F ino a marzo 2020 termini come “supply chain”, “filiere”, “catene del valore” circolavano solo tra specialisti. Negli ultimi tempi le cose sono cambiate. Il covid, la guerra in Ucraina e le tensioni sino-americane hanno messo alla prova i sistemi di produzione-distribuzione da cui dipende l’economia contemporanea. Gli effetti sono noti: l’inflazione che sta erodendo il nostro potere di acquisto ha origine dallo sfibrarsi delle catene di approvvigionamento, ancor prima che dalla crisi energetica.
Per questo motivo, ve ne sarete accorti, di recente si parla di supply chain anche al bar. Il dibattito, tuttavia, si è mantenuto sulla superficie delle cose. Non ci si è per esempio chiesti cosa, col tempo, abbia reso le filiere tanto fragili e conduttive per gli shock operativi ed economici. Quali siano i loro presupposti. Quali strumenti, in condizioni normali, ne garantiscano il funzionamento. L’interesse per i problemi delle “supply chain” non si è tradotto in pari curiosità per i temi della logistica. È curioso. La logistica non è solo responsabile del funzionamento delle filiere, è la ragione della loro stessa esistenza. Essa è molto più di un collante materiale delle supply chain e del loro modello socioeconomico (semplificando: la globalizzazione): è il loro orizzonte di possibilità, in senso materiale e concettuale. Già, ma cos’è la logistica?
Se ponessimo questa domanda a cento persone, otterremmo cento diverse risposte. La definizione che provo a fornire nel mio libro La signora delle merci (LUISS University Press, 2023), è che la logistica è una meta-disciplina che si occupa di progettare sistemi di distribuzione di cose – materiali e immateriali – nello spazio. Di coordinare il loro flusso per ottimizzarne la coordinazione spazio-temporale (che è un altro modo di dire efficienza economica). Non è evidentemente una definizione semplice o sintetica. Questo poiché, sebbene aspiri alla semplificazione e alla sintesi, la logistica dimora nella complessità e nella molteplicità. I suoi confini combaciano con quelli di innumerevoli altri territori – dalla geopolitica all’urbanistica, dall’ecologia alla guerra, dalla tecnologia all’economia, dalla Storia del diritto a quella del lavoro. Ambiti con cui la logistica è in costante dialogo e da cui è costantemente dialogata, in una crescente vertigine di densità tecnica e teorica.
La radice della parola “logistica” viene dal greco Logos, un termine fondamentale per il pensiero occidentale. Per Eraclito esso rappresentava la razionalità intrinseca a qualunque manifestazione della Natura. Per gli stoici, Logos era il principio che conferiva ordine al fluire del mondo. E in effetti la capacità di razionalizzare e ordinare flussi, di cose (merci e non solo) e di informazioni (dati e non solo), è una delle principali prerogative della logistica. Il grado in cui essa vi riesce è determinato dallo sviluppo degli strumenti, delle tecnologie e delle infrastrutture di cui essa si avvale. Più sono sofisticati e maggiore è il controllo che la logistica riesce a esercitare sui processi di cui si occupa. Maggiore è tale controllo, maggiore è la complessità, e la densità operativa, che tali processi riescono a esprimere, nonché la dimensione spaziale in cui possono dispiegarsi. Più grandi sono queste condizioni e maggiore è l’intensità con cui la logistica determina i fenomeni a cui si applica: siano economici o ecologici, geopolitici o finanziari, industriali o sociali.
È un loop. E, del resto, la logistica ha molto in comune con – e fa spesso ricorso a – discipline che si occupano di loop, di entropia e di feedback. Discipline come la cibernetica, la teoria del caos, l’analisi dei sistemi, l’informatica. Ma non complichiamo troppo le cose.
In virtù delle sue facoltà di progettazione, e razionalizzazione, di sistemi e processi, la logistica è una delle principali determinanti della loro fattibilità. Per capirci: se un giorno esploreremo il cosmo sarà perché la logistica spaziale si sarà sviluppata al punto da rendere possibile, ed economicamente sostenibile, lo spostamento di cose e persone nello spazio extraatmosferico. Così facendo, inevitabilmente essa ne definirà, ne sta già ora definendo, alcune caratteristiche salienti.
La stessa considerazione, ma a ritroso, si può applicare a fondamentali fenomeni storici. L’innovazione logistica, a livello della capacità di coordinare e centralizzare prassi militari, fiscali e burocratiche, fu, per esempio, una delle principali ragioni dell’ascesa di Roma. Ne sopravvive un chiaro memento nella Colonna Traiana, nonché nelle innumerevoli città europee che le legioni fondarono in primis come avamposti logistico-amministrativi. Allo stesso modo non è eccessivo definire la lunga parentesi del colonialismo europeo in Asia ed Africa come un fenomeno intrinsecamente logistico. Ancor più dell’opportunismo economico (e del fanatismo religioso, che troppo spesso si elide), furono le necessità materiali dei trasporti, e l’organizzazione dei loro flussi, a decretarne l’estensione e le specificità geografiche.
Per rendersene conto è sufficiente osservare una mappa dell’Estado da India, la collana di infrastrutture coloniali portoghesi nell’Oceano Indiano, matrice di ogni successiva impronta occidentale nell’area. Da essa si evince molto chiaramente come la densità e la sequenzialità degli approdi (le famigerate feitorias) che, un pezzo di costa dopo l’altro giungevano da Lisbona a Malacca, avesse scopi principalmente logistici. Congiungendo “punti vicini tra loro” (Braudel), essi servivano a rendere la navigazione oceanica commensurabile a navi la cui agibilità dipendeva interamente dalle condizioni del vento e del mare. L’Estado da India era, a tutti gli effetti, un complesso sistema logistico, proprio come lo sono oggi le catene di approvvigionamento.
Sebbene aspiri alla semplificazione e alla sintesi, la logistica dimora nella complessità e nella molteplicità.
Ricapitolando lo sviluppo della feitoria di Macao, un mandarino cinese del Seicento ce ne restituisce i sedimenti di uso (“all’inizio hanno messo un porto, col tempo hanno costruito magazzini e infine hanno eretto torri militari e bastioni per difendersi al loro interno”) e ci ricorda come nello sviluppo di qualunque ecosistema logistico, la “ragion pura” del trasporto conviva con “la ragion pratica” dell’amministrazione e della difesa.
All’alba dell’età moderna troviamo la logistica al centro di ulteriori fondamentali svolte. Da essa dipende la nascita del capitalismo mercantile e delle prime corporazioni multinazionali. L’impegno finanziario della logistica oceanico-coloniale è di portata tale che il genere di associazione estemporanea di mercanti tipica del Medioevo – la collegantia delle Repubbliche Marinare o i kontor della Lega Anseatica – non basta più a garantire la sostenibilità dei costi.
I primi a capirlo sono gli olandesi. Nel momento (marzo 1602) in cui fondano la Compagnia delle Indie Orientali (VOC) la dotano di uno dei primi aggregati di capitale fisso, e aperto ad azionariato, della Storia. Questa svolta, storicamente influentissima, è indispensabile per consentire l’allestimento di una flotta capace di competere numericamente con le marine delle monarchie iberiche e di superarle in innovazione.
Ugualmente logistici sono i presupposti della transizione dal capitalismo di stampo commerciale, che si pratica tra XVI e XVIII secolo, e quello di tipo industriale-produttivo che vi succede nel XIX. Come nota, tra gli altri, Marx nei Grundrisse, è nell’accelerazione dei mezzi di trasporto e comunicazione (treni, telegrafo, navi a vapore) che avviene durante la Pax Britannica, che si possono rintracciare i principi economici di coordinazione e scala, che permettono alle industrie del Nordatlantico di passare dai processi di produzione analizzati da Smith e Ricardo – ancora imparentati con l’artigianalità – ai “sistemi di fabbrica” del secondo Ottocento e del primo Novecento, oggetto dell’analisi dei primi marginalisti.
Le fabbriche del XX secolo sono luoghi in cui la logistica, intesa di nuovo come “distribuzione di cose nello spazio”, non riguarda più solo i processi all’esterno delle fabbriche (per esempio: l’approvvigionamento di materie prime, di estrazione al tempo imperialista) ma anche il movimento dei flussi al loro interno.
È di questo che si occupano i cosiddetti “studiosi del lavoro”, i quali mirano a imporre un regime iper-razionalizzato ai processi di produzione. Al punto da arrivare a interessarsi del micro-management del corpo del lavoratore e dei suoi flussi operativi. È celebre il caso dei coniugi Gilbreth che cercano di individuare, carta millimetrata alla mano, la traiettoria più breve dei gesti del lavoro per ricavarne standard da imporre a tutti gli operai.
Personaggi come Frederick Taylor e i Gilbreth sovrappongono in altre parole ai processi di produzione un filtro di ottimizzazione spazio-temporale, che non è solo profondamente euleriano ma ha una profonda affinità con quello della logistica delle odierne “supply chain”. Come sostengo nel mio libro, è anzi lo stesso identico filtro, ma ridotto all’ambito ristretto dello spazio di una singola fabbrica, anziché a quello più ampio della produzione spazializzata e “in itinere” delle filiere trans-nazionali.
Lo scopo di Taylor e compagni è la trasformazione di flussi altrimenti entropici di cose e processi, in sistemi coordinati, ordinati e razionalizzati. A inizio ‘900, l’esito ultimo di questo processo di addomesticamento dello spazio della produzione è la comparsa del sistema industriale-logistico per eccellenza: la catena di montaggio. La cui composizione, solo a prima vista semplice, è in realtà il frutto di un’elevata complessità materiale, matematica e concettuale. L’avvento della catena di montaggio ha per effetto non solo un drastico incremento della produttività industriale ma anche della sua computabilità e verificabilità statistica.
La catena di montaggio offre inedite certezze quantitative (quanto prodotto, in quanto tempo, con quanto capitale e lavoro investiti) rispetto a ogni precedente sistema industriale. La conseguenza della riduzione dell’entropia, e dell’aumento della qualità dell’informazione, che la catena di montaggio è in grado di fornire ai manager che la auscultano si riverbera sull’intero sistema socioeconomico. Essa è di fatto il ventricolo del modello di sviluppo (la cosiddetta “società dei consumi di massa”) che si afferma nell’Occidente del dopoguerra, in particolare nel periodo dei famosi “miracoli economici”.
Nell’ambito dell’economia politica del periodo, il corrispettivo dell’ingranaggio di compromessi, e di pesi e contrappesi quantitativi, che caratterizza la catena di montaggio in quanto “sistema logistico” e in quanto “sistema chiuso”, è la macroeconomia keynesiana con le sue politiche di stabilizzazione dei rapporti tra capitale e lavoro, occupazione e inflazione, investimento e debito all’interno dei singoli Stati nazionali. Per ragioni che dettaglio nel mio libro, il buon equilibrio di tale rapporto entra spontaneamente in crisi sul finire degli anni Sessanta (il primo sintomo è proprio l’inflazione di dollaro e sterlina) e non fa altro che peggiorare per tutti i Settanta, favorendo l’aumento dell’influenza sulla politica occidentale (in primis anglosassone) di nuovi orientamenti, correntemente sintetizzati con l’espressione “neoliberismo”. Al posto di sistemi economici insulari, a “misura di Stato” e ad entropia stabilizzata, il neoliberismo predica un mercato aperto, a vocazione microeconomica, in cui la circolazione altamente entropica degli input è, in teoria, automaticamente e globalmente regolata dal meccanismo cibernetico dei prezzi.
Le filiere sono la vera ragione, invisibile agli occhi, della stupefacente rapidità e del ridotto costo del progresso tecnologico e informatico di questo nostro primo scorcio di XXI secolo.
Dopo la fine della Guerra Fredda (la cui funzione di “check and balance”, anche socioeconomica, viene spesso sottovalutata), dal punto di vista dei paesi occidentali più avanzati (i centri del sistema-mondo del secondo Novecento), questa svolta si traduce nell’apertura di un ampio spazio di azione, ed esportazione di capitali e produzioni, nelle periferie meno sviluppate. “Vasto programma”, avrebbe detto De Gaulle.
Programma che, quantomeno dal punto di vista industriale e produttivo, difficilmente sarebbe stato possibile senza l’intervento della logistica. La cui capacità di imporre forme di “command & control”, di natura operativa, concettuale e “socio-territoriale”, a questo nuovo spazio e di organizzarne, coordinarne e fluidificarne i flussi di materiali è una componente decisiva nel passaggio dalla carta alla pratica, del modello economico del neoliberismo. Gli elementi decisivi in tal senso sono soprattutto due: l’incremento della capacità di calcolo, previsione, progettazione e gestione di sistemi complessi ed entropici, che è figlio dell’avanzare delle tecnologie informatiche (oltre che dell’esperienza logistica bellica), e lo sviluppo di un sistema di trasporto estremamente fluido e del tutto anfibio: la containerizzazione, ovvero il linguaggio materiale, il medium-messaggio in cui “parla” l’epoca della globalizzazione. È questa, in estrema sintesi, la “politica delle operazioni” e la profonda genealogia logistica delle “catene di approvvigionamento” e delle “global value chain” che sono state la cifra dello sviluppo economico globale degli ultimi trent’anni.
Le conseguenze di questo processo sono, come si sa, innumerevoli. La frammentazione e la spazializzazione dei sistemi produttivi in Occidente non è coincisa solo con un aumento di entropia operativa ma, per molti versi, anche economica e sociale. Un’entropia legata alla rottura dell’equilibrio tra capitale e lavoro nelle economie del Nordatlantico. Dopo una breve luna di miele tra anni Novanta e Duemila, tale entropia si è tradotta in espliciti rigetti del modello della globalizzazione (Brexit, Trump etc) e, per molti versi, della stessa “tecnica” (logistica) che l’ha reso possibile. È anche a questo che si deve il penoso oscillare tra pulsioni populiste e diktat tecnocratici che caratterizza ormai la vita nelle democrazie occidentali.
D’altra parte, la globalizzazione è anche la ragione d’essere del nuovo grande soggetto storico e geopolitico di questo secolo: la Cina e più in generale l’Asia. La quale, di fatto, è stata una delle maggiori beneficiarie del trasferimento di commesse industriali dai centri del capitale occidentali alle periferie delle manifatture del “secondo mondo” (ormai, in molti casi, “ex” secondo mondo). Anche qui, a ben guardare, tuttavia si scorge il marchio del potere logistico. Senza la fluidità e l’economicità garantita dal container (oltre alla crescente sofisticazione dei software logistici) sarebbe stato impossibile garantire il funzionamento delle “value chain” indo-pacifiche tra America occidentale e Asia orientale. Ovvero le catene del valore lungo cui, negli ultimi vent’anni, è scorso il più intenso scambio-flusso di capitali, materiali, competenze, standard e brevetti della Storia.
Filiere che sono, a tutti gli effetti, la vera ragione, invisibile agli occhi, della stupefacente rapidità e del ridotto costo del progresso tecnologico e informatico di questo nostro primo scorcio di XXI secolo. Filiere che, di recente, sono diventate la faglia di frattura e conflittualità “sospesa” più calda del pianeta (chiedere a Taiwan). A dimostrazione dell’ingenuità di coloro che, negli anni Novanta., in proposito dei processi d’integrazione industriale e finanziaria, parlavano dell’avvento utopico di un “mondo piatto” e post-politico, le filiere e la logistica hanno in realtà creato una mappa globale fatti di inediti punti di accumulo tensivo, in cui gli snodi e la rarefatta geoeconomia delle supply chain contano più delle specificità geografiche o delle contrapposizioni ideologiche. Come detto in apertura, ce lo ha appena ricordato il Covid.