

N ella miniserie TV Maid – trasposizione del libro di Stephanie Land ‒, la protagonista Alex, dopo aver trovato riparo dal suo fidanzato violento in un rifugio per donne, inizia a lavorare come addetta alle pulizie. Tra i vari clienti, si ritrova anche a casa di Regina, donna nera, benestante ed eternamente vestita di beige. Alex deve pulire la casa e accudire il neonato di Regina, e può farlo solo se lascia che sia qualcun’altra ‒ il femminile non è casuale ‒ a badare a sua figlia Maddy, in una sorta di staffetta di appalti e subappalti di cura. Ovvero: una madre può lavorare solo se un’altra rinuncia, almeno per un po’, a fare la madre.
Il comparto del lavoro di cura – nelle sue varianti di assistenti familiari e collaboratrici domestiche – è un settore perlopiù femminile (e femminilizzato) dove le donne, per garantire un futuro migliore ai propri figli e alle proprie figlie, sono costrette ad allontanarsi dalla propria casa e dalla propria famiglia per prendersi cura delle case e delle famiglie di altri; in pratica, fanno per le altre quello che non possono più fare per sé. Per dirla con Silvia Federici (Il punto zero della rivoluzione, 2014): “L’immensa mole di lavoro domestico retribuito e non retribuito svolto dalle donne in casa è quello che tiene il mondo in movimento”. Una dialettica resa molto chiara dalle oltre 70 testimonianze del reportage Le madri lontane (2024) di Stefania Prandi, testo che prende in considerazione il segmento delle braccianti rumene e bulgare: “casa propria” è il posto da abbandonare e “casa degli altri” rappresenta la forma di reddito:
“Quando andiamo a lavorare alle fragole, lei deve svegliarlo, vestirlo e portarlo nel soggiorno di un’italiana”. La babysitter accudisce anche altri bambini, tutti figli del bracciantato rumeno e bulgaro. […] “La mattina la signora italiana porta i grandi a scuola e i piccoli restano con la cognata. […] Una situazione comune: il bimbo di una coppia di braccianti rumeni miei conoscenti, addirittura, chiama mamma la babysitter”.
Tanto Maid quanto questo estratto dell’inchiesta etnografica di Prandi illuminano il fenomeno strutturale delle “catene globali della cura” – come le chiama Arlie Russell Hochschild –, sostenute in larga parte da donne razzializzate e migranti, che spesso si trovano a essere simultaneamente madri a distanza e lavoratrici sottoposte a condizioni estenuanti, orari lunghi, salari bassi, abusi raramente denunciati per paura di perdere il lavoro (o, nel caso delle lavoratrici senza documenti, di essere espulse dal Paese). Sottomesse pure al ricatto del lavoro d’amore, nel quale la componente emotiva viene estorta come supposto ingrediente fondamentale all’attività lavorativa.
Una madre può lavorare solo se un’altra rinuncia, almeno per un po’, a fare la madre.
L’intersezionalità è quindi in questo caso uno strumento imprescindibile per leggere le condizioni materiali di chi occupa le posizioni più fragili nel mercato del lavoro. Tra queste, il lavoro domestico e di cura rappresenta un osservatorio privilegiato: settori storicamente femminilizzati e oggi sostenuti in larga parte da donne razzializzate, spesso migranti, su cui è facile scaricare le contraddizioni più profonde del sistema socioeconomico contemporaneo, che le vuole lavoratrici essenziali allo stesso tempo non benvenute.
Il dibattito femminista sul lavoro domestico
Per comprendere a fondo le trasformazioni recenti del lavoro di cura è necessario fare un passo indietro e ricostruire le radici teoriche e politiche del dibattito sul lavoro domestico. È proprio a partire da queste riflessioni, sviluppatesi nel contesto del femminismo degli anni Settanta, che si sono poste le basi per analisi successive, oggi centrali, come quelle sulle catene globali della cura.
È a partire dagli anni Settanta infatti che il movimento femminista ha iniziato a interrogarsi in modo radicale sul lavoro domestico, riconoscendolo come nodo centrale nella strutturazione della secolare subordinazione femminile. In quegli anni, l’analisi si è concentrata in particolare sul lavoro di cura svolto tra le mura domestiche, non retribuito, legato al proprio nucleo familiare e tradizionalmente naturalizzato come “compito femminile”. La sua invisibilizzazione e il suo ruolo nel sostenere l’economia capitalistica sono stati al centro delle rivendicazioni politiche dell’epoca, e hanno posto le basi per letture successive, capaci di tenere insieme la dimensione affettiva e quella strutturale del lavoro riproduttivo.
Non basta un’analisi di genere. È necessario tenere conto delle dinamiche di classe, razza, provenienza geografica e status giuridico.
È Mariarosa Dalla Costa colei che ha aperto, con Selma James, agli inizi degli anni Settanta il dibattito sul lavoro domestico e la sua retribuzione e sulla famiglia come luogo di produzione e riproduzione della forza lavoro. […] Nel 1972, a Padova, Mariarosa Dalla Costa, Selma James, Brigitte Galtier e Silvia Federici costituirono il Collettivo Internazionale Femminista per promuovere il dibattito sul lavoro di riproduzione tra le mura domestiche. Da lì in seguito prenderà forma, in molti paesi, la rete di Gruppi Comitati per il Salario al lavoro domestico.
Delle fatiche che si consumano tra quattro mura, nel 1977 Gisela Bock e Barbara Duden offriranno una sistematica lettura storica in Lavoro d’amore – amore come lavoro (2024), saggio in cui le due autrici evidenziano come il lavoro non retribuito della casalinga non sia un residuo arcaico in via di superamento, ma una forma storicamente determinata di sfruttamento, strettamente connessa ai processi di valorizzazione del capitale. Secondo la loro ricostruzione, le radici di questa dinamica risalgono ai secoli Diciassettesimo e Diciottesimo, per poi strutturarsi più compiutamente con l’avvento dell’industrializzazione. In questo passaggio, tutto ciò che concerne il lavoro domestico si trasforma: il suo significato sociale ed economico, la percezione pubblica, la relazione tra attività di cura e organizzazione complessiva del lavoro. Il femminismo marxista è qui al suo massimo dispiegamento: prende l’analisi marxiana della produzione e la porta fuori dalla fabbrica, mostrando come proprio attraverso il lavoro domestico e di cura può rigenerarsi, giorno dopo giorno, la forza-lavoro necessaria al sistema produttivo. La riproduzione degli esseri umani è la condizione fondamentale della produzione di merci.
Quella degli anni Settanta è una stagione attraversata da un profluvio di collettivi, iniziative, teorie e pratiche femministe che, nella loro pluralità, hanno contribuito a politicizzare il quotidiano. Una stagione che ha avuto il merito non solo di rendere visibile ciò che era stato a lungo occultato – il lavoro di cura come forza economica strutturale – ma anche di inaugurare un lessico capace di nominare lo sfruttamento là dove era stato confuso con l’amore, il dovere o la natura. È proprio da questa genealogia critica che muovono molte delle riflessioni odierne sui subappalti della cura, dove il lavoro domestico si ridefinisce secondo nuovi profili transnazionali, di mercificazione e disuguaglianze feroci.
Lavoro di cura in subappalto
È solo in epoca più recente però che l’analisi si è ampliata al fine di includere anche le forme di cura esternalizzate, ovvero quelle attività trasferite a lavoratrici esterne – spesso migranti, come già abbondantemente ricordato – che si occupano di persone e case altrui. Un cambio di paradigma che ha risposto a un’esigenza crescente di “de-familizzazione” della cura – per usare l’espressione di Maria Mezzatesta –, resa necessaria a sua volta dal massiccio ingresso delle donne nel mercato del lavoro e dal ritiro progressivo dello Stato dalle sue funzioni di welfare. La globalizzazione della cura nasce esattamente in questo crocevia: quando le donne dei Paesi più ricchi hanno avuto l’opportunità di uscire dal chiuso delle mura domestiche e irrompere sul mercato del lavoro. Le donne provenienti da Paesi più poveri sono loro subentrate, venendo a creare una mappa intricata, complessa e transnazionale della cura, un lavoro ancora oggi percepito come “naturale” con riferimento alle aspettative di genere.
La globalizzazione della cura nasce quando le donne dei Paesi più ricchi hanno avuto l’opportunità di uscire dal chiuso delle mura domestiche.
Le catene globali della cura sono dunque l’esito di una trasformazione che affonda le sue radici nella consapevolezza maturata negli anni Settanta, ma che si struttura oggi secondo nuove e più complesse forme di disuguaglianza – lungo assi di classe, razza, genere e cittadinanza. Come ha messo in luce Federici, gran parte delle occupazioni oggi riservate alle donne non sono altro che “estensione della condizione della casalinga in tutte le sue articolazioni”: probabilmente non esiste definizione migliore per parlare del lavoro di colf e badanti.
I numeri del lavoro di cura per altri
Ma nonostante i numeri sull’occupazione siano solidi, nonostante il settore sia in crescita costante, e nonostante contribuisca in modo rilevante al contenimento della spesa pubblica del nostro Paese, la regolamentazione del lavoro domestico resta limitata, parziale e spesso incoerente. Come mostra il report 2023 di Bollettino Adapt – che ricostruisce l’evoluzione dell’occupazione nel comparto, mettendone in luce le caratteristiche specifiche –, negli ultimi vent’anni il lavoro domestico appare come uno dei principali canali di ingresso nel mercato del lavoro per molte donne, in particolare migranti. Dal 2000 al 2022 l’occupazione in questo settore è cresciuta del 30%; eppure, a questa espansione non è corrisposta una crescita in termini di riconoscimento o protezione. Al contrario, le collaboratrici familiari e le assistenti familiari restano in larga parte escluse dalle misure rivolte ai lavoratori, in nome della “specificità” del lavoro svolto e della natura privata del rapporto, e il risultato è una forza-lavoro fragile, poco tutelata, spesso invisibile, in balia di progressivo invecchiamento per mancanza di fisiologico turnover generazionale.
Le collaboratrici e assistenti familiari restano in larga parte escluse dalle misure rivolte ai lavoratori, e il risultato è una forza-lavoro fragile, poco tutelata, spesso invisibile.
Anche gli interventi normativi finora attuati si sono rivelati temporanei o parziali: la regolarizzazione messa in campo nel 2020 ha prodotto effetti che oggi si sono già in gran parte esauriti. La legge 33/2023 ha di certo rappresentato una svolta nella riforma dell’assistenza, ma è stata seguita da decreti attuativi che hanno modificato – in peggio – l’impianto originario, come nel caso del decreto legislativo 29/2024, che ha suscitato critiche per aver ridimensionato alcune delle previsioni iniziali della legge, in particolare riguardo al supporto domiciliare e alla semplificazione dei servizi di cura.
Tuttavia, il lavoro domestico continua a rivestire un’importanza centrale e rappresenta ancora oggi un pilastro nascosto, ma fondamentale, del sistema di welfare familiare italiano. Secondo il Rapporto Domina dell’Osservatorio sul lavoro domestico, ad esempio, la spesa per la long term care destinata alla popolazione over 65 ammonta complessivamente a 25,5 miliardi di euro, pari al 74,1% del totale delle risorse destinate all’assistenza (34,5 miliardi). Un ruolo centrale in questo sistema lo giocano le famiglie che spendono circa 7,2 miliardi di euro per la gestione delle badanti, includendo anche la componente irregolare. Una spesa essenziale per garantire l’assistenza domiciliare agli anziani: senza di essa, lo Stato sarebbe costretto a investire circa 17,2 miliardi di euro in più per assicurare l’assistenza in struttura a oltre 700.000 anziani.
Siamo all’apice di un paradosso insostenibile: il lavoro domestico e di cura è essenziale per garantire la tenuta dell’intero sistema assistenziale, ma la sua gestione resta perlopiù delegata alle famiglie, e in particolare alle donne. Questo scarico sistematico di responsabilità sul privato non è solo inefficace, ma anche profondamente iniquo: produce uno squilibrio strutturale tra sfera pubblica e privata, tra ciò che dovrebbe essere garantito collettivamente e ciò che viene lasciato all’iniziativa individuale, spesso senza tutele né riconoscimenti.
Alleanze insperate
Dopo aver ripercorso il dibattito femminista sul lavoro domestico, le sue recenti declinazioni transnazionali nelle catene globali della cura, i numeri del settore in Italia e i limiti delle legislazioni esistenti, viene quasi automatico spostare lo sguardo verso un quesito urgente e tutt’altro che semplice: come si può organizzare il lavoro domestico?
Se un tempo per organizzare la forza-lavoro si poteva contare sul fatto che gli operai fossero molti e tutti nello stesso luogo, organizzare le lavoratrici domestiche è una sfida – anche teorica – di tutt’altra natura. Il luogo di lavoro è spesso la casa privata di qualcun altro, uno spazio frammentato, isolato, iperconnotato e carico di relazioni affettive, intimità e squilibri di potere.
Il lavoro domestico e di cura è essenziale per garantire la tenuta dell’intero sistema assistenziale, ma la sua gestione resta perlopiù delegata alle famiglie, e in particolare alle donne.
Storicamente, il femminismo (persino quello marxista) ha faticato a riconoscere le lavoratrici domestiche salariate come soggetto politico: “negli anni Settanta il gruppo del ‘salario al lavoro domestico’ (di cui non ho fatto parte) non ha mai preso in considerazione le lavoratrici domestiche salariate”, chiosa Del Re. È arrivato il momento di colmare questa distanza: perché, come scrive Beatrice Busi nell’introduzione al volume Separate in casa, pensare alle “mancate alleanze del passato” può aiutarci a riconfigurare il presente: non più una frattura tra chi cura per lavoro e chi cura per dovere, tra donne native e migranti, tra datrici di lavoro e lavoratrici, ma una rete di politicizzazione della casa come spazio del lavoro. Una “risignificazione femminista dello strumento classico dello sciopero”, non più soltanto come astensione, ma come gesto collettivo che mette in crisi la supposta normalità del lavoro domestico invisibile.