A inizio settembre il partito tedesco di estrema destra AfD ha vinto le elezioni regionali in Turingia e Sassonia, due dei Landër più importanti della Germania orientale. La vittoria ha poco di sorprendente. È da tempo che l’AfD, un partito che esiste da poco più di dieci anni, guadagna consensi. La tendenza ha accelerato nell’ultimo triennio, sulla scorta di un diffuso “malaise” che ha colpito l’economia e la società tedesche. Una “crisis of confidence”, per proseguire nel solco del famoso discorso di Carter, che ha radici profonde che indagheremo a breve.
La netta affermazione dell’estrema destra in Turingia e Sassonia non si tradurrà, per ora, in un governo AfD nelle due regioni. In mancanza di partiti disposti ad allearsi con AfD, si formeranno coalizioni di sbarramento, la cui efficacia di governo, soprattuto a fronte di una singola opposizione così forte, è tutta da vedere e rischia, nel lungo termine, di rivelarsi potenzialmente controproducente. Soprattutto minaccia di relegare partiti àncora come SPD e CDU al ruolo di forze di pura contrapposizione, impossibilitate ad articolare visioni politiche alternative alla retorica dell’Afd.
E allora ecco un esame tossicologico di tale retorica. Per compierlo bisogna tornare alle origini del partito che, come detto, nasce una decina di anni fa, per la precisione il 3 febbraio 2013, fondato dall’economista Bernd Lucke, dal politico Alexander Gauland e da un gruppo di fuoriusciti dalla CDU dell’allora Kanzlerin Angela Merkel. Ciò che avevano in comune i fondatori, alcuni dei quali nel frattempo hanno abbandonato la formazione, era il forte scetticismo per le politiche economiche europee, in particolare in merito alla gestione, giudicata troppo spendacciona e solidale (anche se spendacciona e solidale non fu affatto), della crisi del debito dei paesi meridionali.
Da questa genesi si colgono subito due cose. La prima è che come molti fenomeni di questi anni, da Trump in giù, anche i semi della rinascita dell’estrema destra tedesca sono stati piantati, a cavallo tra anni Zero e Dieci, nel terreno avvelenato dalla Great Recession. La seconda è che la sindrome chiamata AfD in realtà non è del tutto estranea alla cultura politica ed economica tedesca. È semmai, alla sua origine, una mutazione maligna dello stesso iper-rigorismo contabile che, negli ultimi anni, ha per esempio portato la Corte Costituzionale a intervenire per impedire a Scholz di usare stratagemmi e di “fare giri immensi” per allentare i vincoli sul debito (stratagemmi e giri immensi resi necessari dallo stesso rigorismo di cui sopra). L’AfD dell’anno zero insomma non faceva che estremizzare un tratto culturale tipico della mens economica di una vasta parte – più ordo-liberista dell’ordo-liberismo – di Germania.
La sindrome chiamata AfD in realtà non è estranea alla cultura politica ed economica tedesca.
E purtroppo non ci si può esimere dal segnalare come, in certa Germania, le opinioni in materia di politiche economiche europee si accompagnino spesso e volentieri, quando non li contengono già, ai germi della xenofobia. Avendo vissuto per cinque anni a Berlino, e proprio a cavallo della crisi del debito, ho avuto modo di constatare l’agilità con cui analisi contabili scivolino facilmente, anzi naturalmente, nel pregiudizio culturale o, ancora peggio, razziale sui “caratteri” dell’europeo meridionale. Più di ogni altro partito euroscettico dei primi anni Dieci, l’AfD soffiò su questi pregiudizi fin dalla sua nascita, tra le altre cose adottando una postura a dire poco “paternalista” sulla sostenibilità dell’Euro da parte delle economie mediterranee.
A conferma che l’AfD intercettò da subito sentimenti che scorrono carsicamente nel corpo della società tedesca (o perlomeno di alcune sue parti) furono i sorprendenti risultati elettorali che, da subito, il neonato partito ottenne. Alle prime elezioni federali a cui partecipò nel 2013, a pochi mesi dal suo battesimo, esso mancò di un soffio la soglia di sbarramento del 5%.
Se l’AfD nasceva con moventi economici ma già in origine adombrati di nazionalismo, la sua trasformazione in un partito iper-conservatore e candidamente xenofobo si può situare intorno al 2015. La crisi del debito sovrano iniziava ad essere distante qualche anno e la popolarità dell’euroscetticismo non era più sufficiente a garantire la crescita dei consensi. Fu così che una nuova leadership del partito – nel frattempo alcuni fondatori erano fuoriusciti – decise di sfruttare a proprio vantaggio la decisione di Angela Merkel di accogliere un milione di rifugiati siriani in Germania. Erano gli anni delle stragi di Charlie Hebdo e del Bataclan e l’AfD ebbe buon gioco a mescolare la psicosi per l’ISIS e per la “soumission” culturale con tesi economiche che potessero risuonare in determinati auditori. In un paese come la Germania di metà anni Dieci, ovvero un’economia capace di assorbire enormi surplus di forza lavoro, un discorso tossico sull’immigrazione non poteva limitarsi a questioni di sicurezza ma doveva fonderle a spauracchi relativi agli effetti salariali del massiccio input di nuova manodopera. Con un sorprendente chiasmo di posizionamento politico, da partito con a cuore l’economia ma al fondo la xenofobia, l’AfD si trasformò in un partito con al cuore la xenofobia ma a far da paravento l’economia.
Il 19 dicembre 2016 un ventiquattrenne con cittadinanza tunisina si gettò sulla folla di un mercatino natalizio di Berlino. Morirono 13 persone. Fu il “momento Bataclan” della Germania e l’AfD non tardò a capitalizzarlo, inasprendo la sua retorica anti-immigrazione. Il 2017 diviene quindi l’anno della definitiva svolta del partito verso posizioni assimilabili alla destra europea più estrema ed islamofoba, quella dell’Identitarismo e di Pegida. La componente economica passa in secondo piano o serve, al più, per fornire ulteriori sponde al revanscismo e alla rabbia che sempre più rappresentano l’anima centrale del partito.
L’AfD ha completato la sua trasformazione in partito di pura reazione.
A partire dal 2017, uno dei suoi leader, Björn Höcke, inizia a parlare regolarmente della Germania in termini di Vaterland e dei tedeschi come di un unico grande Volk da risollevare. Inizia anche a denunciare l’insistenza sulla memoria e la colpa dell’Olocausto come una sorta di cospirazione culturale dei poteri atlantici per mantenere la Germania in uno stato di costante subalternità psicologica. È, sotto ogni punto di vista, un lugubre revival degli anni Venti dello scorso secolo (qualche mese fa un programma tv ha chiesto a membri della stessa AfD di indovinare se le citazioni non attribuite che stavano leggendo erano di Höcke o di Hitler e la maggioranza ha fallito il test). Con l’aggiunta dell’antisemitismo (e dell’anti-wokeism trumpiano) l’AfD ha completato la sua trasformazione in partito di pura reazione. Una formazione che, attraverso un robusto apparato cospiratorio, punta agli istinti meno razionali di quelle fette di elettorato che si sentono derubate sul piano delle opportunità socio-economiche e sotto-rappresentate sul piano di quelle culturali.
Non è un caso che, nel corso della sua transizione da partito di economisti a formazione di estremisti, l’AfD abbia via via raccolto un margine sempre più elevato di consensi nelle regioni dell’ex DDR (a cui appartengono appunto Turingia e Sassonia). Come dimostra pressoché qualunque statistica, a trentaquattro anni dall’unificazione delle due Germanie, i Lander dell’ex Germania est restano significativamente indietro rispetto ai loro dirimpettai occidentali. Nell’Ostdeutschland si lavora di meno, si guadagna di meno, si vive meno a lungo e così via. Oltre tre decenni di politiche socio-economiche non hanno suturato il gap di partenza tra le due Germanie e, anzi, in alcuni casi scelte di particolare rigore contabile (vedasi sopra) o di deregolamentazioni dei mercati hanno aumentato il divario. In termini assoluti le condizioni di vita nella DDR non sono disastrose (di fatto il PIL medio è a livelli di quello italiano), nulla di paragonabile per esempio ai livelli di arretratezza che si sperimentano in alcune parti del nostro Mezzogiorno, ma sono abbastanza dispari rispetto ai “parenti fortunati” dell’Ovest da far sentire gli Ossi cittadini di serie B.
La questione è stata aggravata negli ultimi anni dall’impatto di due grandi eventi globali: il covid e la guerra in Ucraina. Due avvenimenti che hanno impattato i fundamentals su cui si reggevano gli straordinari risultati dell’economia tedesca durante l’epopea merkeliana: il rapporto di interdipendenza industriale tra Cina e Germania e l’energia russa a buon mercato. Se ad essi si sommano le spaccature sociali prodotte ovunque in Occidente da entrambi gli eventi: le divisioni vax e no-vax, atlantisti e filo-russi, pacifisti e hardliner, si capisce come gli ultimi anni siano stati particolarmente propizi per l’avanzata dell’AfD (soprattutto) nelle aree dell’ex DDR.
Ogni lettura del fenomeno sarebbe tuttavia incompleta se trascurassero le profonde ragioni storiche, e per così dire psicologiche, che stanno alle spalle del successo dell’AfD nei territori dell’Ost tedesco. Come ho scritto nella mia newsletter Macro: In cinquant’anni di DDR, la maggioranza dei cittadini dell’est si sono rapportati al governo comunista come un Grande Fratello di cui diffidare e, se possibile, contro cui protestare in un modo o nell’altro. È un’attitudine al sospetto che è per esempio riemersa in occasione del covid. E così, come accaduto in America con Trump, la AfD ha avuto buon gioco a presentare i maggiori partiti storici come una forma di “mainstream” politico che ha a cuore soltanto gli interessi delle proprie basi elettorali all’ovest, quasi essi fossero dei corpi estranei – degli occupanti – della Ostdeutschland.
Estremizzando questa tesi, alcuni sociologi hanno di recente parlato di Ossifikation. Un gioco di parole tra “Ossi”, il nomignolo con cui vengono chiamato gli abitanti dell’est, e il processo di ossificazione, indurimento, dei tessuti. Secondo questa tesi, che ribalta un po’ la mia analisi fino a qui (ma in realtà ritengo soprattutto la complementi), l’ascesa dell’AfD (e quella dei populisti di sinistra) non è solo un riflesso di una “immatura” reazione emotiva di fronte alle disuguaglianze, vere o presunte, che patiscono i cittadini dell’est, ma è anzi la manifestazione della definitiva maturazione della società dell’Ostdeutschland, che, dopo tre decenni “in cerca d’autore”, si sarebbe semplicemente riscoperta “divergente”, anche culturalmente, dal resto della società tedesca.
Tra le “divergenze” dell’oriente tedesco c’è anche il rapporto con la Russia. Come scrivevo ormai dieci anni fa, in occasione della “rivoluzione ucraina”, esiste una parte non trascurabile della società tedesco-orientale, incluse alcune sue élite, che non è (mai stata) del tutto a proprio agio con l’appiattimento della Germania sull’orizzonte atlantico ed è tuttora sensibile al richiamo, culturale e strategico, delle steppe eurasiatiche. Queste componenti sono inclini a chiudere un occhio sulle responsabilità politiche di Putin nella guerra ucraina, e a offrire anzi una lettura ribaltata della realtà, in cui l’aggressore si rovescia nell’aggredito e in cui la Germania, presa nel mezzo e privata dei suoi preziosi gasdotti, diventa l’agnello sacrificale della situazione. Sebbene non sia del tutto priva di fondamento geopolitico, una simile lettura ribalta cause ed effetti dell’attuale guerra in Ucraina in modo a dire poco tendenziosa. Ed eppure, nell’ex DDR, è sufficiente ad alimentare il consenso non di uno ma addirittura di due partiti.
Come mai tante persone in situazione di disagio si affidano a un partito che ha un programma economico in cui si prevedono tagli del welfare?
Nelle recenti elezioni, la principale sorpresa alle spalle dell’AdF è stato l’immediato exploit del giovanissimo partito BSW, ovvero Bündnis Sahra Wagenknecht (Alleanza Sahra Wagenknecht), un partito personale fondato a inizio anno dall’omonima economista e filosofa marxista. Dopo una lunga militanza nelle file della Die Linke (“la sinistra” più a sinistra della SPD), Wagenknecht ha da poco fondato questa nuova formazione dall’orientamento decisamente populista tra i cui capisaldi si conta anche un esplicito orientamento filo-russo. La BSW si propone come alternativa di sinistra al nazionalismo dell’AfD ma la realtà è che su molte questioni (clima, immigrazione, NATO, cancel culture) le due formazioni risultano piuttosto sovrapponibili e più che rossa la BSW sembra un caso-studio di rossobrunismo. È per esempio notevole che, sebbene di educazione marxista, la Wagenknecht non si riconosca nel socialismo ma nell’ordoliberalismo e in una visione estremamente convenzionale dei meccanismi del mercato. La stessa che sposa, in modo ancora più rigoroso, l’AfD.
In questo senso le domande (e le risposte) non sono cambiate molto da quando su queste pagine, in un lungo reportage sul disagio tedesco che curammo insieme, Lorenzo Monfregola si chiedeva: La vera domanda, a questo punto, è come mai tante persone in situazione di disagio si affidano a un partito che ha un programma economico in cui si prevedono tagli del welfare e un’ulteriore privatizzazione della sanità? La risposta è soprattutto una ed è ormai nota: l’etnicizzazione delle rivendicazioni sociali. In occasione della crisi dei rifugiati del 2015-2016, una parte dei tedeschi ha accolto le suggestioni di una campagna identitaria contro la Willkommenspolitik, la politica di accoglienza dei rifugiati di Angela Merkel. Una campagna che ha assunto velocemente i contorni di una protesta anti-establishment, di una riscossa sociale per chi sente di contare di meno.
La verità è che la formazione politica che più ha cercato di intervenire, con piglio socialista e in barba ai dogmatismi friburghiani, sui meccanismi di spesa che limitano le abilità assistenziali dello stato tedesco, nonché le capacità dell’economia tedesca di superare le difficoltà di questi anni è stata proprio l’SPD. La quale, a livello di consenso, oggi paga la crisi congiunturale, il carisma inesistente di Scholz e, soprattutto, l’essere partito “storico” e dunque ritenuto “colpevole” di un’età di riforme, nei primi Duemila, che ha contribuito ad ampliare il golfo delle disuguaglianze e a complicare la vita molti di coloro che oggi scelgono le alternative di AfD, BSW etc.
È la vecchia storia delle colpe dei padri che ricadono sui figli. Calata in un paese dal cui allineamento da sempre discende, a cascata, la stabilità dell’Europa…è una storia che non fa dormire sonni tranquilli.