L’ opera di Goliarda Sapienza (1924-1996) ha come nucleo propulsivo la ricerca della libertà, ovvero la costruzione di un soggetto capace di autodeterminazione e agentività piena, di libera disposizione di sé, del proprio corpo, dei propri desideri, del proprio piacere. La sua opera si configura quindi come uno spazio di osservazione dei processi che la costruiscono e degli ostacoli che la impediscono. Sapienza individua un primo grande ostacolo all’autodeterminazione nell’essere donna; le donne, di conseguenza, diventano la sua ossessione. In una lettera a Enzo Siciliano le definisce “il mio unico pianeta, la mia unica ricerca, il mio unico ‘partito’ e forse, oltre l’amicizia, il mio unico scopo nella vita”; in Lettera Aperta, il primo romanzo, specifica:
queste donne mi visitano la notte […], essendo derelitte, vittime della società, io fui costretta ad amarle, a conoscere le loro storie […] a pensare solo a loro, scrivere solo di loro
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Le donne a cui fa riferimento sono quelle che chiama le donnette, ovvero le donne che si sottomettono pienamente al ruolo sociale, senza discussione. Contrapposto alla donnetta – subordinata, votata al matrimonio, alla maternità, alla stupidità, alla civetteria, alla sofferenza – Maria Giudice, sua madre, che le offre un modello di donna completamente atipico: intelligente, colta, indipendente, poco femminile, poco materna, votata a un’ascesi politico-militante e, anche lei, a un certo grado di sofferenza. Quale scegliere?
L’infanzia che vive Sapienza è ricca di stimoli, unica: la sua casa accoglie uomini e donne, intellettuali e militanti politici, artisti, persone di tutte le origini e classi sociali; ha un esercito di fratelli e sorelle nati dai precedenti matrimoni dei genitori e la cura non è spalmata su padre e madre ma su tutte le figure di casa (il fratello Ivanoe la allatta, la cura dalla difterite e le somministra Courteline come antidoto a D’annunzio; il fratello Carlo Marx le insegna la boxe); viene ritirata dalla scuola e continua gli studi in casa col precettore Jsaya, un epurato dalla scuola fascista; oltre ai libri di letteratura, storia, filosofia, Sapienza impara la vita dai maestri che incontra durante le scorrazzate per la Civita di Catania: pupari, prostitute (e prostituti), marinai, emarginati sociali, gente del malaffare, poveri. In questo caleidoscopio dove tutto è possibile, l’unica cosa impossibile è l’autodeterminazione all’interno del genere: come le ricorda il precettore Jasaya, Goliarda è femmina, intelligente sì, ma comunque femmina, cioè vincolata al destino di donna, quindi, inevitabilmente, destino di imbecille:
scusa Goliarda, sono argomenti che mi fanno quagliare il sangue negli occhi, ma tu non centri, tu sei una bambina, e sarai una donna imbecille come tutte le donne, ma molto carina
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Goliarda bambina ha solo due futuri a disposizione: diventare come sua madre o diventare una donnetta. L’istruzione e l’intelligenza la instradano sulla prima opzione, ma il costo della scelta di Maria Giudice è troppo alto: può essere libera e rispettata dagli uomini solo a patto di somigliare loro, di comportarsi come loro, col risultato che in definitiva quello di Maria Giudice smette addirittura di essere un modello di donna, perché aderisce in tutto e per tutto a quello di uomo. Il modello della madre, per Goliarda bambina, ha anche il problema di essere troppo alto, irraggiungibile: si rassegna allora a diventare una donnetta, andando a farsi insegnare da una conoscente del popolo, ma anche questo tentativo fallirà, per via di una vescica che le viene su una mano e che rappresenterà simbolicamente l’impossibilità, per chi ha fatto un passo fuori da una categoria, di potervi rientrare. Dal suo posizionamenteo, dal privilegio di un’infanzia stimolante, libera e colta, persino il racconto delle donnette, da cui è ossessionata, è impossibile:
essendo io nata e vissuta al secondo piano, piano nobile, […] che potevo saperne? Cercai, ma con terrore mi accorsi che non sapevo niente di loro e sotto quell’amore per loro, si nascondeva una indifferenza affatto piccolo-borghese.
Questa doppia delusione pone due interrogativi: di cosa scrivere, quindi? Come essere donna, quindi?
La scrittura, in realtà, arriva tardi. Fino ai trentanove anni, Sapienza recita, si arruola partigiana, vive la relazione d’amore col regista Citto Maselli, accudisce la madre negli anni della depressione e della pazzia. Soltanto con la morte della madre (libertà da un modello irraggiungibile) e il crollo della fiducia nel comunismo, mai totalmente data ma definitivamente distrutta dopo il XX congresso (libertà di mettere l’arte a servizio del proprio desiderio e non solo del proletariato), Sapienza si dà il permesso di scrivere. Inizialmente si dedica a poesie e brevi prose (pubblicate postume), poi si dedica al romanzo Carluzzo, ma dopo ottocento pagine si rende conto di doverlo abbandonare perché capisce di poter scrivere solo da un punto di vista incarnato in quell’essere femmina di cui non è venuta a capo, e forse, così, venirne a capo: “mi accorsi che erano cose mie che non avendo il coraggio di dire, appioppavo al povero protagonista. Insomma la solita donna che per avere il coraggio di parlare si traveste di panni maschili”.
Per Goliarda è impossibile accettare di crescere, se questa significa andare incontro a quello stato di morte.
I suoi primi romanzi, Lettera Aperta (LA) e Il filo di mezzogiorno (FM) hanno come protagonista, quindi, Sapienza stessa e nascono solo in seguito alla depressione e ai numerosi elettroschock subiti, in un tentativo di recupero della memoria, erosa dall’elettricità, e di analisi freudiana. Nel primo viene raccontata l’infanzia, nel secondo la terapia psicanalitica (con abbondante recupero di ricordi, di nuovo, dell’infanzia). Se in questi due testi il rapporto col femminile è vissuto con angoscia (abbiamo citato la disperazione nel rendersi conto di non poter mai né essere né scrivere di donnette), una versione del racconto d’infanzia più distaccata e in qualche misura risolta si ha in Io, Jean Gabin (JG). In quest’opera Sapienza trova una soluzione provvisoria al problema di aderire a questo o quel modello femminile decidendo piuttosto di identificarsi pienamente in un uomo, il divo del cinema Jean Gabin. Identificandosi con lui la bambina Sapienza incarna pienamente il maschile, non il femminile mascolinizzato di Maria Giudice, acquisendone sguardo (e disprezzo per le donnette), corpo desiderante e possibilità di libertà.
La tensione col genere femminile e il suo portato di problemi e rapporti di potere viene completamente annullata nella tensione omoerotica, più o meno realizzata: la relazione con Nica, una bambina, in LA e con Jean, una giovane americana, in JG, sono finalmente rapporti tra pari che permettono un riconoscimento pieno del sé senza l’asfissiante e continua interrogazione sulle categorie identitarie e le dinamiche di potere. Il ritorno alla fatica di crescere, e quindi di identificarsi in qualcosa, è dato sia dagli schiaffi di Maria Giudice, che sorprende la figlia abbracciata nuda con Nica, sia dalla scoperta delle mestruazioni. Il sangue che arriva a Nica ne prosciuga la vitalità e la inquadra in una nuova forma di esistenza, adulta e donna, depressa e rassegnata, da cui l’infanzia, l’assenza del sangue, la teneva al riparo.
Per Goliarda è impossibile accettare di crescere, se questa significa andare incontro a quello stato di morte, e arriva a teorizzare che sua madre, l’unico altro modello di adultità femminile a lei visibile, deve per forza essere esente dalla sanguinosa barbarie. Qui è importante osservare che sia il rifiuto dei marcatori dell’identità femminile sia l’identificazione con Jean Gabin non avvengono in virtù di un sentirsi maschio, ma sono meramente strumentali: l’uomo gode di uno spazio di libertà, io voglio quello spazio di libertà, io divento uomo. Allora per quale ragione o a quale scopo rifiutare il modello di Maria Giudice, sicuramente praticabile, per illudersi identificandosi in un modello impraticabile, Jean Gabin? Perché Maria Giudice rappresenta una mutilazione del sé incarnato mentre Jean Gabin è pienamente corpo, pienamente desiderio.
L’operazione di Maria Giudice implica la rinuncia al corpo, in linea con la dicotomia che vede la donna corpo e l’uomo mente (Cavarero; Butler), quindi la rinuncia alla materialità corporea (aisthesis) e l’adesione alla razionalità astratta e universale (logos) attribuite all’uomo permette l’accesso al privilegio maschile di poter godere di libertà. Sapienza individua proprio in questa rinuncia al corpo, quindi al desiderio, quindi al piacere, la pazzia della madre, dimostrando la fallacia della sua strategia. È interessante notare che mentre il modello femminile della donnetta esclude il logos e il modello di Maria Giudice esclude l’aisthesis, l’uomo può integrare logos e l’aisthesis, godere di razionalità e sessualità, e l’esempio paterno ne è una conferma: Peppino Sapienza, avvocato del popolo e militante politico, vive una sessualità piena, sfrenata e problematica. Sapienza cerca la soluzione di questa impasse (per vivere liberi bisogna rifiutare il corpo, rifiutando il corpo si muore di pazzia) nell’analisi, ma Majore, rinomato psicanalista che la segue dopo un tentativo di suicidio, ricama attorno alla paziente un’analisi perfettamente freudiana, impeccabilmente maschilistica, storicamente inadeguata alla comprensione di un problema sociale quale è il genere.
A Sapienza resta solo un ultimo luogo dove tentare di trovare una soluzione: la scrittura romanzesca. Prima però di arrivare all’Arte della gioia (AG), è interessante aprire una parentesi sulle opere carcerarie: L’università di Rebibbia (UR) e Le certezze del dubbio (CD), che raccontano rispettivamente l’esperienza del carcere e la vita subito dopo il carcere. Qui la riflessione sul genere diventa più collettiva: se è vero che, da una parte, il carcere rappresenta la massima espressione del dominio patriarcale dove i detenuti, uomini e donne, subiscono un restringimento della libertà e un processo di infantilizzazione (dipendenza rispetto ai bisogni), dall’altra è vero che le donne subiscono meno l’impatto di questa contrazione, essendo già abituate alla sottomissione e alla dipendenza, e possono godere di un aspetto collaterale imprevisto e interessante: l’assenza del genere maschile. La comunità di donne, svincolata dall’uomo, permette alle sue componenti un certo grado di liberazione legata al riconoscimento, e addirittura, nel caso del circolo ristretto di detenute quagliato intorno al personaggio carismatico di Susie Wong, una sorta di pratica di autocoscienza e impoteramento. Come dice Roberta, detenuta, “[in carcere] si torna a vivere in una piccola collettività dove le tue azioni sono seguite, approvate se sei nel giusto, insomma, riconosciute. Tutte capiscono perfettamente chi sei – e tu lo senti – in poche parole non sei sola come fuori…”.
La natura è per Sapienza luogo precedente alle categorie, foriere di sofferenza e di morte, dove si può esistere pienamente nel corpo sessuato senza la complicazione sociale del genere.
Anche nell’intervista – fattale da un Enzo Biagi imbarazzante – Sapienza afferma che il carcere è per le donne un luogo di affermazione:
[le ragazze] si affezionano al carcere ed è la cosa più terribile perché ormai dentro il carcere sono protagoniste, lì dentro vivono una vita eccezionale, lì dentro ragazzine che sarebbero finite per fare la manicure, lì dentro diventano le regine, perché lì se hai talento ti viene riconosciuto.
Biagi, irritato da ciò che non sta ottenendo, cioè una narrazione vittimistica delle donne detenute (Non c’è niente che umilia le donne in carcere?) interrompe continuamente i ragionamenti di Sapienza, rifiuta il suo approccio vitalistico e agentivo, l’epistemologia della prospettiva subalterna. Preso atto dell’impossibilità di una soluzione al problema del genere nella realtà (fallimento del modello materno senza corpo, fallimento di transizione piena verso il genere maschile, fallimento della psicanalisi, fallimento della possibilità di una comunità di sole donne) la finzione narrativa resta l’unico spazio possibile da esplorare. Nella pièces teatrale Il cherubino, una delle protagoniste dice a un ragazzo che vuole effettuare la transizione di genere:
Sei un uomo e una donna nello stesso tempo. E che male c’è? Un uomo e una donna insieme. […] Vorresti tu, con decisioni affrettate, diventare o un maschiaccio prepotente come tuo padre, o una donna forse troppo donna come me, tua madre…? Perché continuate ad assumere questi ruoli a tutto tondo, disumani, che ci hanno condotto a separazioni e solitudini angosciose? […] Lascia fare alla natura. Cresci libero!
La natura è per Sapienza luogo precedente alle categorie, foriere di sofferenza e di morte, dove si può esistere pienamente nel corpo sessuato senza la complicazione sociale del genere. Questa premessa ci traghetta a Modesta, la protagonista dell’Arte della gioia. Modesta raccoglie il testimone lasciato da Sapienza nelle ultime righe di LA: “Vorrei tacere per qualche tempo, e andarmene a giocare con la terra e con il mio corpo”. E infatti nella prima pagina di AG troviamo la protagonista bambina “in uno spazio fangoso che trascino un pezzo di legno immenso”, quindi immersa con le caviglie nella terra, e dopo poche righe la osserviamo scoprire, “toccandomi lì dove esce la pipì, che si provava un godimento più grande che a mangiare il pane fresco”. La dimensione carnale, il desiderio, il piacere, sono legati alla terra, alla natura profonda dell’essere umano, e costituiscono quindi la base presociale che permette di salvarsi dal mondo, nel mondo.
Il piacere, in AG, è insieme principio regolatore delle scelte e obiettivo da perseguire: l’orgasmo tornerà spesso, oltre che come godimento tout-court, come momento di comprensione della realtà, chiarezza rispetto alla direzione da seguire in quanto riallinamento col proprio desiderio, e quindi, con la propria natura. Non solo: come nota Bazzoni (Scrivere la libertà. Corpo, identità e potere in Goliarda Sapienza), in una visione husserliana in cui la libertà si dà solo a partire dalla libertà, il piacere è per Modesta il fondamento propulsivo della liberazione essendo per lei l’unico atto di libertà possibile, che eccede ogni potere. L’orgasmo inaugura in Modesta bambina la possibilità di un destino diverso da quello di povertà, emarginazione e sottomissione che il capitale economico-sociale della sua famiglia le prospettano.
È significativo che alla scoperta del corpo come soggetto di piacere consegue la scoperta del corpo come oggetto di abuso: Modesta viene stuprata dal padre. Anche lei si trova spesso a compiere abusi e violenze: Sapienza non costruisce un romanzo buonista, ingenuo, conosce bene le dinamiche del potere e le mette in scena, facendo agire Modesta all’interno di una cornice in cui bene e male sono costantemente intrecciati e strumentali l’uno all’altro. Se il piacere carnale (aisthesis) è il carburante, il calcolo razionale (logos) e l’uso strategico del male sono gli unici strumenti per una giovane, femmina e povera, di acquisire uno spazio di autodeterminazione. Qui torna prepotente il tema del genere: per realizzare pienamente se stessa Modesta deve compiere tre matricidi, che sono insieme rifiuto di tre oppressioni, di tre modelli femminili e di tre futuri possibili, e cioè: donna povera e incapace, donna vittima e sottomessa alla religione, donna mascolinizzata ed eccezione.
L’orgasmo inaugura in Modesta bambina la possibilità di un destino diverso da quello di povertà, emarginazione e sottomissione che il capitale economico-sociale della sua famiglia le prospettano.
Questo ultimo caso è il più interessante perché produce quel passaggio che Modesta, essendo finzione, può compiere rispetto a Sapienza: Gaia Brandiforti, una principessa siciliana che per una serie di circostanze si ritrova ad affidare a Modesta compiti di rilievo nella gestione delle proprietà, è, come Maria Giudice, una donna eccezionale, e dunque uomo mancato. Modesta rifiuta radicalmente questo modello in cui tutti intorno a lei sembrano ricondurla (“forte e generosa come un uomo è principessa! Come Gaia!”), perché sa che rifiutare il corpo conduce alla pazzia (anche Gaia, come Maria Giudice, alla fine agisce come una pazza). Modesta non vuole rinunciare al suo essere donna in quanto corpo sessuato, dotato di desideri e possibilità di piacere. Nel momento in cui la principessa diventa lei, rovesciando a suo vantaggio l’istituzione oppressiva del matrimonio, conquista ciò che aveva desiderato: lo spazio di libertà normalmente destinato agli uomini ricchi. Ma si rende presto conto che ciò che ha conquistato, terre, denaro, prestigio, un’alta posizione sociale, rischia di trascinarla dentro un’altra forma di sottomissione:
In che trappola ero caduta? [ero sacrificata] al dovere di un nome da tenere alto nella considerazione degli altri. Anch’io dovevo fuggire da quelle mura e da quegl’uomini che tanto avevo ammirato […], ma che ora mi apparivano come carcerati di una prigione che loro stessi si erano costruiti giorno per giorno.
Ciò che Modesta scopre con Gaia è qualcosa che Sapienza non poteva scoprire con Maria Giudice, muovendosi loro in un ambiente anarco-socialista: il ricatto del potere. Modesta non vuole il potere sugli altri, ma solo su stessa e impara a sfuggire ogni volta che una conquista si trasforma in una gabbia: sceglie quindi di non sottomettersi alla ricchezza, ai talenti che scopre di avere (la scrittura e l’arte oratoria), alle terre, all’amore, nemmeno ai figli: tutto può trasformarsi in dinamica di potere e ogni volta che un nuovo lucchetto tenterà di legarla Modesta ricontatterà il piacere e il desiderio perché le ricordino che il suo unico scopo nella vita è essere libera.
Dismesso quindi l’atteggiamento strategico da Julien Sorel, arrivata alla consapevolezza che nessun genere è pienamente abitabile perché prevede sempre un certo grado di oppressione e rinuncia al desiderio, Modesta si apre a una fluidità sempre maggiore, decostruendo impalcature, disfacendosi di ogni categoria. Parlando di questo passaggio Bazzoni cita il pensiero di Cavarero e Wittig, secondo le quali il decostruzionismo, cioè il movimento di dissoluzione del soggetto, centrale nella letteratura del ‘900, è una possibilità del potere, un privilegio di chi una soggettività ce l’ha: per poter iniziare a decostruire, quindi mettere in discussione tutti i modelli e tutte le categorie, Modesta deve prima conquistare il privilegio di possedere una soggettività forte. La decostruzione fatta da coloro i quali si trovano alle periferie del potere, quindi dai soggetti deboli, scrive Wittig, fa loro “perdere la facoltà di essere dei soggetti, prima ancora di averla ottenuta”.
Secondo Bazzoni la messa in discussione della soggettività acquisita la avvicina al “soggetto nomade” di Braidotti, ovvero un soggetto che è puro divenire in aperta opposizione al soggetto monolitico e amministratore del “capitale fallo-logocentrico”. È solo in questo momento che Modesta può abbracciare pienamente una filosofia di vita anarchica ed epicurea, orientata quindi al soddisfacimento dei desideri che non si traduce mai in oppressione del prossimo, ma che anzi amplia le possibilità di libertà intorno a ciascun soggetto a lei vicino. Ciò è visibile nel suo modo di essere madre: incarnato (allatta personalmente suo figlio), queer (accoglie come figli anche bambini non suoi), femminista (si oppone alla differenza di educazione rispetto al genere), antiautoritaria (permette a ciascun figlio o figlia di seguire le proprie inclinazioni di talento e orientamento sessuale, garantendo libertà e autodeterminazione per loro e allo stesso tempo per se stessa). Sapienza, che non ha figli, vuole interrompere attraverso Modesta quella che chiama la prostituzione dell’infanzia:
Il bambino è il primo operaio sfruttato, dipende dai grandi e sempre, per un tozzo di pane, si abbassa a “divertire”, leccare le mani dei padroni, si lascia accarezzare anche quando non ne ha voglia.
Il bambino si sottomette a tutto questo perché bisognoso di cure materiali e di amore, col prezzo di un annichilimento del suo vero sé (Miller). Il primo matricidio di Modesta ha anche questa funzione, interrompere il ricatto emotivo che le avrebbe impedito di realizzarsi (Sapienza, non a caso, assolve alla vocazione della scrittura solo alla morte della madre). Rispetto a questo, Modesta dice a Joyce, una donna con qui a un certo punto ha una relazione:
la mia possibilità di nutrirli mi mette nel ruolo del padrone, padrone, Jò, e perché dovrebbero essere grati a un padrone? […] ritenersi indispensabili a degli esseri umani giovani senza difesa solo perché li nutri è il paternalismo più atroce […] il bambino è costretto ad amarti perché li sfami […] io farei un sindacato dei bambini contro questo duetto tremendo che sono il padre e la madre perché per un tozzo di pane e un giocattolo richiedono un prezzo troppo alto.
Non tutti i figli, però, a ricordare la complessità della realtà, colgono lo spazio che Modesta madre permette: Prando, per esempio, incarna una virilità problematica e tenta di soggiogare Modesta, la quale, di nuovo non cede al ricatto d’amore, nemmeno se ad agirlo è il figlio.
È però riduttivo limitare le possibilità interpretative di un romanzo alle intenzioni autoriali, essendo un’opera d’arte sempre eccedente rispetto alla consapevolezza di chi l’ha prodotta.
Torniamo però alla questione del genere: Modesta vuole andare oltre i generi incarnando una soggettività queer o vuole rivedere la categoria di donna ampliandola e potenziandola? Questa domanda apre a due diversi rami interpretativi: Bazzoni, per esempio, costruisce un’interpretazione pienamente queer (come anche Rizzatelli, Ferrante), mentre Scarfone (Goliarda Sapienza. Un’autrice ai margini del sistema letterario) è più cauta e, pur riconoscendo all’impianto queer un certo valore interpretativo, si sofferma più a lungo su quegli aspetti del romanzo che sembrano invece spingere per una rivendicazione del femminile. In effetti Sapienza, riporta Pellegrino in Cronistoria di alcuni rifiuti editoriali dell’arte della gioia, scrive che il suo intento narrativo nell’AG era di “riempire un vuoto che c’è nella letteratura di romanzi cosiddetti popolari, ma che abbiano un contenuto ‘morale’”, dove per morale Sapienza intende la possibilità di passare da
un’infanzia quasi amorale, solo tesa a sopravvivere con tutti i mezzi leciti e no (chi non sa quali erano le condizioni delle donne nate povere in quell’epoca?) fino all’acquisizione, mano mano che la sua personalità si fa adulta, della morale, difficile e “diversa”; di una donna moderna.
Mi sembra però riduttivo limitare le possibilità interpretative di un romanzo alle intenzioni autoriali, essendo un’opera d’arte sempre eccedente rispetto alla consapevolezza di chi l’ha prodotta. Più utile tornare alla pagina e andare ad osservare altri due passaggi. C’è un momento nell’AG in cui la differenza biologica sembra produrre una diversa capacità conoscitiva. Modesta, parlando con un uomo della morte come di “un’altra avventura biologica, un’ennesima metamorfosi”, dice: “Tu sei uomo, Marco, e non sai nel tuo corpo, e poi nella fretta di agire hai dimenticato, la metamorfosi della materia e tremi un po’ a questa parola”.
Anche in questo passaggio l’ambiguità tra una posizione essenzialista e contingente del genere non è risolta: tu non sai→essenzialista, tu hai dimenticato (sottinteso: ma sapevi)→non essenzialista. Modesta non sembra interessata a rispondere alla questione essenzialista del genere che, mi pare, nemmeno si pone. Piuttosto, nel suo pragmatismo, coglie il valore strumentale del genere confermandone la natura strettemente relazionale, senza interrogarsi se esista di per sé: non parla mai infatti dell’essere donna, dell’essere uomo, e quando rivendica il suo essere donna lo fa nel contesto della relazione con Joyce, discepola della psicanalisi che interpreta freudianamente l’omosessualità come devianza e il suo essere donna come mutilazione rispetto al più completo essere uomo; ebbene a Joyce, che di notte si lascia sfuggire un “se fossi uomo” rivolto a Modesta, lei risponderà: “Io ti amo perché sei una donna e da donna”, intendendo qui, mi sembra, non come essenza, ma precisamente come corpo sessuato vissuto in pienezza e integrità, dotato di organi del piacere femminili. Modesta è semplicemente Modesta; che le azioni siano inquadrate come maschili o femminili è un problema sociale a cui risponde in modo strumentale, diventando donna o uomo a seconda di quello che vuole fare: fumare la pipa: uomo, amministrare i propri beni: uomo, autodeterminarsi: uomo, procreare: donna, allattare: donna, fare sesso: donna, abortire: donna per quanto riguarda il fatto fisico, uomo per quanto riguarda il potere di autodeterminazione.
Se Bazzoni interpreta questa disconnesione tra identità, genere e orientamento sessuale come un’approccio queer antelitteram, Scarfone adotta invece come ottica interpretativa l’anti-edipeismo (Deleuse, Guattari) secondo cui
lo schizo è un soggetto ««trans-posizionale»» che sostituisce all’alternativa delle esclusioni “o…o” un “sia…sia” che tuttavia non annulla le differenze, ma oppone al loro uso «esclusivo» («edipico» e «depressivo») uno «inclusivo» («anedipico» e «schizoide»)
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Scarfone sottolinea la distanza tra Sapienza e il femminismo dell’uguaglianza, sostenendo che la fluidità con cui Modesta performa il genere non annulla le differenze, confermando il binarismo di genere, e che le parti maschili o femminili che abitano Modesta si attivano “quando il desiderio lo richiede”. La questione essenzialista fatica, di nuovo, ad essere risposta. Voler allargare i limiti di una categoria, infatti, pretende un’interrogazione sulla natura della categoria stessa i cui diversi tentativi di soluzione, per quanto riguarda la categoria donna, sviluppano diversi impianti teorici e diversi femminismi: che cos’è una donna? cosa sono le donne? esiste un’esperienza unitaria dell’essere donne, e se esiste è essenziale o storico-sociale? ma soprattutto: hanno senso queste domande? E subito dopo aver balbettato qualche mozzicone di risposta eccoci sommerse da un corollario di altre domande: esiste una scrittura femminile? e se esiste cosa la differenzia da quella maschile, fattori biologico-cognitivi o l’andamento degli ultimi cinquemila anni di storia? E rispetto alla stessa Sapienza potremmo continuare: perché è letta soprattutto da donne? Perché, salvo rare eccezioni, le sue studiose e critiche sono donne?
A questa ultima serie di domande proverò a rispondere più tardi, mentre per quanto riguarda le prime Sapienza sembra suggerire che nessuna risposta è possibile nello spazio del logos, cioè del ragionamento astratto, ma solo nell’esperienza che ogni singola può fare nell’unità di logos e aisthesis, mente e corpo, anzi, nella gerarchia rovesciata in cui il logos è a servizio dell’aistheis.
L’attrazione che molte lettrici sentono per L’arte della Gioia riguarda la sua forza, l’energia che pulsa, la sensazione di benessere e apertura che dà il percepire un allargamento delle possibilità disponibili, dell’agentività, dell’autodeterminazione.
Ricapitolando, la narrativa di Sapienza, che trova il suo culmine poetico in L’arte della gioia, nasce dal chiedersi come si può costruire la propria libertà, identifica nel genere uno dei suoi più grandi ostacoli, quindi lo smonta, lo attraversa, lo esperisce per scoprire che la risposta non è tanto nel genere, ma nel riconoscere la forza propulsiva e ontologicamente fondativa del desiderio: diventare un soggetto vuol dire riconoscersi come corpo desiderante. La gioia è allora la condizione di poter soddisfare i propri desideri, l’arte è il processo di acquisizione e manutenzione di questo potere. L’originalità di Sapienza sta proprio nella concezione del desiderio come fondamento dell’autenticità del soggetto, posizione che la differenzia da Foucault o Butler, secondo i quali i desideri sono sempre sovradeterminati: “nell‘Arte della gioia”, scrive Bazzoni, “sembra esserci invece una dimensione materiale radicata nel desiderio corporeo che si muove in eccedenza rispetto a ogni potere costitutivo”.
Attraverso l’introspezione Modesta riesce a differenziare i desideri generati delle strutture di potere oppressive da “quelli che sembrano accompagnarsi a un potenziale liberatorio che li qualifica se non come ‘autentici’, almeno come ‘meno inautentici’”. La centralità del desiderio mette d’accordo tutte le interpretazioni: è l’unica forma di fedeltà a cui aderire (“Le vie del desiderio sono infinite”, dice Modesta, sovrapponendo il desiderio alla divinità) e anche l’unica forma di ribellione possibile. Sapienza si sofferma molto di più sulle possibilità della ribellione che sulle strutture oppressive, sulla “centralità del desiderio nella costituzione di un soggetto in grado di riconoscere le strutture che l’opprimono” alle quali, reintegrato il desiderio, si può finalmente opporre. Per Sapienza non c’è ribellione senza desiderio; possono ribellarsi solo i soggetti desideranti. E qui possiamo fare quel tentativo, prima rimandato, di risposta alla questione: salvo rare eccezioni, la critica dell’opera di Sapienza, come il pubblico, è femminile.
Perché? Un’ipotesi potrebbe essere questa: l’attrazione che molte lettrici sentono per AG riguarda la sua forza, l’energia che pulsa, la sensazione di benessere e apertura che dà il percepire un allargamento delle possibilità disponibili, dell’agentività, dell’autodeterminazione. Nella mia esperienza L’arte della gioia è un libro che passa da donna a donna, da amica ad amica, è condividere la scoperta che sì, si può essere molto di più di quello che in qualche modo la società, ancora oggi, ci dice di essere. Il romanzo è ben lontano dal proporre una femminilità ideale (Modesta è solo una delle tante donne che popolano il romanzo) o buona, anzi, forse è proprio quell’autorizzarsi a compiere il male o, di più, a non considerare male azioni anche violente esercitate in nome del proprio desiderio, della propria liberazione, che attira tanto con la sua incredibile forza. Quindi l’AG è una sorta di pedagogia della liberazione per sole donne? Per me la risposta è: ovviamente no. Al netto della qualità letteraria, che ogni lettore giudica e si sceglie, il racconto di ogni esperienza umana è interessante, e questo è il senso stesso della letteratura, ma ancora oggi non è inusuale che un uomo si senta meno disponibile ad abitare un personaggio femminile che un assassino, un pedofilo o un asceta. E poi un certo livello della liberazione riguarda anche gli uomini e per Sapienza il desiderio, che è il cuore di tutta la sua narrativa, è centrale per tutt*, non solo per le donne.
Per quanto riguarda la critica, allo stesso modo, si noterà che per Sapienza ci sono più critiche che critici, e forse questo ha a che fare, anche, altri due ordini di problemi: il maschilismo del canone e la difficoltà di inquadrare le opere di Sapienza, in particolare AG, in un genere. Mentre per i romanzi autobiografici la strada della pubblicazione è stata possibile, forse perché afferenti al macrogenere autobiografico inaugurato da Sibilla Aleramo (che siano mémoire, autofiction, romanzo autobiografico è una questione che Scarfone approfondisce minuzionasamente), per AG le cose si complicano ed è forse questo, la difficoltà a incasellarlo in un genere letterario canonizzato, ad aver reso impossibile la sua pubblicazione. L’AG ha conosciuto una lunga serie di rifiuti editoriali, fino alla riscoperta in Germania e in Francia avvenuta anni dopo la morte dell’autrice grazie a l’incessante lavoro di Angelo Pellegrino. Secondo Scarfone uno dei peccati più gravi dell’AG che ne avrebbero impedito la pubblicazione ieri, e che provoca qualche allergia oggi, è che contiene, tra le altre cose, elementi del melodramma. Se il critico Claude Imberty legge l’opera come un “pastiche di generi in cui l’autrice impiegherebbe moduli tipici della letteratura di consumo col solo scopo di rovesciarli preliminarmente per trasformare l’opera in un romanzo storico”, Scarfone afferma che “l’immaginario da feulleton indubbiamente presente nel romanzo, lungi dall’essere virgolettato e parodiato, sia un elemento fondamentale dell’AG”. Sapienza, continua Scarfone
sceglie consapevolmente e senza ironia di inserire dei moduli melodrammatici, non rifugge e non disdegna affatto un certo sentimentalismo svenevole […] un patetismo che tra l’altro si esplica anche attraverso la scelta di uno stile non raramente enfatico.
Qui Scarfone si appoggia a Donnarumma che, parlando dell’opera di Elena Ferrante (che collega alla Morante di Menzogna e Sortilegio) riconosce che il feuilleton è diventato genere femminile e nemico del romanzo con l’Ottocento francese, che ha generato così l’opposizione tra scrittura maschile e femminile e circoscritto l’una al centro, alla storia, all’avanguardia, l’altra alla periferia, al passatismo, al privato.
Perché i generi popolari considerati maschili, come il western, hanno la possibilità di essere usati anche all’interno di generi alti, mentre il popolare femminile no?
L’operazione delle autrici allora non è quella di elemosinare un posto nel canone definito dal maschile, ma di appropriarsi dei cliché imposti per smontarli e trasformarli, di rivendicare uno sguardo laterale, e quindi di lottare per la propria affermazione senza dimenticare di essere stata dominate. I moduli melodrammatici, secondo Scarfone, sono quindi una presa di coscienza poetica della propria lateralità rispetto al canone creato dagli uomini, una volontà di “rifarsi intenzionalmente ai generi letterari che quel canone condanna”. Contemporaneamente è forse l’aspetto melodrammatico dell’AG che tiene lontane alcune categorie di lettori e critici, e crea imbarazzo anche nelle lettrici e nelle critiche, soprattutto quelle femministe, che secondo Scarfone eludono questo aspetto del testo “affinché l’autrice non sia screditata”, ma che, così facendo, rinunciano ad osservare la portata intenzionale e ribelle della scelta di Sapienza. (Qui sarebbe interessante aprire una piccola parentesi: perché i generi popolari considerati “maschili”, come il western, hanno la possibilità di essere hype, o di essere usati anche all’interno di generi alti, mentre il popolare femminile no?)
Rispetto al genere letterario Bazzoni fa altre riflessioni: intanto considera AG come un’autobiografia finzionale, ovvero uno spazio che l’autrice crea per poter finalmente dire la verità (Sapienza afferma che il racconto puntuale della vita non può che essere una “bella sfilza di bugie”: accedere alla propria verità, misteriosa, sconosciuta, è possibile solo nella finzione); poi si rifa ai ragionamenti di Asor Rosa su alcuni autori italiani del ‘900 che definisce “disassati”, cioè “sacrificati” nel loro tempo ma che “costituiscono ciò che del nostro ‘900 sembra sopravvivere alla sua conclusione cronologica e stendere sicuramente un ponte verso il futuro”.
La marginalizzazione di Sapienza, secondo Bazzoni è la somma di questa lateralità generale e della lateralità di genere, cioè la subalternità a cui le scrittrici sono destinate. Bazzoni, poi, colloca l’opera di Sapienza in “una posizione di continuità con l’investigazione dell’identità tipica del modernismo” ma in cui l’opposizione tra centro e margine conduce verso esiti opposti: da una parte la letteratura che racconta la libertà di dissolvere l’identità, dall’altra la letteratura che racconta la lotta per diventare soggetto libero attraverso la dissoluzione delle categorie (abbiamo visto il riferimento a Cavarero e Wittig).
Il diverso esito dell’interrogazione sul sé mi sembra però che non vada ricercato soltanto nel diverso rapporto di potere rispetto al canone letterario ma anche nella differenza che Sapienza coglie tra identità e soggettività: mentre l’identità è frutto di un’intersezione di appartenenze a certe categorie (inautentica), il soggetto di Sapienza è l’espressione del sé più autentico che esiste prima delle categorie e a cui si può accedere attraverso il desiderio. Per Sapienza la costruzione dell’identità è antitetica al desiderio, è una serie di “interruzioni” del desiderio. Mentre i personaggi della letteratura canonizzata del ‘900 scoprono i limiti dell’identità e vedono come unica possibilità la dissoluzione, approdando in un insopportabile vuoto, Modesta rifiutando il modello binario e disfacendosi delle categorie si posiziona nel campo delle infinite possibilità che sprigionano dall’incarnare il desiderio, tra le quali l’idea che anche la morte, pensa Modesta in un momento di piacere goduto da anziana, “non sarà che un orgasmo pieno come questo”.