di conseguenze delle nostre azioni. Mentre digito sulla tastiera sto utilizzando energia elettrica che proviene in parte da fonti fossili estratte con conseguenze disastrose sull’ambiente. L’applicazione cloud che uso per scrivere è alimentata da data center che consumano una spaventosa quantità di energia. I metalli presenti nelle batterie del mio smartphone sono estratti da multinazionali occidentali in Paesi del continente africano, nel totale spregio dei diritti umani basilari. Molti beni di consumo comuni sono prodotti da persone che lavorano senza tutele, venduti da colossi del commercio mondiale che hanno potere di negoziare alla pari con Stati nazionali. La guerra per il controllo delle risorse che ci servono per scaldarci, lavarci e muoverci destabilizza intere regioni.
Tra chi fa attivismo, cultura e si occupa di politiche trasformative da tempo imperversa una polemica – ci chiediamo quasi ossessivamente se abbia o meno senso mangiare carne, usare gli aerei, fare figli o se invece sia più utile premere per un’azione politica collettiva. Esistono varie sfumature e varie posizioni in questo dibattito, che può diventare, a seconda dei casi, molto appassionante o molto frustrante. Entrambe le posizioni agli estremi, credo, hanno un profondo senso politico. Chi pensa che le scelte individuali siano decisive per un cambiamento di paradigma spesso si concentra sulle pratiche alternative, e sul loro potere di trasformazione. Coloro che mettono l’accento sulla lotta collettiva rifiutano che l’individuo in quanto tale possa incidere in modo radicale sulla vita di una comu nità planetaria. Servono le rivoluzioni, i sovvertimenti del sistema. Esistono infinite scale di grigi tra queste due posizioni, che spesso coesistono nelle singole coscienze.
Il lungotermismo – e il suo predecessore, l’altruismo efficace (un’altra filosofia di stampo utilitarista) – pretende di risolvere questo problema in modo completamente apolitico. Annulla il conflitto, persino il dilemma: basta fare tanti soldi e donarli alle cause giuste, e con la magia di un’equazione matematica le grandi sfide del mondo si possono affrontare. Si può fare del bene, si può agire in maniera etica, in modo perfettamente efficace. Non serve chiedersi da che parte si sta, analizzare le sfumature complesse, praticare dibattito o immaginazione politica. Le risposte ai dilemmi del nostro tempo stanno in una formula, in valori concreti e misurabili. E soprattutto stanno nelle quantità: di soldi, di crescita, di persone che possono abitare la Terra o il cosmo.
La mancanza di sfumature ha di per sé anche un significato politico – il lungotermismo, infatti, non mette in nessun modo in discussione lo status quo. Non compie un’operazione di analisi sociale, ma funge perfettamente da giustificazione morale per l’assenza di cambiamento nelle strutture del capitalismo, del consumo, dei cicli di produzione contemporanei.
Per il lungotermismo si può agire in maniera etica in modo perfettamente efficace. Non serve chiedersi da che parte si sta, praticare dibattito o immaginazione politica.
Attraverso la lente della critica a questa filosofia molto specifica, ci si imbatte in diverse tematiche calde dell’attualità: il cambiamento climatico, la crescita delle intelligenze artificiali, le diseguaglianze, il potere, le marginalità. Domande e problemi a cui questa filosofia non sa realmente rispondere. Credo che ci sia una necessità reale, nella contemporaneità, di sognare e immaginare un futuro diverso. Ma per costruirlo non abbiamo bisogno del paternalismo di un manipolo di professori, miliardari e visionari hi-tech. Possiamo guardarci intorno, ispirarci ai tantissimi mo vimenti per la giustizia sociale che hanno animato la nostra apocalisse al rallentatore: da quello femminista queer, a quello ambientalista, alle lotte decoloniali e di contrasto al razzismo istituzionale. Al delirio di onnipotenza dei lungotermisti, che ci indicano una civiltà cosmica e multiplanetaria, perfetta e funzionale, possiamo contrapporre un punto di osservazione posiziona to strategicamente in basso, nel piccolo, nel vicino, nel provinciale – dove i cambiamenti possono avvenire in prossimità delle radici. Possono essere, cioè, radicali.
Estratto da L’utopia dei miliardari. Analisi e critica del lungotermismo, Tlon 2024.