D
ovremmo semplicemente ignorare la fine del mondo?” si chiede Mark O’Connell all’inizio del suo ultimo libro, Appunti da un’Apocalisse (il Saggiatore). Concepito in un periodo di ansie e presagi, questo libro è un viaggio in luoghi dove le manifestazioni della fine sono particolarmente evidenti: quasi in un tentativo di esorcismo delle proprie angosce, O’Connell si immerge nei video youtube dei prepper – movimento di persone che si preparano a un collasso della civiltà –, va in Dakota del Sud per visitare un ex deposito di munizioni dove sorgerà una comunità survivalista di lusso, per poi proseguire i suoi “pellegrinaggi perversi” in Nuova Zelanda, nelle Highland scozzesi, fino a Černobyl’.
Dopo aver tradotto Appunti da un’Apocalisse, mi sono accorta che nei mesi successivi ho ripensato spesso a certi passaggi, a certe immagini, all’idea che l’ossessione per la fine dei tempi sia stata, in ogni epoca, affascinante e spaventosa, in certi casi una maniera per dare spazio all’utopia. Ne ho parlato con il suo autore.
Togliamoci subito un peso: partiamo dalla pandemia. In Appunti da un’Apocalisse l’ipotesi che un virus possa portare alla fine del mondo compare solo di sfuggita, come una possibilità remota. Il tuo libro è stato pubblicato poco dopo lo scoppio della pandemia, quando si faceva un gran parlare di apocalisse. Com’è stato per te vivere l’uscita di un libro del genere in una situazione del genere?
È stato molto strano, molto intenso. Lo sarebbe stato comunque, ma in questo caso l’ironia evidente è stato passare due anni a scrivere un libro sull’argomento, parlare con persone che immaginavano la fine del mondo e pensare all’apocalisse quasi costantemente, per poi ritrovarsi a vivere questa pandemia a cui non avevo mai davvero pensato. Certo non è propriamente un’apocalisse, anche perché la premessa del libro è proprio che quando parliamo di apocalisse non parliamo davvero di un evento che spazza via l’umanità. Ma, sì, è stato molto strano. Un episodio esemplare è stato quando, a marzo, ho ricevuto le mie copie del libro: mi sono state consegnate da un fattorino con la mascherina – ancora non se ne vedevano molte – e lì ho davvero capito cosa stava succedendo.
Provo a mettere in prospettiva Appunti da un’Apocalisse: prima di questo hai scritto un breve libro sulla storia culturale del fallimento e un lungo reportage sul transumanesimo, quel “movimento basato sulla convinzione che potremmo e dovremmo usare la tecnologia per allontanare i limiti della condizione umana”, per usare una tua definizione, un movimento di persone pronte a potenziare i propri corpi innestandosi dei microchip o facendosi criogenizzare. Mi sembra che in tutti e tre i libri, comunque, ci sia un’intenzione, da parte tua, di esplorare il concetto di limite. È questo che li unisce, che ti interessa?
È interessante che parli di tre libri, perché il primo – Epic Fail – non l’ho mai considerato davvero un libro, è molto breve ed è uscito soltanto in e-book. Gli altri due, Essere una macchina e Appunti da un’Apocalisse, sono legati in modo evidente. Non li ho concepiti come un unico progetto ma col senno di poi lo sono diventati. Entrambi guardano al futuro, ma considerandolo come uno strumento per interpretare il presente, partono dall’assunto che immaginare il futuro sia un modo per leggere il presente. Quando ho finito Essere una macchina non sapevo di preciso cosa volessi o potessi fare, ma desideravo qualcosa di completamente diverso dal primo libro. Solo quando ho iniziato a scrivere Appunti da un’Apocalisse ho capito che, se non ne avessi già scritto, il transumanesimo avrebbe a sua volta potuto essere incorporato nel libro. Perché è un movimento apocalittico, e quindi ora i due libri in un certo senso sono due facce dello stesso progetto. Un’indagine sui limiti, se vuoi. Sì, sì.
Il tuo è uno stile comico, ma anche introspettivo. Nei reportage incontri personaggi spesso folli o eccessivi, penso per esempio a Robert Vicino, “l’impresario dell’apocalisse” che vende bunker di lusso sepolti in una pianura sterminata in Dakota del Sud. Lo presenti come una figura mefistofelica: immenso, con la faccia butterata e il pizzetto grigio. Ma persino in un personaggio come il suo provi a riconoscere le tue paure, nei suoi conflitti.
Grazie, è una descrizione lusinghiera perché è la cosa a cui tengo di più nei reportage. In Essere una macchina per esempio, sarebbe stato molto semplice ritrarre i personaggi sotto una luce puramente comica, ridicolizzarli. Ci sono momenti inequivocabilmente comici in entrambi i libri, ma è un equilibrio delicato. Prendo sul serio il transumanesimo, anche se non concordo con queste persone, ma mi sembra che i loro comportamenti e le loro ossessioni raccontino qualcosa di molto profondo sulla natura umana e sul nostro rapporto con la tecnologia e il capitalismo. Quindi non volevo scriverne come se li stessi prendendo per il culo, perché a quel punto il lettore si fa una risata ma pensa: Perché dovrei prenderli sul serio se sono dei pazzi? È un equilibrio delicato.
Anche da un punto di vista umano, se passi una settimana in compagnia di una persona che ti permette di entrare nel suo mondo, poi non vuoi fare lo stronzo. Ci sono eccezioni, certo, persone di cui altrimenti offriresti una falsa immagine – Robert Vicino è un esempio piuttosto evidente. È alto più di due metri, parla della sua Lexus tutto il tempo, ovviamente è ridicolo. Ma in generale credo sia impossibile essere davvero divertenti, se non si prendono le cose sul serio. Quando lavoro a un libro o a un articolo, scrivo sempre con assoluta serietà. Il risultato, quando è positivo, può essere deprimente, far riflettere, ma può essere anche molto divertente.
A un certo punto di Appunti da un’Apocalisse vai in Nuova Zelanda sulle tracce di Peter Thiel, una delle persone più ricche e potenti della Silicon Valley, tecnolibertario senza scrupoli. Racconti come ha ottenuto la cittadinanza neozelandese con metodi non trasparenti per comprarsi una grossa tenuta, lontana da tutto, dove rifugiarsi in caso di un collasso sistemico. L’impressione, scrivi, è che “i salvati, alla fine, saranno quelli che potranno permettersi la salvezza premium”. Thiel appariva anche nel tuo libro precedente, ma sempre come figura astratta, un simbolo. È perché è impossibile scrivere davvero di un personaggio larger than life come lui?
Il fatto è che non ho mai incontrato Peter Thiel di persona, non abbiamo nessuna connessione personale. È una figura che mi ossessiona, in parte credo per il suo essere così misterioso. Sappiamo quello in cui crede, grazie a quello che dice e ai pettegolezzi che lo circondano. Ma non so quasi niente di lui come persona. Mi interessa quello che rappresenta per la cultura e per me. È corretto dire che forse l’ho semplificato radicalmente, per la semplice ragione che non mi interessa Peter Thiel in carne e ossa. A un certo punto nel libro racconto del momento – che mi sono perso per poco – in cui Thiel si presenta alla galleria d’arte a Oakland, dove è esposta una mostra che riflette la sua visione del mondo, “dell’individuo sovrano”. Ho trovato molto interessanti i racconti di quel giorno: la contingenza fisica di quest’uomo in bermuda, sudato fradicio. Perché torna umano. È un momento stranamente comico, perché mi ero costruito un’idea di lui come fosse la balena bianca, Moby Dick. Per me era un’idea pura. In quel capitolo in Nuova Zelanda, dove sono andato nel tentativo di trovare il suo nascondiglio, è ridicolo, comico – era il mio tentativo di rintracciare la balena bianca del capitalismo.
Una delle cose interessanti che emerge dalla tua ricerca è un doppio movimento tra passato e futuro. Alcuni di questi personaggi sono reazionari, sognano il ritorno a un passato ideale, mentre altri – come gli aspiranti colonizzatori di Marte – sono tutti rivolti verso il futuro, sono estremamente progressisti, almeno in apparenza.
Per me in realtà sono due manifestazioni dello stesso fenomeno. Anche la corrente di pensiero apocalittica che mira a colonizzare Marte, in fin dei conti, vuole riappropriarsi del passato. O, quantomeno, vuole riappropriarsi di un’idea passata di futuro. Perché era una visione più innocente: l’idea del futuro come un luogo di progresso e di possibilità – una cosa che nella mia vita non ho mai sperimentato. O meglio, forse ne ho vissuto proprio la fine, perché il disastro del Challenger è uno dei miei primi ricordi del notiziario. Per certi versi quella è stata la fine del programma spaziale statunitense e la fine di un certo atteggiamento generazionale nei confronti del futuro. Ora abbiamo gli iPhone, WhatsApp, che sono tecnologie stupefacenti. Ma non sono affascinanti o immense come la possibilità di vivere sulla Luna, o qualunque cosa pensassero cinquant’anni fa. Una persona come Elon Musk, per me, è un ritorno al passato, non sta facendo nulla di nuovo o radicale. Sta solo riportando in vita desideri del passato.
C’è invece qualche visione davvero nuova e radicale tra quelle che hai scoperto?
È una domanda difficile perché, in un certo senso, il mio approccio alla questione dell’apocalisse è proprio che non c’è niente di nuovo. È tutto di seconda mano. La ripetizione di cose avvenute nel passato. Poi, il mio è più un interesse quasi storico del nostro modo di interpretarla. Abbiamo sempre avuto questi desideri, queste paure, abbiamo sempre avuto queste idee. Non so, secondo te?
Tra le storie del tuo libro direi il Dark Mountain Project e tutto quel movimento di riavvicinamento alla natura selvaggia.
Sì, stavo per dirlo anch’io ma ero titubante. Dai, dimmi perché.
Un po’ perché quel capitolo in cui visiti la riserva naturale di Alladale, in Scozia, è la parte che mi ha colpito di più a livello emotivo: è luogo pieno di contraddizioni perché è stato sventrato sia dall’industrializzazione sia dal colonialismo, e adesso è stato comprato da un magnate inglese allo scopo di rinforestarlo e reintrodurre le specie animali. L’idea del Dark Mountain Project è che il nostro posto come umani non sia al centro della natura, che la natura non trae significato da noi. Lo spaesamento completo che provi davanti alla natura, la montagna che a un certo punti ti sembra trasformarsi in un animale vivo, che respira, il ritornello in cui ti chiedi “Chissà se saremo dei bei fossili”: sono delle immagini a cui ho ripensato spesso dopo aver finito la traduzione. I prepper, invece, dopo la pandemia li vedo in un’ottica diversa: all’inizio sembrano una setta, usano questo linguaggio molto specifico, quasi alieno: lo zaino “prendi e scappa”, lo “scenario SHTF” [in cui ci si ritrova nella merda fino al collo], “un mondo WROL” [dove sono saltate tutte le leggi]. Ma in una certa misura tutti abbiamo scoperto che in una situazione di pericolo abbiamo l’istinto di accumulare scorte di cibo, di allontanarci dalle città che ci sembrano più pericolose della campagna. Mentre l’esperienza della natura selvaggia mi sembra più radicale e nuova anche perché, come scrivi, abbiamo perso i riti, come civiltà, le tradizioni che ci mettevano in relazione alla natura.
Sì, è molto interessante, credo ci sia qualcosa di molto contemporaneo in quel movimento. E poi, la figura di Andres Roberts, la guida forestale di cui parlo nel libro, non ha un ruolo molto centrale nel capitolo ma nel modo in cui pensavo alla questione sì. Ho scritto un altro pezzo per il Guardian un anno fa, dopo aver fatto un’altra di quelle spedizioni in solitaria nella natura. E volevo davvero scrivere di Andres, del suo modo di pensare alla cosa.
L’intuizione che noi, come cultura, abbiamo perso i riti è sua. Ed è bravissimo a inventarsi dei rituali improvvisati. È una persona molto carismatica, cambia l’umore della stanza. Per me è stato davvero interessante perché ho capito che nella mia vita non avevo mai vissuto dei riti. Non sono stato cresciuto in modo religioso. Sono irlandese, quindi ovviamente il cattolicesimo era sempre lì, ma nella mia famiglia non è mai stato preso particolarmente sul serio. Ma sento che c’è qualcosa di vero e urgente in quest’idea che come civiltà, in Europa e in gran parte del mondo, non abbiamo più dei riti che ci permettano di collegarci a qualcosa di più vasto – nel nostro caso la natura. Sì, è un’idea radicale e che mi sembra molto contemporanea. Molto urgente, al momento.
Traducendolo non riuscivo a inquadrare Appunti da un’Apocalisse in un genere specifico: reportage, saggio di antropologia, romanzo distopici, fantastico, d’avventure. C’è stato qualche modello particolare che hai seguito per questo libro?
La cosa strana delle influenze è che inizi con l’obiettivo di scrivere la tua versione di quello che fa una tal persona e poi finisci per fare qualcosa di completamente diverso. Gli scrittori a cui mi paragonano nei media inglesi e irlandesi sono spesso scrittori ben conosciuti e di successo, ma da cui non sarei particolarmente attratto come lettore o scrittore. Spesso finisci per scrivere qualcosa di completamente diverso da quelli che consideri i tuoi grandi modelli. L’epigrafe del mio libro, “Questi nostri tempi sono tempi ordinari, uno spicchio di vita come qualsiasi altro. Chi potrà sopportarlo, chi ne terrà conto?” è di Annie Dillard, da For the time being. È un libro stupendo, bellissimo, la sua opera è di grande ispirazione per me e ci ritorno ossessivamente. Lei è sicuramente una scrittrice che avevo in mente, volevo scrivere un libro che lei avrebbe letto. Forse in certi momenti traspare, ma in generale per nulla.
Poi Don De Lillo è un’altra influenza enorme. A volte mi paragonano a De Dillo, che è molto gratificante – ma sai come funziona, basta che qualcuno ti paragoni una volta a De Lillo perché gli altri poi riprendano il parallelismo. Lui di sicuro è stato un’influenza enorme per me, comunque, rileggo spesso le sue opere. Per entrambi i miei libri, in effetti, ho riletto Rumore bianco – che è un libro decisamente apocalittico – e Underworld e Libra, perché sono tutti infusi di una sensazione di paranoia e fervore apocalittico. Lo considero un nume tutelare.
Poi Jon Ronson [giornalista e documentarista britannico]. Mi paragonano spessissimo a Jon Ronson, che ha scritto libri come Psicopatici al potere. Capisco il perché del paragone, perché anche lui scrive di figure piuttosto estreme. A volte mi definiscono un Jon Ronson più pretenzioso, e mi sta bene.