A nne Boyer vanta il titolo di “miglior scrittore di Kansas City dell’anno 2014”, eletta da una rivista locale che ha ammesso di averne il terrore, ma le è grata per “la lettura parallela dell’attualità e della psiche del ventunesimo secolo” accumulata scrivendo, citando e “twittando come se avesse inventato non solo Twitter, ma anche le biblioteche”. Boyer abita, da sempre, in Kansas, uno degli stati quadrati al centro degli Stati Uniti a equa lontananza dai centri liberali costieri, insieme a una figlia che nei libri la chiama “Anne”, in una casa arredata con lentezza durante anni di estenuante convivenza con malattia, povertà e difficoltà legate all’essere una madre single.
In “The Open Book”, una poesia sul bisogno di proteggere l’intelligibilità dei propri desideri lasciandoli fuori dai libri contabili di relazioni e lavori di servizio, scrive di una ragioniera che “tiene una contabilità trasparente perché esiste un organismo più grande che pretende di conoscere il suo cuore: si suppone che il suo cuore sia, spontaneamente, un cuore che desidera il profitto, e anche un cuore che riflette (in miniatura) il desiderio fondamentale dell’organismo più grande”. Boyer oggi vive della sua penna e della sua mente: insegna scrittura al Kansas City Art Institute, è visiting poetry fellow all’università di Cambridge nel Regno Unito, compare a reading e conferenze per leggere estratti dai suoi saggi di teoria politica radicale con l’impostazione retorica dell’orazione pubblica, ma conservando l’enfasi e l’intimità delle favole della buonanotte.
Boyer scrive saggi lirici, con cui compone raccolte di miscellanea, all’apparenza in prosa, in cui ogni frase è composta con cura spasmodica. Ogni pezzo si può leggere come un tentativo di mettere in ordine anni di letture disarticolate – l’educazione che Boyer rivendica è avvenuta nelle “scuole pubbliche e biblioteche del Kansas” – e da ogni riga traspare lo sforzo dell’autodidatta che si impone rigore e ritmo di marcia in assenza di mentori. Il suo decalogo di “regole per insegnanti” sottolinea, al punto 3, quanto sia importante “ricostruire per gli studenti i propri errori di pensiero precedenti e chiarire quali fattori hanno poi indotto un ripensamento”, si apre consigliando che “siano poste solo domande per cui davvero si necessiti di una risposta”, ma ricordando, al punto 11, che “un bullo socratico resta un bullo”. Boyer rende disponibili i propri lavori, quelli di cui detiene i diritti perlomeno (opuscoli, pamphlet poetici e traduzioni dallo spagnolo) in pdf gratuiti scaricabili dal suo sito. Chiedendoglielo con cortesia, è disposta a condividere anche i suoi libri di carta (non ancora tradotti in italiano) con chi non può permetterseli: A Romance of Happy Workers (2008), Garments Against Women (2015) e A Handbook of Disappointed Fate (2018).
La sua newsletter, Mirabilary, è una collezione di “lettere d’amore sul pensare”. Le idee di Boyer custodiscono la propria origine umile, fingendosi veloci note scritte su fogli volanti e Google Docs senza nome, e conservano la forza infestante dei testi non finiti, colmi di informazioni e spunti – note a margine, appunti di lezione, stralci di diario, email lasciate in bozza – soprattutto quando si rivelano organizzate in sistemi teorici rampicanti. Non è raro che Boyer stessa compaia nei suoi testi accerchiata da elementi della sua storia privata, ma perlopiù lo scopo dei suoi autoritratti al bancone della cucina, intenta ad affettare verdure per la cena, è aprirsi, come succede in “The Innocent Question”, in cui disamina la natura classista di concetti come “gusto” o “discorso”, conservando all’interno della riflessione offerta anche la storia delle condizioni che l’hanno vista nascere.
Le declinazioni del realismo capitalista che Boyer individua e illustra nelle strofe dei suoi saggi creano rime teoriche sparpagliate un po’ dappertutto nei suoi scritti, che non nascondono l’intenzione di supplire lacune narrative e storiografiche: “ci sono molte cose che non mi piace leggere, soprattutto i resoconti della vita dei liberi”, scrive ancora in “The Innocent Question”. Al contrario, sono certe isotopie politiche – l’apprezzamento di un canone di scrittura femminile sommerso, tradizioni subalterne o fallite di attivismo e radicalismo filosofico, coscienza e rivendicazione del trauma personale e collettivo causato dai disequilibri sociali – che Boyer intesse per raccontare come “tutte queste cose lavorano insieme per diminuire la vita”, “affievolire le possibilità della vita in generale”. “When the Lambs Rise up Against the Bird of Prey” allude alla parabola nietzschiana degli agnelli e dei grandi uccelli predatori per riflettere sull’astuzia dei deboli, una forma di immaginazione condivisa e sotterranea che mira alla sopravvivenza, una linea di pensiero fondata sul “mai confondere la cena per la totalità” ben più articolata della fame brutale dell’uccello predatore.
Questo perché l’educazione dell’uccello predatore equivale al suo desiderare, e la sua forma di desiderio è limitata al voler assaggiare. L’agnello è diverso. L’agnello non impara seguendo il desiderio o rifinendolo: l’agnello impara comprendendo il mondo come sistema, in tutte le sue varianti e relazioni, così che possa in effetti restarci dentro, vivo.
Chi esiste in uno stato di subalternità, sopravvivendo, non può essere innocente, e tutto il lavoro di Boyer mira a descrivere le tattiche delle greggi che “conoscono il sistema generale del suono” ma “capiscono anche la quiete”, i modi di usare il tempo guadagnato restando lontane dagli artigli dell’uccello predatore, vive nonostante la sua “stupida logica della cena”. In aperto rifiuto della mentalità che legge ogni cosa come possesso potenziale, e giustifica l’uccisione in quanto consumo, Boyer cerca di “tenere viva l’esperienza fuori moda”, resistere facendosi bastare poco: “ho cenato con il ripieno, il sottaceto, lo scortese” scriveva in A Romance of Happy Workers, “canto dell’inscatolato e del candito”.
In “Ma Vie en Bling: A Memoir” – che peraltro contiene la ricetta della torta al cioccolato per quando si possiede una sola, piccola teglia rotonda – Boyer cataloga tutto ciò a cui è costretta a rinunciare, o a cui non può più accedere, nel momento in cui si trova a dover affrontare gravi ristrettezze economiche. Dormire al freddo, appigliarsi ai buoni spesa ricevuti per posta, pensare in continuazione ai soldi, sia come concetto che come oggetto barattabile con un cookie: ogni gesto di mera sopravvivenza restringe le possibilità di esternalizzare la propria identità, i cui contorni si inaridiscono fino a toccare il centro, il nome, “pensavo che avere un nome equivalesse a diventare un oggetto. Pensavo di essere una ciarlatana. Mi ero sbagliata. Non ero una ciarlatana, ero un termine di ricerca”.
Non potendo più partecipare all’economia sociale fondata sull’acquisizione, Boyer inavvertitamente sperimenta le condizioni che si era posta in esame, indagare la vita del soggetto che, astenendosi dall’affiliazione e dalla profilazione, rifiuta i cookies, tenta di sfuggire al diventare esso stesso informazioni indicizzabili. Si chiede, in Garments Against Women: “è possibile scrivere di oggetti – dell’aspetto e della sensazione delle cose, i vestiti sui corpi e dentro i mobili nei giardini e nelle stanze senza in qualche modo provocare pure il desiderio di acquisire più cose, o addirittura, volendo scrivere di come si fanno le cose, è possibile scrivere di come si fanno le cose senza anche provocare il desiderio di averle?”. Della genesi di Garments Against Women, Boyer ricorda:
Garments è stato scritto un po’ di tempo fa, soprattutto nel 2010 e anni precedenti. Mia figlia ed io lottavamo, all’epoca, nel tipo di povertà per cui ci si ammala di continuo a causa dello stress e del lavoro eccessivo e del cibo schifoso, per poi non avere assicurazione o denaro o tempo per curare i problemi causati dal non avere assicurazione, denaro o tempo. Cominciai a credere che era il peso addizionale che mi ero caricata addosso volendo essere una scrittrice che mi stava facendo ammalare e che saremmo state molto più felici e in salute se l’avessi abbandonato. Le cose cambiarono per noi, per fortuna, nel 2011, e appena ottenuto un lavoro a tempo pieno con assicurazione sanitaria e una paga sufficiente a pagare l’affitto smisi di ammalarmi di continuo e mi fu diagnosticato un cancro al seno nel settembre 2014.
“Woman Sitting at the Machine” nasce dalla scoperta che un corpo malato è fonte di maggior profitto di un corpo sano al lavoro. Davanti alla concreta possibilità di non sopravvivere, al tumore o alla chemioterapia necessaria per curarlo, Boyer espande la sua riflessione sulle azioni che cadono nella categoria del “lavoro”. Il corpo malato non pensa chiaramente – “non riesco a dire se una malattia profittevole è un tipo di lavoro o un tipo di commodity o qualche altra classificazione economica” – di conseguenza non riesce a scrivere: “come indicare quello-che-non-scrivo-perché-sono-malata, come un’eruzione o un’interruzione?”. Se è lavoro tutto ciò che è “non scrivere”, il cancro è lavoro in quanto interruzione della scrittura, prepotente quanto ogni altra attività, dovuta o voluta, retribuita o meno, che sia di cura, per profitto o per diletto.
Nonostante le “ore passate producendo ‘non scrivere’”, tutta la seconda parte di A Handbook of Disappointed Fate (e l’intero The Undying, la raccolta in uscita nel 2019) srotola la storia del cancro di Boyer e del cambiamento d’asse che chemioterapia e convalescenza le hanno causato: in “The Harm” assicura che, una volta arrivato, “il dolore porterà via le ore del giorno o le allungherà”, ma che “il dolore può essere studiato come qualunque altra cosa, ogni lacrima versata un libro di testo, ogni minuto di fiato corto una monografia, sette ore e quattordici minuti di notte insonne una noiosa, ma potenzialmente utile dissertazione sull’essere esistita”. Con “The Kinds of Pictures She Would Have Taken” Boyer lamenta l’esistenza sospesa ancora prima del raggiungimento della sua scadenza effettiva, il forzato ritiro dalla vita pubblica e politica imposto dal corpo esausto, una condizione terminale di “povertà ottica” che non solo isola la persona malata, ma impone anche un ribaltamento di priorità, rendendo le sofferenze dell’amore romantico e del lavoro non pagato mere questioni di estetica.
Boyer si proietta in una dimensione post mortem nella quale il suo intero vissuto andrebbe compreso entro i termini dell’interruzione prematura causata dal cancro, ma allo stesso tempo trova conferma – in “The Dead Woman” – di far già parte di una collettività particolarmente prossima alla morte: “le donne diventano donne morte ogni minuto, ed è sempre stato così”. Eppure, nonostante combatta contro il “non scrivere”, e in risposta all’anonimato espanso che caratterizza il genere femminile, Boyer espone contemporaneamente una genealogia di pensatrici colpite dal cancro, un canone della “morte sororale”: “non esiste malattia più disastrosa del cancro al seno per la storia intellettuale delle donne, e questo perché non esiste malattia più distintamente disastrosa per le donne. Non c’è altra malattia le cui agonie siano più voluminose, non solo le agonie proprie del male stesso, ma anche le agonie del non averne scritto, o del perché scriverne, o come. Una malattia patita quasi esclusivamente dalle donne presenta il devastante problema della forma”.
Boyer controlla l’atipicità della propria scrittura secondo una precisa intenzionalità autoriale: un costante accostarsi a tutti i generi senza adottarne alcuna convenzione. L’effetto creato è quello di “un catalogo di balene che è un catalogo / di ossi di balena dentro un catalogo di vestiti / contro le donne che non potrebbe mai essere un romanzo di per sé”, una maniera di pensare che, privilegiando la specificità, l’eccezione e la minorità, suggerisce modi e temi per rettificare le tendenze universaliste del pensiero astratto tradizionale. La ricercatezza del linguaggio accademico è, sì, reiterata, ma con l’intento di imitarne e preservarne la grande precisione, scrollandone però via le manie di controllo del citazionismo e l’isteria dei riferimenti bibliografici. Il retaggio culturale che è esplicitato nella poesia (spesso con note a piè di pagina) è un’aperta affermazione politica, una testimonianza delle ore dedicate allo studio e alla lettura piuttosto che ad altre attività, magari più utili o proficue nell’immediato.
Il conflitto, però, tra vita della mente e quotidianità, resta irrisolto, e nonostante con “Sewing” Boyer dichiari “ora do le ore della mia vita che non vendo ai miei datori di lavoro ai vestiti”, quando, dopo intere notti passate a imbastire orli, Boyer si ritrova di fatto ad aver sostituito lo scrivere con il cucire, il dubbio che le due attività non abbiano, alla fine, lo stesso valore, si ripresenta altalenante. “Dovrei scrivere di più e cucire di meno”, conclude, dopo aver descritto un abito artigianale scovato in un mercatino dell’usato: un vestito grigio a pois con l’etichetta “realizzato da Louise Jones”, straordinaria e oscura sartina il cui lavoro, poiché domestico, è ritenuto irrilevante:
cucio, e la storia del cucire diventa un sentimento come quando ero poeta, quando scrivevo poesie e quella cosa – la cultura – iniziava a gettare viticci in me, ma è probabile che abbia più senso cucire un vestito che scrivere una poesia.
Raccontando il proprio vissuto alla prima persona, ma senza focalizzarsi sull’io narrante, Boyer denuncia lo sfruttamento della falsa dicotomia tra pubblico e privato: “ci sono queste cose nel privato: dolore, fame, morte, malattia, mestruazioni, stupro, sesso, lavoro, pulizia, preparazione del cibo, cura degli animali, aborto, aborto spontaneo, crepacuore, sporco, debiti, lavorare e fatture dell’ospedale. Queste sono le cose che sono pubbliche: ———————” scrive nel pamphlet My Common Heart. Boyer non percepisce la casa se non come una zona di reclusione camuffata in rifugio, dove si svolge lavoro faticoso, specializzato, ma svenduto come atto d’amore: “una casa che rafforza l’isolamento ma nega l’intimità” (“A House That Enforces Isolation But Denies Privacy”) prevede “una stanza apposta per pelare una carota” e “permette solo una conoscenza fuggevole tra i suoi abitanti o una serie di intrusioni intempestive. Senza porte o corridoi, la casa è fatta di tante camere incastrate che non lasciano passare nessuno dalla stanza con un letto a quella con il frullatore senza entrare anche nella stanza con il water e nella stanza con la maniglia dello sciacquone”.
La stasi fuorviante del corpo chino che scrive, isolato, che porta a termine senza lamentarsi i lavori di cura assegnatogli, è in realtà promessa di un manifesto politico, o almeno di una letteratura che “con ritrosia vada contro la letteratura”, come Boyer preannuncia in “A Woman Shopping”: “presto scriverò un lungo, triste libro intitolato Una donna fa le compere. Sarà un libro su quello che ci è richiesto di fare e anche ciò per cui siamo odiate. Sarà un libro sull’invidia e sulle cose appena visibili”. È una scrittura che sopravvive all’oppressione e riemerge con prepotenza nonostante il trauma, autodidatta e incurante delle formule: “osservare da vicino un rampicante durante la stagione della crescita, soprattutto quando sta strappando rivestimenti e spaccando fondamenta, può equivalere a un anno di letture in teoria politica. Se è uno scontro tra campanule e architetture monumentali, è sicuro che starò dalla parte delle campanule”.
La tavola di stile dietro la poesia politica di Boyer è il risultato del suo fare scorta di brani, passaggi e versi, setacciando le fonti scritte per selezionare specifici punti di significato, poi composti a collage in un discorso dalla consistenza stratificata e giustapposta. In effetti il pensiero di Boyer annulla le gerarchie tra saperi e dati, ogni riferimento serve specificatamente ad avanzare le sue rivendicazioni poetiche: la citazione diventa un atto assertivo che, tolto dal contesto storiografico, tenta, alle volte arbitrariamente, un discorso più articolato, sebbene slegato da criteri di pertinenza e storicità. In “Click-Bait Thanatos” ripercorre la storia della poesia – da “struttura della memoria e aiuto didattico con una funzione sociale”, un antico motore di ricerca – fino alla fine del mondo, l’apocalisse dei bot e dell’informazione ricercabile, ma inserita in una “struttura amnesica”: “informazione che è inganno, illuminazione parziale”, una “luce spesso peggiore del buio, come tubi fluorescenti che fanno crescere le piante senza assomigliare affatto al sole”.
Passiamo i giorni ricercando i motori di ricerca che a loro volta ricercano noi. Cerchiamo istruzioni, resi click-bait da timore e tremore, azionati da qualunque sia la forza che lascia le rovine delle fabbriche nella Rust Belt invase dalla veccia, le discariche piene di ratti e rondini.
Boyer crea testi che, nell’agio degli spazi espansi della prosa, ospitano una lingua resa bella dall’acutezza di ragionamenti tanto logici quanto estrosi, e che, applicata a qualunque argomento, è capace di conferirgli un’importanza e un impatto poetici, che si parli di Mary J. Blige, di Colette o del De rerum natura.
“Mi è stato detto che risulto incomprensibile: Anne, che intendi quando dici che notare una cosa può fare sparire tutte le altre?”: Boyer si concede a singhiozzo confessioni di vulnerabilità, momenti in cui esprime timori circa l’insufficienza delle proprie riflessioni insieme al desiderio di verbalizzarle nel modo più trasparente possibile. Non volendo corrodere il proprio oggetto d’analisi, Boyer lascia molto di incompiuto nei propri scritti, perseguendo una reticenza che è tanto un rifiuto di rivelare le tattiche degli agnelli – per proteggersi dal vedersi rinfacciare e ritorcersi contro le sue stesse parole – quanto un appello all’intelligenza di chi legge. Quando in “Poetry and the Law” si inscena un confronto impari, viziato dalla prassi del tribunale, tra il poeta e la legge, il poeta è chiamato a difendersi dal sospetto che la sua poesia sia prova dell’esistenza di “un desiderio per qualcosa d’altro rispetto alla legge”, e cerca di svincolare sé stesso dal desiderio e dal significato che ha ritratto nella sua arte.
“La legge, quando considera la poesia, la considera in quanto mezzo per finalmente perseguire i cuori”: per questo Boyer preferisce non esporsi con propositi categorici, quanto piuttosto incoraggiare il coinvolgimento seminando un senso di responsabilità, un’ipotesi di direzione, e se si oppone alla legge lo fa conscia del fatto che le regole sono composte da parole, la stessa fibra malleabile che condividono con la poesia. E quando twitta: “mi piacciono comunismo senza partiti, poesia senza premi, filosofia senza filosofi & amore senza amore quindi che tipo di algo-seeding [crasi tra algorithm e seeding, seminare] può darmi una qualsiasi di queste cose”, Boyer sta praticando un romanticismo militante che immagina forme di amore meno pesanti, e vorrebbe leggere la poesia delle condizioni di vita migliori.