P er arrivare a Peckham, quartiere a sud-est della periferia londinese, non serve la metropolitana. Il modo più veloce è raggiungere la stazione London Victoria, prendere il treno della linea southeastern, e poi scendere alla fermata Peckham Rye. È un viaggio che dura poco più di dieci minuti ma permette di osservare con calma il panorama pieno di contrasti della capitale inglese. Storicamente, Peckham è il quartiere africano di Londra: ospita una folta comunità nigeriana, al punto che gli è stato affibbiato il soprannome di “piccola Lagos”. È qui che la nuova scena di jazz londinese è diventata un organismo vivo, specchio della città, della sua animosità drogata e delle sue contraddizioni.
Provare a tracciarne i confini è un’impresa difficile: Londra continua a essere un luogo in cui culture diverse si riescono a mescolare superando il passato, ma senza ignorarlo, creando qualcosa di nuovo e accessibile. E questa scena sembra essere una delle poche manifestazioni riuscite di quella fantasia che vuole le metropoli contemporanee come un laboratorio umano e artistico.
È una sottocultura che vive di un paradosso molto londinese: nata a metà tra la casuale spontaneità e gli sforzi politici di creare uno spazio sociale fino a quel momento inesistente, è oggi una scena che vive di una forza creativa così trascinante da riuscire a riappropriarsi della definizione di jazz e allo stesso tempo a rifiutarla, che sta contribuendo a formare una fetta di pubblico nuova, giovane e esigente: il nuovo jazz londinese è un veicolo di espressione per musicisti spesso giovanissimi, di tutte le estrazioni sociali ma in particolar modo per i discendenti delle ex colonie africane e caraibiche.
D’altronde, uno dei primi grandi jazzisti inglesi è stato il trombettista Leslie Thompson, nato a Kingston e trasferitosi a Londra durante gli anni Trenta: Thompson si era formato musicalmente nella banda dell’esercito britannico presente sul suolo Jamaicano, i famosi West Indian Regiments. L’esercito era, per gli abitanti delle colonie, l’unico modo di ottenere buona educazione musicale e una strumentazione degna. Arrivato a Londra, Thompson si affermò in breve tempo, e arrivò a girare in tour con Louis Armstrong e altri importanti jazzisti americani del periodo. Dopo queste prime esperienze provò a metter su, da leader, la sua prima formazione – composta di soli musicisti neri. Un esperimento interrotto dalla seconda guerra mondiale, in cui combatté per l’Inghilterra e che di fatto mise fine alla sua carriera.
“Leslie Thompson usava la musica per rendere più unite le persone di una minoranza etnica ma anche per comunicare, per cambiare la percezione che si aveva di quella minoranza”, mi dice Gary Crosby, contrabbassista jazz nato e cresciuto a Londra ma di origini jamaicane. “È un’idea che affonda le sue radici, tra le altre cose, nel rinascimento di Harlem degli anni Venti: lì si iniziarono a usare le varie espressioni artistiche come spazio comune entro cui interagire. Ma anche Londra è sempre stata un melting pot culturale, una città in cui le culture si sono incontrate”.
Crosby è un esperto dell’eterogeneo tessuto socio-culturale londinese: insieme all’educatrice e manager Janine Irons, ha fondato Tomorrow’ Warriors, un progetto che dal 1991 si occupa di fornire istruzione musicale gratuita e di alta qualità a giovani di tutte le estrazioni sociali e culturali, con un occhio di riguardo verso i discendenti della diaspora afro-caraibica, per lo più seconde e terze generazioni di figli di immigrati dalle ex colonie inglesi, soprattutto quelle caraibiche come la Jamaica e africane come la Nigeria. “L’intenzione originaria dietro il progetto era quella di trovare il modo di far esprimere giovani musicisti figli della diaspora che non riuscivano a farlo all’interno del ‘sistema jazz’ che esisteva a Londra a quel tempo, gravitante completamente intorno ai college e ai conservatori”.
Per farlo hanno creato, nel ‘91, un circuito nuovo, che ruotava attorno al Jazz Cafè di Londra; storico locale con sede a Camden: quartiere tempio della cultura giovanile durante la “Swingin London” degli anni Sessanta, quasi abbandonato durante gli anni Novanta – forse per questo luogo d’elezione per esperimenti artistici e nuovi tipi di serate. Ora è per lo più una meta turistica per chi cerca foto dal sapore leggermente più “underground” rispetto a quelle davanti al Big Ben. Oggi davanti al palazzo bianco in stile neoclassico che ospita il Jazz Cafè campeggia uno dei duecento e passa Starbucks presenti in città.
Grazie al suo lavoro, Crosby ha da poco ricevuto un OBE (L’eccellentissimo Ordine dell’Impero Britannico), una delle più alte onorificenze del Regno Unito riconosciute a un civile. Il progetto Tomorrow’s Warriors ha formato alcuni dei talenti più luminosi della nuova scena jazz londinese: Shabaka Hutchings (Sons Of Kemet, The Comet Is Coming), Nubya Garcia (Nerijà), Femi Koleoso (Ezra Collective, Jorja Smith), Joe-Armon Jones, Zara McFarlane, Soweto Kinch, Sheila Maurice-Grey (KOKOROKO) e Moses Boyd sono alcuni dei giovani artisti (molti di loro devono ancora compiere trent’anni) che sono cresciuti grazie all’impegno di Gary e Janine.
Prima di Tomorrow’s Warriors, Crosby aveva fondato i Jazz Warriors, una band il cui scopo dichiarato era anche qui quello di fornire una piattaforma espressiva per giovani musicisti di colore. Il debutto discografico della band è del 1987: “Out Of Many People” è un lavoro pionieristico; anticipò la contemporanea unione del tradizionale jazz americano con gli stili musicali delle ex colonie inglesi, soprattutto Caraibi e Africa Occidentale. Secondo Crosby questa unità d’intenti, musicale e di formazione di una “scena”, è sempre stata presente a Londra: in lui come nei suoi predecessori, organizzatori e musicisti jazz. Il valore sociale e politico del jazz inglese è insomma inscindibile dalla sua componente musicale.
Dopo la seconda guerra mondiale l’Inghilterra incentivò l’immigrazione dalle sue colonie, in particolare quelle caraibiche, dando il via alla cosiddetta “Windrush generation”. Un nome tornato agli onori della cronaca per l’omonimo “scandalo” del 2018, durante il quale numerose persone immigrate regolarmente in Inghilterra durante quel periodo (mediamente prima del 1973) sono state trattate oggi come immigrati clandestini; ingiustamente accusati, detenuti e addirittura deportati – in alcuni casi perdendo la propria casa, il lavoro o l’assistenza medica a cui avevano regolare diritto.
“Un sacco di musicisti caraibici furono inviati nel Regno Unito per studiare musica” racconta Crosby, “C’è stata una forte tradizione in questo senso”. Uno degli artisti più importanti ad emergere da questa ondata fu Joe Harriott, un sassofonista originario di Kingston, approdato a Londra proprio agli inizi degli anni cinquanta. Fino alla sua morte (nel 1973) Harriott metterà a punto uno stile personale, mescolando lo standard be-bop del suo idolo Charlie Parker con le tradizioni musicali della sua isola natia, come calypso e mento. Con i suoi ultimi lavori arriverà a formulare un abbozzo di quello che sarebbe poi stato chiamato free-jazz, mentre Ornette Coleman faceva lo stesso dall’altro lato dell’oceano. Anticiperà di almeno una ventina d’anni la sintesi musicali poi ripresa dai Jazz Warriors di Gary Crosby e dagli artisti contemporanei.
Soweto Kinch, ex allievo di Gary Crosby e uno dei più importanti sassofonisti inglesi contemporanei, ha descritto Joe Harriott semplicemente come un “eroe”: “Harriott, insieme ad altri musicisti caraibici, portò sicuramente un’influenza giamaicana al jazz britannico. Puoi sentire sprazzi di calypso nel suo modo di suonare. È lo stesso per la mia musica. Anche se suono in modo molto diverso da Harriott, la mia educazione affonda le sue radici nelle Indie occidentali – Barbados e Giamaica – è parte integrante del mio modo di suonare jazz, e certamente del modo in cui mi approccio ai ritmi e in cui faccio hip-hop.” Un artista che, seguendo il più classico degli stereotipi, non ricevette in vita il giusto riconoscimento. Anche perchè, sempre secondo Kinch: “ la Gran Bretagna non era ancora pronta a celebrare un eroe britannico nero. All’epoca era problematico accettare un intellettuale nero così prodigiosamente dotato sul suo strumento”.
Successivamente alla delineazione di questa precisa tendenza musicale a metà tra Caraibi, Africa, Inghilterra e Stati Uniti (patria e luogo di nascita del jazz) tra gli anni Venti e Settanta – il jazz inglese partecipa marginalmente alla stagione di amore e droghe libere, colori, liberazione artistica, rock progressivo e psichedelia degli anni sessanta. Troverà invece il suo primo grande momento nell’epoca del post punk, del grigio e del nero, dei primordi della club culture – ovvero tra la metà degli anni Ottanta e i primi Novanta. Soprattutto grazie ad un impulso economico e sociale, come tiene a precisare Janine Irons, socia di Crosby in Tomorrow Warriors: “Se metti insieme tutte le culture non-britanniche presenti a Londra, sono la parte più forte e maggioritaria della città. Non si può ignorare una tale situazione a livello economico”.
Torna quindi centrale l’unicità di Londra come metropoli, dove le minoranze non sono minoranze: secondo l’ultimo censimento del 2011 poco meno del 40% della popolazione della città non è nata a Londra, dati che non includono quindi seconde e terze generazioni di immigrati nati invece sul suolo inglese. Tra il censimento del 2001 e quello del 2011 gli individui di etnia bianca presenti a Londra sono diminuiti del 4,23%; quelli di etnia asiatica e nera sono aumentati rispettivamente del 59,63% e del 39,06%; le etnie miste hanno visto un aumento addirittura del 79,24%. Un andamento che in questi anni ha continuato a svilupparsi: nel 2018 l’Office for National Statistics inglese ha definitivamente stabilito il primato di Londra, tra le città con il maggior numero di abitanti nati in una nazione diversa da quella di residenza, scalzando il primo posto a New York. Non parliamo quindi solo di una tradizione coloniale e di passata immigrazione, ma anche di storia attuale.
Quella del nuovo jazz londinese è una scena nata a metà tra la casuale spontaneità e gli sforzi politici di creare uno spazio sociale fino a quel momento inesistente.
“Le discussioni più accese su diversità e inclusione sono emerse intorno ai primi anni Novanta, quando le persone hanno cominciato a chiedersi dove stessero finendo tutti soldi pubblici investiti, perché ne stesse beneficiando solo la classe media bianca, ancor più nel particolare la classe media bianca maschile.” In questo senso un cambiamento importante avvenne nel 2000, con l’elezione come sindaco del laburista Ken Livingstone. Livingstone rimase in carica fino al 2008, per due mandati, varando importanti riforme per l’educazione, come la “London Challenge”.
In questo arco temporale il sistema scolastico londinese tentò di livellare le differenze di classe tra gli studenti, diventando un caso di studio nazionale visto l’impennamento senza precedenti dei risultati scolastici, da parte di studenti appartenenti a tutte le etnie. Riforme a lungo termine definite dalla stampa britannica come “equalities politics”, unite ad un importante investimento economico e incoraggiamento della politicizzazione a sinistra della vita culturale della città. Questa tendenza cittadina dei primi anni duemila è in buona parte sopravvissuta ai due mandati da sindaco del conservatore Boris Johnson, oggi protagonista della Brexit, all’epoca criticato dai suoi stessi sostenitori proprio per non aver scardinato le politiche culturali e di integrazione del suo predecessore laburista. Negli anni del suo primo mandato, nel 2011, è anzi stato fondato il “London Music Found”, patrocinato direttamente dal sindaco: un’organizzazione no-profit dedicata a fornire borse di studio a bambini e ragazzi provenienti da classi sociali svantaggiate e a sostenere diversi progetti nei loro intenti educativi.
Lo stesso Tomorrow Warriors sopravvive principalmente grazie ai soldi pubblici dell’ “Art Council Of England”, organo creato nel 1946 per regio-decreto, con lo scopo di sviluppare arte e cultura nel paese. Spinto da una richiesta popolare e portato avanti da un sindaco di area laburista, non fu solo un virtuoso e filantropico impegno sociale, quanto piuttosto un cambiamento imposto da numeri demografici ben precisi (e dai potenziali guadagni che ne derivano). Questa spinta istituzionale si sarebbe comunque rivelata infruttuosa se nel tempo non avesse trovato la giusta “guida”: una rete culturale sempre più nutrita e organizzata, erede di quella tendenza a far “gruppo” presente fin dagli albori della storia del jazz londinese.
Oltre a Tomorrow Warriors, a svolgere un ruolo cruciale è stato il collettivo Jazz:Re:Freshed, partito nel 2003 con l’organizzazione di eventi settimanali diventati presto di culto, con il dichiarato intento di assecondare l’eclettismo assoluto del jazz contemporaneo. Ultimamente sta rivendicando un ruolo centrale anche “Women in Jazz”, un collettivo dedicato a sostenere e “spingere” nella stampa e le programmazioni radiofoniche e dei locali giovani donne di tutti i background culturali.
La compilation “We Out Here”, un’espressione programmatica, nel 2018 ha raccolto alcuni dei più giovani e interessanti talenti della città: Ezra Collective, Maisha, KOKOROKO, Triforce, Moses Boyd, Theon Cross, Nubya Garcia e Shabaka Huthings.
Il principale catalizzatore di questa estesa rete dai diversi interpreti è Gilles Peterson: dj, conduttore radiofonico, giornalista e discografico nato in Francia ma attivo a Londra dalla seconda metà degli anni ottanta. Peterson è emerso come dj di acid-jazz, uno dei parenti più stretti dell’attuale suono del jazz cittadino. Nel tempo, grazie anche ad un carisma inoffensivo ma magnetico, si è affermato come uno degli speaker radiofonici più importanti del palinsesto della BBC e un dj di successo. Negli ultimissimi anni il suo lavoro ha raggiunto un secondo picco, dopo quello degli anni ‘90, con la fondazione nel 2006 dell’etichetta Brownswood Recordings (che pubblica la maggior parte dei dischi del genere) e nel 2016 della web-radio Worldwide FM. Il momento in cui al di fuori della capitale inglese il jazz londinese è quasi all’improvviso diventato una “scena”, va ricondotto all’uscita nel 2018 della compilation della Brownswood “We Out Here” (dall’estate del 2019 anche nome del festival organizzato dall’etichetta).
“Siamo qui”: un’espressione programmatica. Il disco ha raccolto alcuni dei più giovani e interessanti talenti della città; quasi tutti sono ex studenti di Tomorrow Warriors e praticamente tutti sono africani e caraibici di seconda o terza generazione: i gruppi Ezra Collective, Maisha, KOKOROKO e Triforce, il batterista Moses Boyd, il tubista Theon Cross, la sassofonista Nubya Garcia e il sassofonista Shabaka Huthings. L’impressione di unità non si deve solo alla presenza di questi diversi nomi e progetti insieme nello stesso disco. La compilation è stata fondamentale nel far arrivare anche all’esterno la natura associativa di questi musicisti, collaboratori senza sosta l’uno con l’altro, al punto da sfumare i contorni tra i vari progetti.
Una volta che si comincia a seguire il filo tracciato da questi artisti si scopre una quantità enorme di materiale già pubblicato e in fase di pubblicazione prossima o futura. Se dovessimo scrivere su un foglio i nomi di tutti (non solo coloro che compaiono nella compilation, ma altri nomi eccellenti: Yussef Dayes, Kamaal Williams (da soli insieme nel progetto Yussef Williams) Ashley Henry, Yazz Ahmed, Ruby Rushton, Yazmin Lacey, Tenderlonious e tanti atri), collegandoli attraverso le collaborazioni reciproche , ne uscirebbe un intricato miscuglio di linee – simile a quello della famosa cartina della metropolitana di Londra.
Il più importante contributo musicale della Nigeria è probabilmente l’afrobeat, incontro tra jazz, funk e ritmi africani, reso famoso in tutto il mondo da Fela Kuti: oggi il genere sta vivendo un nuovo rinascimento globale grazie all’ibridazione con pop e hip-hop, sotto la denominazione di afrobeats (con la “s” finale). Secondo Gary Crosby è proprio l’afrobeat ad essere la chiave di volta musicale del contemporaneo jazz londinese: “la maggioranza dei musicisti jazz a Londra era storicamente di background inglese o caraibico: ora invece è predominante quello africano. Per la nuova generazione, l’afrobeat gioca un ruolo fondamentale, che sia nel jazz o nella scena del clubbing”.
Il ritmo è l’elemento centrale dell’afrobeat: un flusso costante e irresistibile, composto da intricati pattern e poliritmie prese in prestito dalle musiche tradizionali dell’Africa occidentale. La capacità di orchestrazione dell’elemento ritmico, scomposto fra tutti gli strumenti (anche quelli normalmente di stampo prettamente melodico) e ricomposto in un monolite musicale che all’ascolto appare come una cosa sola, impossibile da “smontare”, è il vero segreto di questa musica. Che tu sia il chitarrista, il percussionista, il pianista, il sassofonista, sei comunque al servizio del ritmo, quando accompagni e quando ti lanci in un assolo. Questo imperativo è evidente nelle giovani formazioni londinesi, in particolare durante le esibizioni dal vivo: la prima cosa che si nota dei migliori solisti, ad esempio i sassofonisti Nubya Garcia e Shabaka Hutchings, è la loro tendenza a giocare a nascondino con il beat, standoci sopra, sotto, accanto, rincorrendolo o lasciandosi rincorrere – a volte piegandolo con la forza.
Durante i concerti si buttano all’indietro quasi fino a terra, si contorcono con la faccia concentrata e un’espressione intensa – come quei surfisti che provano a cavalcare un’onda magnifica e poderosa che sta cercando di buttarli giù in tutti i modi. Un groove diverso rispetto a quello del jazz “tradizionale”, più energico e ballabile; c’è qualcosa di ancestrale nei ritmi dell’afrobeat, qualcosa che prende e scuote: senza accorgercene dopo poco il pubblico è lì a contrarre e rilasciare tutti i muscoli, agitare le mani all’altezza del viso, ondeggiare a tempo il bacino. Sono sensazioni che non ci si aspetta di provare ad un concerto jazz. Giocando con gli stereotipi, i giovani musicisti londinesi sembrano anche aver interiorizzato la proverbiale malinconia che ammanta la città, utilizzandola nella loro musica come sfumatura, una “sensibilità blues” molto complessa: intrecciata indissolubilmente all’opposto background culturale e geografico di genitori e nonni.
Qualche anno prima del jazz, afrobeat, highlife, calypso, reggae e gli altri stili afro-caraibici hanno giocato un ruolo fondamentale nello sviluppo di generi di musica elettronica oggi di dominio e influenza globale. A partire dalla fine degli anni ottanta dub, grime, jungle, broken beat, garage, house, techno e trip-hop danno il via alla leggendaria stagione del clubbing londinese. Generi fatti per ballare ore e ore in modo liberatorio, in cui le pulsazioni ritmiche sono quasi la sola cosa a contare; eccezion fatta per le parole al vetriolo e ritmicamente selvagge degli MC del grime.
Questi stili oggi confluiscono circolarmente nel jazz suonato da ragazzi e ragazze cresciuti ascoltandoli, andando a ballare a quelle serate. Musicisti formatisi per lo più durante gli anni novanta e i primi duemila, che sotto l’influsso di quel suono e quell’approccio ritmico, al pari dell’influenza di John Coltrane, Miles Davis e Herbie Hancock, lo integrano organicamente all’interno della loro formazione musicale di stampo jazz “americano”: a volte negli assoli degli strumenti ci sembra di riconoscere il flow spezzato e ritmico dei rapper contemporanei; nei suoni bassi degli strumenti a fiato sembra di riconoscere le casse distorte di una drum-machine come la 808.
La vicinanza a questi generi, che si identificano con il moderno concetto di “club”, è un’altra valida spiegazione del perché questa ondata di jazz incontri così tanto il favore di un pubblico mediamente molto giovane: i concerti jazz sono tornati ad essere degli eventi appartenenti alla sfera del club scuro e fumoso (o dei grandi festival pop all’aperto), non quella degli auditorium e dei teatri costosi dalle poltrone comode e le luci abbaglianti. Cambia quindi anche quell’estetica jazz ormai cristallizzata da anni, ora in un orizzonte molto più vicino al rap e alla moda streetwear: ai concerti ci si va anche per ballare, indossando felpa e sneaker senza sentirsi fuori luogo; non sorprende quindi che realtà importanti come NTS e Boiler Room (dedicate proprio a clubbing e musica elettronica) stiano da tempo contribuendo ad espandere l’influenza del jazz londinese oltre i suoi ambiti usuali. Nelle parole di Gilles Peterson insomma: “il confine tra la club culture e il jazz sta finalmente scomparendo”.
Dove c’è successo spesso ci sono anche detrattori; specie in un mondo come quello del jazz, spesso soffocato da una cappa di elitarismo e di perverso “godimento eremitico”. Secondo Gary Crosby, “ci sono state critiche alla musica che viene suonata a Londra per una sorta di gelosia diffusa nel vedere tanti musicisti jazz riuscire ad espandere la propria influenza al di fuori del genere e di cavarsela così bene in generale”. È una storia antica. Già alla fine della seconda guerra mondiale l’energico be-bop (oggi punto di riferimento, studiato al limite dell’ossessione) si affermò come nuovo standard jazz, con non poco disappunto dei critici musicali – per lo più bianchi.
Frantz Fanon nella sua opera più importante, I dannati della terra (1961), scrive che per i critici “il jazz non deve essere altro se non la nostalgia spezzata e disperata d’un vecchio negro preso tra cinque whisky, la maledizione di sé e l’odio razzista dei bianchi”. Fanon si lancia poi in una previsione decisamente profetica: “non è utopia supporre che tra una cinquantina d’anni la categoria jazz sarà difesa dai soli bianchi, fedeli all’immagine bloccata di un tipo di rapporti, d’una forma della negritudine.” A volte la musica jazz sembra ancora vittima di questo stereotipo, ingabbiando il jazz e i suoi interpreti (soprattutto quelli dalla pelle nera) in sentimenti che non siano altri che disperazione o risentimento. Come afferma Nubya Garcia invece: “Storicamente [il jazz], è una celebrazione o un commento su qualcosa che sta accadendo ora”. Celebrare il jazz unicamente per il suo (glorioso e fondamentale) passato significa sottrarre il futuro musicale e sociale al genere e ai suoi interpreti, usando inoltre la nostalgica difesa ad oltranza di modelli del passato per cristallizzare quel risentimento razziale lucidamente descritto da Fanon.
Le radici di questa scena vanno cercati in afrobeat, highlife, calypso, reggae e altri stili afro-caraibici che hanno giocato un ruolo fondamentale nello sviluppo di generi di musica elettronica oggi di dominio e influenza globale.
Le ragazze ei ragazzi di questa scena sono consapevoli della carica politica che questo genere ha sempre posseduto, e la esprimono tanto nella pura materia musicale quanto nelle parole di interviste o commenti sui social media. In molti hanno abbracciato questa responsabilità senza paura. Tra i più espliciti c’è Shabaka Hutchings (originario delle Barbados), considerato un po’ la guida di tutto il movimento – è lui insieme a Gilles Peterson ad aver supervisionato la selezione della compilation “We Out Here”.
L’ultimo disco dei suoi Sons Of Kemet, “Your Queen Is A Reptile” (2018) re-immagina la monarchia inglese, usando come titolo per ciascuno dei nove brani la formula “My Queen Is…” seguita dal nome di attiviste donne come Angela Davis, Anna Julia Cooper e Albertina Sisul o figure femminili per lui cruciali, come quella della bis-nonna, Ada Eastman. “I miei nonni e i miei genitori hanno lottato per mettere piede in questa società e l’abuso razzista che è stato loro inflitto era perché la gente non li considerava inglesi. Quindi il trionfo è poter dire: “non lo tolleriamo più perché siamo cittadini di questo paese esattamente come te”.
C’è poi il batterista, compositore e produttore di origini dominicane e jamaicane Moses Boyd, il cui penultimo lavoro si intitola “Displaced Diaspora” (2018), per sua stessa ammissione un’indagine musicale sulla sua identità culturale: “Non sono giamaicano, anche se sono di origine giamaicana. Quindi, oggi, cosa significa e come suona questa cosa?” o ancora, sullo scandalo Windrush: “Come faccio ad essere inglese quando accendo la tv e vedo deportare persone che mi assomigliano e che hanno contribuito a ricostruire questa nazione?”.
I KOKOROKO sono la formazione musicalmente più vicina allo standard afrobeat: sono guidati dall’eccezionale trombettista Sheila Maurice-Grey, solo la punta dell’iceberg delle eccellenze femminili di cui è composta questa scena. Per citarne qualcuna: il gruppo quasi tutto femminile Nerija, la sassofonista Nubya Garcia, le trombettiste Yazz Ahmed e Emma-Jean Thackray, le cantanti Yazmin Lacey e Zara McFarlane. Secondo il percussionista dei KOKOROKO, Onome Edgeworth: “L’eccellenza è politica. Provenire da ciò da cui alcuni di noi e le nostre famiglie proveniamo e eccellere, è creare la storia, modellarla. Alla nostra generazione è concesso di modificare il modo in cui si parla della diaspora e di creare una piccola e personale parte di storia”.
Questi artisti, invece di ingaggiare una gara a chi urla di più, hanno deciso di sussurrare, di far parlare la propria arte – immergendola nei precisi messaggi che vogliono veicolare, rendendola porosa e aperta ad assorbire il contesto sociale in cui viene creata. Ciò non vuol dire che quando c’è da alzare la voce esplicitamente ciò non venga fatto (anche in modo molto efficace) ma che questi musicisti parlano “da dentro”: si confrontano da pari, giustamente, con una società che in questo momento storico gli è per lo più ostile. Un movimento che poggia su basi solide; sembra possedere la propulsione creativa (e organizzativa) per condurre un profondo cambiamento: musicale, e forse non solo.