V orrei parlare di Italo Calvino, ma meglio iniziare da Virginia Woolf. “Devo liberarmi da queste acque. Ma si riversano su di me, mi travolgono con le loro grandi spalle; rigirata, rovesciata, resto distesa tra queste lunghe luci, queste lunghe onde, questi sentieri senza fine, con le persone che inseguono, inseguono”. Sono parole tratte dal romanzo forse più bello della scrittrice inglese. Non ne dirò il titolo, non serve. Lo pronunciano quelle stesse frasi. Frasi di incertezza, indeterminazione, e dunque umane.
È stato detto che in quanto uomini non siamo isole, forse perché, da esseri pensanti e interpretanti, siamo più simili alle onde. O almeno, i nostri pensieri lo sono, quando si riversano ribelli nella mente. Una mente in cui regna il silenzio. In One more cup of coffee Bob Dylan ci parla di qualcuno che scruta nel futuro ma che non ha mai imparato a leggere o a scrivere; che non ha libri sul suo scaffale, ma il cui cuore è un oceano, misterioso e buio. Ecco, questo siamo davvero: misteriosi, bui. Ed è in tale buio mistero che si rimescolano le nostre onde-pensiero, ossia le nostre interpretazioni.
Quando gettiamo un sasso in acqua, partono immediatamente onde concentriche il cui esito, la cui fine, dipende dal posizionamento degli argini, delle rive. Il sasso è l’opera, e noi siamo le rive. Ed è il nostro posizionamento, la nostra localizzazione storica, geografica, culturale a determinare la lettura o le letture, tra le tante possibili. Dei libri, e dei fenomeni. Il sasso scatena nel bacino d’acqua dell’interpretabilità “onde interpretazionali” che ci raggiungono con densità e intensità dipendenti dal punti in cui ci troviamo. È per questo che, nel leggere i fenomeni del reale o anche i testi, conta molto più l’infrangersi dell’onda sull’argine che il sasso colpevole d’averla scatenata.
In termini cognitivi, ma anche comportamentali, conta più l’interazione con un oggetto che impatta su di noi che la meccanica scatenante il suo moto: conta più lo scontro, la deviazione, il nostro incunearci nell’oceano delle idee possibili che il momento in cui quelle idee sono state generate. Momento fondamentale, intendiamoci, ma oscuro e forse irrecuperabile, perché il sasso affonda, e più è ampio e profondo è il bacino dell’interpretabilità, più si rivelerà impossibile la sfida di immergersi per reperirlo.
Quel che ci resta, allora, è il nostro andare a sbattere con le idee generate. Come reagiamo, quel che ne facciamo, come le intendiamo, e anche come le rimettiamo in circolo. Tanto quel che le idee fanno a noi quanto quel che noi facciamo a loro, respingendo o rimandando indietro l’onda. Perché viviamo in un mondo di interazioni continue, e i fenomeni stessi non sono che il generarsi di relazioni tra loro, tramite conflagrazione.
In quanto uomini non siamo isole: da esseri pensanti e interpretanti, siamo più simili alle onde.
E ora arriviamo a Calvino. Quest’anno corre il suo centenario. Se n’è parlato tanto, e se ne parlerà ancora molto. Ma temo che spesso lo si faccia più in termini di passato che di futuro. Ciò, nonostante disponiamo di un suo testamento culturale, i “six memos for the new millennium” che normalmente chiamiamo “lezioni americane”.
Tra gli argomenti trattati dallo scrittore abbiamo l’esattezza, che non va però intesa in senso deterministico: non è ovvero da confondere col tentativo di rendere univoca la lettura delle sue opere. Tutt’altro. Combinata alle altre qualità da trasferire al nuovo millennio, l’esattezza diviene il modo “esatto” con cui aprire all’ambiguità, e dunque, alla molteplicità e alla relazionalità. Lo spiega nella prima delle sue lezioni: “nell’universo infinito della letteratura s’aprono sempre altre vie da esplorare, nuovissime o antichissime, stili e forme che possono cambiare la nostra immagine del mondo”. L’ambiguità avrebbe potuto essere un’altra lezione americana, ma in questo senso diciamo che Calvino aveva già dato, commissionando per Einaudi la traduzione di un grande libro del futuro, i Sette tipi di ambiguità di William Empson. Quei tipi formulati dal geniale critico inglese sono credo alla base anche delle lezioni americane, e introducono, nella percezione della letteratura, soprattutto quella delle opere aperte, un virus anti-deterministico, esattamente come fa la quantistica con la percezione del reale inteso quale rete di relazioni.
Le letture tendono per naturale spirito di autoconservazione a voler districare, a disambiguare, a rendere semplice il complesso. E invece l’arte, ma anche il reale, non ci parla quasi mai di semplicità, neanche quando lo fa con formule semplici e comprensibili. Addita invece sempre più quel “cuore misterioso e buio” a cui allude Dylan. Un reticolo di inestricabilità, potremmo definirlo. Un mondo di caos gioioso, solo apparentemente calmo; ossia, soltanto se osservato dal di fuori. Nei suoi promemoria per il millennio entrante, il nostro millennio, Calvino tenta di preservare quegli scarti di apertura, quegli ammiccamenti all’imponderabile che uniscono il reale e il letterario all’insegna del suo essere sempre sfuggente e non catturabile.
Come le onde. Come la gente che balla al suono del violino in una nota poesia di Yeats: “danzano come un’onda del mare”. Le onde ci parlano di molteplicità, poiché il mare è una “rete di relazioni” appunto tra onde, e questa “rete” può esser letta – ovvero con essa possiamo interagire – in maniera affine sia tramite un approccio letterario sia tramite uno, diciamo, scientifico. È Calvino stesso a incoraggiare la connessione, con i suoi continui riferimenti alla scienza. Nella prima lezione allude anche alla quantistica senza chiamarla per nome, dicendo che “oggi ogni ramo della scienza sembra ci voglia dimostrare che il mondo si regge su entità sottilissime: come i messaggi del Dna, gli impulsi dei neuroni, i quarks, i neutrini vaganti nello spazio dall’inizio dei tempi”.
Le letture tendono per naturale spirito di autoconservazione a voler districare, a disambiguare, a rendere semplice il complesso: e invece l’arte, ma anche il reale, non ci parla quasi mai di semplicità.
Le particelle minime come i “quark” – non a caso parola inventata da Joyce – appaiono sfuggenti, sono invisibili all’occhio umano, ma su esse poggia la base del tutto. Calvino è consapevole che dietro al mondo solido che abbiamo davanti esiste, nascosto, un brulicare caotico di particelle in movimento. Il riferimento gli serve per introdurre Lucrezio e Democrito, l’idea del clinamen e del vagare incostante degli elementi minimi per comporre il mondo sempre diverso in cui viviamo:
al momento di stabilire le rigorose leggi meccaniche che determinano ogni evento, egli sente il bisogno di permettere agli atomi delle deviazioni imprevedibili dalla linea retta, tali da garantire la libertà tanto alla materia quanto agli esseri umani.
Da questa considerazione scientifica ma anche poetica Calvino trae conseguenze letterarie: “la poesia dell’invisibile, la poesia delle infinite potenzialità imprevedibili, così come la poesia del nulla nascono da un poeta che non ha dubbi sulla fisicità del mondo”. Quindi, un visibile che nasconde l’invisibile, sebbene le due sfere non si neghino l’un l’altra, poiché sono la condizione dell’esistenza reciproca. Allargando il campo spiega poi che “tanto il Lucrezio quanto in Ovidio la leggerezza è un modo di vedere il mondo che si fonda sulla filosofia e sulla scienza”, con le dottrine di Epicuro a sostenere la poesia di Lucrezio e quelle di Pitagora ad animare la poesia di Ovidio.
A questo punto urge una chiosa: leggo spesso di scienziati che delegittimano la filosofia e la creatività artistica, ma raramente mi capita di leggere il contrario. Ora, in un mondo di cambiamenti epocali, in cui l’intelligenza artificiale minaccia quella naturale, io sono convinto che i campi della filosofia e dell’arte saranno in futuro quelli meno minacciati, e vedo persino la possibilità di un ritorno a un nuovo umanesimo, in cui le scienze e le arti sapevano compenetrarsi, comunicare e guidare una società in continua metamorfosi.
La rete di relazioni che siamo chiamati a indagare è precisamente quella molteplicità che Calvino intende quale tema chiave del romanzo contemporaneo, e che è anche il filo rosso della nostra contemporaneità:
nella mia prima conferenza ero partito dai poemi di Lucrezio e di Ovidio e dal modello d’un sistema d’infinite relazioni di tutto con tutto che si trova in quei due libri così diversi. In questa credo che i riferimenti alle letterature del passato possano essere ridotti al minimo, a quanto basta per dimostrare come nella nostra epoca la letteratura sia venuta facendosi carico di questa antica ambizione di rappresentare la molteplicità delle relazioni in atto e potenziali.
Relazioni in atto e potenziali è l’affermazione chiave, che di nuovo mi porta a parlare di quantistica. Parlando dei brevi scritti di Gadda – e si cita ad esempio la famosa ricetta per il risotto alla milanese o un testo dedicato all’edilizia e all’adozione del cemento armato al posto dei mattoni vuoti, con l’effetto che ora si sentono assai di più i rumori e le voci degli appartamenti accanto – Calvino dice che “ogni minimo oggetto è visto come il centro d’una rete di relazioni che lo scrittore non sa trattenersi dal seguire, moltiplicando i dettagli in modo che le sue descrizioni e divagazioni diventano infinite”. Sembra un riferimento preciso a quella che viene chiamata, in quantistica, “interpretazione relazionale”, che intende appunto la teoria dei quanti, nelle parole di Carlo Rovelli, in quanto teoria di come le cose si influenzino a vicenda.
Abbiamo poi l’importanza dell’osservazione stessa come parte dell’evento. Già agli albori della quantistica ci si è resi conto di come l’osservazione, la misurazione, influisca sull’esperimento e non sia neutra. Negli studi culturali sappiamo che il critico non è mai estraneo al fenomeno che discute. Calvino è consapevole di questo ruolo attivo dell’osservatore e dice, sempre riguardo a Gadda: “Prima ancora che la scienza avesse ufficialmente riconosciuto il principio che l’osservazione interviene a modificare in qualche modo il fenomeno osservato, Gadda sapeva che ‘conoscere è inserire alcunché nel reale; è, quindi, deformare il reale”. La discussione poi coinvolge l’altro scrittore-ingegnere, Robert Musil, e secondo Calvino un confronto tra i due deve “registrare [un] dato comune a entrambi: l’incapacità a concludere”.
“Molteplice” significa plurale, ma preserva qualcosa in più in termini generativi: sembra alludere a uno status di infinita moltiplicabilità, non alla stasi di una situazione plurale.
Siamo nell’ambito dell’opera aperta ovviamente, e il passo fino a Proust, Joyce e tanti altri è breve. Passa ancora attraverso un rapporto con la scienza, con la sua apertura “scettica al dubbio”. Calvino parla di “scetticismo attivo” e di una “scommessa nell’ostinazione a stabilire relazioni tra i discorsi e i metodi e i livelli”. Il che lo porta a quella che è forse una delle tante conclusioni (parola intesa qui come una delle possibili fini del ragionamento ma anche dei possibili fini) ossia che “la conoscenza come molteplicità è il filo che lega le opere maggiori tanto di quello che viene chiamato modernismo quanto di quello che viene chiamato il postmodern”. Calvino auspica che questa nuova intenzione di conoscenza come molteplicità continui “a svolgersi nel prossimo millennio”.
È un augurio ma anche una profezia inverata negli esiti pratici della quantistica, ad esempio, ma anche dalle infinite riformulazioni artistiche, anche di opere del passato, le riscritture, gli adattamenti, le nuove strade ermeneutiche. L’esito che Calvino auspica è l’esito della conoscenza intesa come procedimento e non come prodotto finale: di qui il passaggio dall’enciclopedismo chiuso all’enciclopedismo aperto. In questo transito da medioevo a futuro, entra in ballo di nuovo Joyce.
Per Calvino lo scrittore irlandese “ha tutte le intenzioni di costruire un’opera sistematica e enciclopedica e interpretabile su vari livelli secondo l’ermeneutica medievale. Questo in Ulisse per poi arrivare alla “molteplicità polifonica nel tessuto verbale del Finegans Wake”. La riflessione su Joyce è seguita da belle pagine su Borges e sulla simultaneità: “un tempo plurimo e ramificato in cui ogni presente si biforca in due futuri”. Il che sembra annunciare la discussa “interpretazione a molti mondi” della quantistica, secondo cui ogni evento consiste in una sorta di punto di diramazione: viviamo in diversi rami dell’universo tutti reali ma non in grado di interagire tra loro.
Da ogni misurazione quantistica conseguirebbe la divisione dell’universo in realtà parallele, ognuna caratterizzata dai suoi risultati, sempre soggettivi. Evitando di entrare nel dibattito sull’affidabilità di questa teoria affascinante, ma sempre restando su Borges, Calvino parla infatti di una sua “idea d’infiniti universi contemporanei in cui tutte le possibilità vengono realizzate in tutte le combinazioni possibili”. Questa simultaneità l’aveva vista anche nello Zibaldone (parliamo della lezione sulla “rapidità”). Queste le note di Leopardi stesso riguardanti velocità nello stile: “la rapidità e la concisione dello stile piace perché presenta all’anima una folla d’idee simultanee, così rapidamente succedentisi, che paiono simultanee”.
Ecco il punto: idee che “paiono simultanee”, ma che non lo sono. Viviamo in un mondo in cui tanto, tutto sembra accadere “come in simultaneità”; ma il tempo non è assoluto: è legato allo spazio, alla collocazione, al posizionamento. Per questo non esistono eventi davvero simultanei; eppure, permane la percezione della simultaneità.
Molteplice significa plurale, ma preserva qualcosa in più in termini generativi: sembra alludere a uno status di infinita moltiplicabilità, non alla stasi di una situazione plurale. È la stessa frizione tra apparire ed essere. Tra caos calmo visto dall’esterno e moto caotico interiore. È questo un contrasto perenne, un accavallarsi di cavalloni che da un lato ci parla dell’impossibilità di isolare alcunché al fine di analizzarlo – dal momento che non viviamo di isolamenti, non essendo isole-menti – e dall’altro ci invita a tuffarci nel mare dell’interpretabile, non più alla ricerca del sasso che ha scatenato le onde, ma della sensazione di venire, come diceva Woolf, “rigirati, rovesciati” dalle loro “grandi spalle”.