H o sentito nominare per la prima volta Henry David Thoreau nel film di Peter Weir L’attimo fuggente (Dead Poets Society, 1989), quello in cui l’anticonformista professore di letteratura John Keating (interpretato da Robin Williams) arriva in un collegio d’élite in Vermont e sollecita gli studenti a emanciparsi dalla mentalità conservatrice strappando pagine del manuale e leggendo passi di scrittori come Thoreau. Ispirati dal professore, alcuni studenti fondano la “Setta dei poeti estinti”, le cui riunioni in una grotta si aprono con la lettura di un passo di Thoreau:
Andai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza e profondità, e succhiare il midollo della vita, sbaragliare tutto ciò che non era vita e non scoprire, in punto di morte, che non ero vissuto.
Le parole di Thoreau ritornano nel film di Sean Penn Into the wild (2007), tratto dal libro omonimo di Jon Krakauer e ispirato alla vita dello statunitense Christopher McCandless, che dopo la laurea intraprese un viaggio in autostop e poi a piedi fino all’Alaska, dove morì solo e denutrito nel 1992. Nel film, McCandless motiva la sua rottura con la vita normale con parole prese da Thoreau: “invece che amore, denaro e fama, dammi la verità”. Si tratta di citazioni leggermente rimaneggiate, messe in bocca a giovani che rifiutano di adattarsi alle norme sociali e finiscono tragicamente (il protagonista del film di Weir pagherà con la vita la sua passione per il teatro), ma che colgono tratti effettivi del pensiero di Thoreau, quei tratti che ne hanno fatto un’icona della controcultura giovanile. Nel suo capolavoro Walden o vita nei boschi (1854), Thoreau puntava l’indice sulla vita dei suoi lettori: “È chiaro che molti di voi vivono delle esistenze mediocri e volgari […] La maggior parte degli uomini vive un’esistenza di calma disperazione”. In alternativa a una vita già determinata dai modelli sociali e economici dominanti, come ricorda Michel Onfray nel suo Thoreau. Una vita filosofica (Ponte alle grazie, 2019), Thoreau offriva una doppia via di uscita: “Rifiutare i falsi valori della civiltà (la moda, i soldi, gli onori, le ricchezze, il potere, la reputazione, le città, l’arte, l’intellettualismo, il successo, la mondanità) e volere i veri valori della natura (la semplicità, la verità, la giustizia, la sobrietà, il genio, il sublime, la volontà, l’immaginazione e la vita)”.
Ma l’enorme fortuna di Thoreau non si esaurisce in questo. Il suo Disobbedienza civile (1849), in cui invitava a evadere le tasse per non sostenere gli Stati Uniti in guerra contro il Messico, e diversi interventi contro la schiavitù furono salutati come un modello esemplare da Gandhi e Martin Luther King; oggi se ne parla spesso come di un precursore della teoria economica della “decrescita felice” e come figura chiave dell’ecologismo. Ma raccogliere questa eterogenea eredità comporta il compito di fare chiarezza e mettere a fuoco la figura di Thoreau al di là di affascinanti frasi isolate e appropriazioni successive.
Raccogliere l’eterogenea eredità di Thoreau comporta il compito di fare chiarezza e metterne a fuoco la figura al di là di affascinanti frasi isolate e appropriazioni successive.
Bisogna allora misurarsi con tensioni e aspetti controversi di un pensatore più spesso citato che letto: Thoreau andò sì a vivere in una capanna nei boschi per un certo periodo, professando la necessità di rompere col sistema economico e culturale, ma non fino a rompere i legami con la vita della sua comunità (vedeva regolarmente i genitori che abitavano a breve distanza); sostenne il primato dell’azione sulla teoria libresca degli accademici, ma fu un lettore colto e uno scrittore sempre attento alla comunicazione del suo pensiero; amò la natura da infaticabile camminatore e osservatore, ma non contribuì ai primi passi della teoria ecologica e del movimento conservazionista che avrebbe portato alla fondazione del primo Parco nazionale a Yellowstone nel 1872; fu un attento lettore di opere naturalistiche, ma anche un critico della scienza e un romantico che trovava conforto in una natura idealizzata; si oppose al governo e passò un notte in prigione per il suo rifiuto di pagare la tassa di un governo ingiusto, ma non s’impegnò in un movimento politico organizzato, spregiava la stupidità della massa e predicava piuttosto la salvezza del saggio in una vita ritirata.
A fare chiarezza aiutano oggi diverse novità editoriali: oltre al già citato profilo di Onfray – che presenta “il selvaggio Thoreau” come “modello di vita filosofica” – si può consultare la nuova biografia di Michael Sims, Il sentiero di Walden (Luiss, 2019) e leggere i suoi diari in una nuova selezione ottimamente curata da Mauro Maraschi, Io cammino da solo (Piano B, 2020). I diari furono il laboratorio di pensiero da cui Thoreau estrasse le sue opere pubblicate. Si compongono di trentanove taccuini compilati nell’arco di ventiquattro anni, dal 22 ottobre 1837 al 13 maggio del 1861, per un totale di quasi 7000 pagine. Ma il primo passo per comprendere queste pagine e cercarvi i tratti originali del pensiero di Thoreau è riportarle al loro contesto storico.
Thoreau nel suo tempo
“Un mistico, un trascendentalista e oltretutto un filosofo della natura”: così Thoreau si definiva nei diari. Il suo debito verso il trascedentalismo americano di Emerson, che fu suo protettore, amico e modello, è il primo elemento per inquadrarne il pensiero. Quello di Emerson era un pensiero di stampo romantico che professava – nell’America puritana dell’Ottocento – una religione della natura e una riforma della società fondata su una più marcata libertà individuale rispetto alla mentalità conservatrice. Emerson avrebbe influenzato anche Nietzsche, altro pensatore che – come Thoreau – si sarebbe rivoltato ai valori dominanti in nome di una più autentica vitalità dell’individuo. Ma dietro a Emerson c’era Goethe, con l’aspirazione del Faust a catturare lo spirito della natura in nome di una visione panteistica della natura, il suo ideale pratico (“in principio era l’azione”) e la riscoperta di un canone di letture asiatiche – dalla Persia all’India – che anche Thoreau contrapporrà a quello europeo e cristiano.
Un altro tratto di Thoreau fu la ricerca di una verità pratica piuttosto che metafisica: una regola di vita ricavata dalla contemplazione della natura. In ciò, di nuovo, Thoreau partecipava di una caratteristica tipica del pensiero americano. Come ha mostrato Scott Pratt in Native Pragmatism. Rethinking the Roots of American Philosophy (2002), pensatori di scuole diverse, dal pragmatismo all’idealismo, condividevano la tesi che la cultura erudita andasse superata in nome di un’esperienza diretta del selvaggio territorio americano. Questo orientamento, oltre che in Emerson e Thoreau, si trova in Walt Whitman, ma anche in un hegeliano conservatore come Henry Clay Brockmeyer, che poteva annotare: “Ho letto Spinoza per due ore stamattina finché non ho sentito il rombo di una mandria di bufali fuori dalla porta, perciò ho afferrato il fucile e li ho inseguiti”. Pur agli antipodi di questo rapporto predatorio con la natura, Thoreau condivideva l’idea che le letture non sono che un accompagnamento alle esplorazioni della natura selvaggia e alla ricerca in essa dei mezzi di sussistenza.
Un’altra fonte delle sue idee era la cultura classica greco-romana, parte integrante di un’educazione borghese e tutt’altro che “selvaggia”. Nella versione integrale del passo sopra citato sull’andare nei boschi, Thoreau auspicava di vivere “da gagliardo spartano”. La sua etica della semplicità come via per la felicità attingeva al pensiero cinico e a quello epicureo; il suo trovare conforto dai mali della società nell’ordine divino della natura, allo stoicismo. E nei versi di Orazio poteva trovare già l’auspicio di quel ritorno nei boschi che avrebbe messo in pratica: “Non c’è al mondo poeta che non ami il silenzio dei boschi / e non fugga la città”.
Quanto al pensiero politico, nel contrastare lo schiavismo e teorizzare uno stato per quanto possibile leggero nella vita dell’individuo (“il migliore dei governi è quello che governa meno”), Thoreau seguiva il suo maestro Emerson. Poco prima della morte, nel 1860, intervenne in difesa di John Brown, condannato a morte per aver assalito degli schiavisti, e si avvicinò a teorizzare la lotta armata: “Non voglio né uccidere né essere ucciso, ma posso prevedere circostanze nelle quali entrambe le cose sarebbero inevitabili”. Poteva essere un momento di svolta, ma Thoreau morì nel 1862, a quarantaquattro anni, lasciando soprattutto un oceano di testi per formarsi un’idea del suo pensiero.
Da una ricognizione di questo oceano, in fin dei conti, spicca un interrogativo sulla coerenza del suo pensiero: come si tenevano insieme il ritorno alla natura, l’isolamento dell’individuo dalla società e la prospettiva di una modifica di quest’ultima? Forse Thoreau avrebbe detto di sé quello che scriveva Whitman, altro protagonista del cosiddetto Rinascimento americano: “Mi contraddico? Certo che mi contraddico. Sono vasto e contengo moltitudini”. Ma proviamo almeno a chiarire alcuni temi del suo pensiero.
Scienza e poesia
Thoreau vedeva nella Natura un ordine di fini superiori alle ambizioni umane, che in definitiva condannava l’ambizione borghese e raccomandava di tornare alle attività più semplici: “Tutti i processi della Natura, presi separatamente, richiamano lo stesso obiettivo al quale mirano tutte le cose. E allora, perché mai l’uomo dovrebbe affrettarsi come se non potesse dedicare l’eternità anche alle attività più ordinarie?”.
Riconoscere in questa Natura “una costante evoluzione” la rendeva meravigliosa e ne faceva un rimedio per l’individuo afflitto dall’inquietudine e dalla delusione: “La Natura cura delicatamente ogni ferita […] fa costantemente del suo meglio per farci stare bene”. Queste intuizioni confortanti sulla Natura non poggiavano sull’analisi scientifica, che Thoreau riteneva incerta e superflua, preferendole il pensiero di antichi filosofi e scrittori: “Cos’è più autentico, le sublimi concezioni dei poeti e dei veggenti ebraici, o le prudenti dichiarazioni dei moderni geologi, che bisogna rivedere e disimparare in continuazione?”
Leggendo Thoreau ci si scontra spesso in quell’indebita sovrapposizione di amore per la natura e misantropia che si ritrova ancora oggi in alcuni critici della società.
Il primato di un approccio estetico alla natura rispetto a quello oggettivo della scienza ritorna spesso nei diari: “La cosa più importante di un oggetto è l’effetto che produce su di me”. Un fiocco di neve non si spiega meccanicamente, è un “prodotto dell’entusiasmo”. Il punto di vista scientifico in certi passi è rifiutato con disprezzo: “La scienza è disumana”. Ad essa va sostituito uno sguardo che legge nella natura una sorta di rivelazione: “Se vuoi acquisire familiarità con le felci devi dimenticare la botanica”; in questo modo la contemplazione di queste piante potrebbe essere come “un’altra sacra scrittura rivelatrice e aiutarti a migliorare la tua vita”.
Questo tipo di idealizzazione della natura lasciò un’ombra nella posterità di Thoreau: per l’ignoranza del territorio e delle fonti di approvvigionamento, Chris McCandless si smarrì nel suo viaggio di scoperta e morì in Alaska. Viene in mente anche Timothy Threadwell, altro giovane eremita dell’America selvaggia, raccontato nel documentario di Werner Herzog Grizzly man (2005), che va a vivere con gli orsi, li idealizza come animali sostanzialmente buoni e ne finisce divorato. La natura, per questi imitatori di Thoreau, perdeva i suoi lati non-umani e diveniva il teatro di un dramma del soggetto inquieto.
Etica dell’individuo e rottura con la società
Il tema dominante della riflessione di Thoreau è la ricerca di un’etica individuale: “Per la tua salute sia fisica che mentale, concentrati sul presente”. La serenità si può ottenere soltanto prendendo le distanze dalle leggi della società, che impongono di cercarsi un impiego per pagarsi un’abitazione e altri beni:
Al di là delle leggi degli uomini ha inizio una prateria. La Natura è la prateria dei fuorilegge. Esistono due mondi, quello degli uffici e quello della Natura: io li conosco entrambi, e man mano che sollevo i miei argini mi lascio alle spalle l’umanità e le sue istituzioni.
In Camminare, con toni quasi evangelici, il distacco dai legami sociali è presentato come una premessa della libertà individuale:
Se sei pronto a lasciare il padre e la madre, e il fratello e la sorella, e la moglie e il figlio e gli amici, e a non rivederli più; se hai pagato i tuoi debiti, e fatto testamento, se hai sistemato i tuoi affari, e se sei un uomo libero, allora sei pronto a metterti in cammino.
Il rifiuto radicale della società moderna riguarda ogni tipo di dipendenza economica: “Farsi aiutare dai prestiti degli amici o del governo è come farsi ricoverare in un ospizio”. “In paradiso mi aspetto di poter cuocere il mio pane e lavare le mie lenzuola. L’oltretomba è l’unica pensione in cui centinaia di persone possono coesistere”.
La resistenza di Thoreau a stabilirsi e arricchirsi si rifletteva anche in una liquidazione della proprietà privata, cioè di un vero e proprio pilastro della società americana:
Mi diverte osservare dalla finestra quanto l’uomo si sia dato da fare a dividere e segmentare il suo dominio. Probabilmente Dio ride delle sue minuscole recinzioni che corrono in lungo e in largo, ovunque, sulla superficie della terra.
Per demistificare l’accumulo di ricchezza, Thoreau riportava ogni valore monetario a una dimenticata origine naturale, come piante, selvaggina, pelli: “tutti i soldi derivano dalla banca selvatica originale”. Questo rifiuto dell’intero meccanismo dell’economia moderna comportava l’invito a cercare l’autosussitenza e non pagare tasse ritenute inique, ma non si prolungava in una vera e propria teoria economica: in ciò esagera Onfray a fare di Thoreau un teorico della decrescita felice. Eppure, in Disobbedienza civile Thoreau presentava la violazione delle leggi del mercato come un gesto potenzialmente distruttivo sul piano dell’intero sistema. “Che la vostra vita faccia da contro-attrito per fermare la macchina”.
Misantropia o rivoluzione?
Per Onfray, Walden contiene “un’utopia politica”, che molti epigoni avrebbero provato a mettere in pratica. A tratti l’individualismo di Thoreau diventa anarchico (“Il migliore dei governi è quello che non governa affatto”) e propone “una rivoluzione pacifica” da realizzarsi mediante il rifiuto di adeguarsi alle norme. Ma anche il lato politico di Thoreau resta poco sviluppato: non aderì ad alcuna organizzazione politica e non formò un movimento per promuovere il bene comune. In ciò il suo individualismo appare un esito radicale di una tendenza ben presente nella cultura americana, ma non può coesistere con quello dei cittadini americani, integrati al sistema economico, e questo porta Thoreau in conflitto con i suoi simili:
Che senso avrebbe tentare di vivere in modo semplice, coltivando quello che mangi, cucendo quello che indossi, costruendo la tua casa e bruciando il legno che hai tagliato e raccolto con le tue mani, se poi coloro cui sei associato desiderano follemente che si producano migliaia di cose che né tu né loro potete procurarvi autonomamente, e che forse nessuno è in grado di pagare? L’uomo al quale ti associ è uno sterzo che tende sempre a dirottarti dalla parte opposta.
In alcuni passi Thoreau parla come un moralista puritano che rimprovera ai cristiani di non avere abbastanza virtù per dirsi tali. Ma leggendo i diari ci si domanda se dietro queste posizioni, prima che una meditata riflessione politica, vi fosse un’istintiva avversione per i suoi simili: “Cerco la solitudine con desiderio e brama infiniti, sempre più forti e risoluti, mentre cerco la compagnia con sempre minor convinzione”. Walt Whitman, dopo averlo conosciuto, sentenziò: “Non credo che fosse tanto l’amore per i boschi, i fiumi e le colline a portarlo a vivere in campagna, quanto un morboso disprezzo per l’umanità”. Thoreau risultava ostico con il suo atteggiamento sempre ipercritico e la sua difesa di un’autonomia senza compromessi, in cui a tratti traspare la frustrazione per la scarsa considerazione dei suoi contemporanei. Nessuno, dai vicini americani all’umanità in genere, si salva dal suo giudizio negativo:
L’opinione pubblica è un debole tiranno se paragonata all’opinione che abbiamo di noi stessi. A determinare il mio destino è ciò che penso di me stesso.I miei connazionali sono per me degli stranieri, e con loro io non ho più affinità che con le masse dell’India o della Cina. Tutte le nazioni svolgono male i propri compiti
Siamo una specie egocentrica […] Dal punto di vista filosofico l’uomo è un fenomeno superato.
In conclusione, ci si domanda se in Thoreau non si trovi un modello di quell’indebita sovrapposizione di amore per la natura e misantropia che si ritrova ancora oggi in alcuni critici della società: “Bisogna combattere ogni giorno con la stupidità delle persone […] Gli stupidi sono ovunque”.
Ritorno alla natura
Il ritorno alla natura predicato da Thoreau è un’altra faccia della fuga dagli uomini: “Sembra quasi una legge il fatto che non si possa instaurare un rapporto profondo sia con l’uomo che con la natura” – scrive nei diari. E ancora: “Amo la Natura anche perché non è gli uomini, bensì un rifugio da essi”. Nei luoghi selvaggi “io ritrovo me stesso, ancora una volta mi sento parte di un grande progetto, e il freddo e la solitudine si rivelano amici”. Si capisce che Thoreau non è propriamente un mistico, che vuole sciogliere il suo io nella natura, né uno scienziato che vuole conoscerla, ma un individuo che nella compagnia di piante e animali trova un sostituto della società degli uomini, da cui si sente “puntualmente frainteso”:
È questa la società in cui vivo, la società che difendo […] Le persone pensano che io sia strambo e deviato perché alla loro compagnia preferisco quella di ninfe e fauni. Ma io parlo per esperienza. Mi sono seduto con una decina di loro in un’osteria, e fin dal primo istante non mi hanno ispirato nulla di buono.
Questa tranquillità, questa solitudine, questo lato selvaggio della natura è per il mio intelletto una sorta di appagamento, o di completamento. È questo ciò che cerco. È come se in questi luoghi incontrassi sempre un amico saggio, sereno, immortale e infinitamente stimolante, per quanto invisibile, sempre disposto a camminare al mio fianco. È in questi luoghi che i miei nervi finalmente si placano e i miei sensi e la mia mente funzionano a dovere.
Bisogna confrontare queste posizioni con quelle di Rousseau, altro fustigatore dei lussi e della corruzione moderna, che nel Discorso sull’origine della disuguaglianza (1755) celebrava la virtù ingenua dell’uomo nello stato di natura e criticava la proprietà privata. Voltaire si prese gioco di lui affermando: “A leggere il vostro libro, viene voglia di andare a quattro zampe”. Era una battuta ingenerosa, perché lo stato di natura di Rousseau era una condizione ideale a cui il ginevrino non invitava a tornare: l’educazione e la politica dovevano incaricarsi di ripristinare per quanto possibile un equilibrio che non si poteva e non si doveva cercare fuori dalla società civile. Su questo sfondo, Thoreau appare come animatore di una reazione più radicale: per rimediare agli errori intrinseci della civiltà moderna non basta seguire un modello della natura, ci vuole una rottura reale e senza compromessi, si deve ricominciare una vita diversa.
In questa radicalità si può cogliere un pregio o un limite del pensiero di Thoreau. Onfray, tratteggiando la personalità del Thoreau giovane, vi coglie un tratto ingenuo: “Il suo ideale è la libertà del bambino: costruire capanne, pescare negli stagni, risalire i fiumi in barca, camminare nei boschi, guardare il mondo tra le proprie gambe, arrampicarsi sugli alberi, fare il bagno nelle acque del lago Walden in qualsiasi stagione”. C’è in effetti un problema persistente nel suo pensiero: l’indipendenza implica la rinuncia a ogni compromesso con la vita associata. “Vivete quanto più indipendentemente potete, senza impegno alcuno”. Come poteva una simile posizione sostenere la riforma sociale professata altrove da Thoreau? Tra indipendenza a politica, la sua scelta finale sembra cadere sempre sulla prima, con un invito che è una sfida alla realtà: “Vivere la vita che s’è immaginato”.
Indiani
Il limite a cui ho accennato non è l’ultima parola nell’incessante flusso di pensiero dei diari. Tra i temi più importanti c’è la considerazione dei nativi americani, gli “indiani”, in quanto portatori di una saggezza perduta. Si tratta, di nuovo, di un tema che in teoria era stato già modulato, ma che Thoreau trasforma in senso pratico. Onfray sbaglia quando scrive che il romanticismo di Thoreau era, anche per questo tratto anti-progressivo e la rivalutazione della sensibilità dei selvaggi, una “reazione all’illuminismo”. Oltre al già citato Rousseau, Diderot aveva celebrato i selvaggi tahitiani come modelli di innocente sensualità. Questo tema di una felicità incorrotta era stato ripreso da Melville nel suo romanzo Taipi, forse fonte di Thoreau. Ma ciò che interessa particolarmente Thoreau è, tra le altre cose, il diverso rapporto degli indiani con il territorio colonizzato dagli europei:
Se degli uomini selvaggi, con i quali condividiamo più somiglianze che differenze, hanno abitato queste lande prima di noi, allora dobbiamo conoscere nel minimo dettaglio che tipo di uomini erano, come vivevano in questi luoghi e che rapporto avevano con la natura, nonché scoprire la loro arte, i loro costumi, le loro leggende e le loro superstizioni.
Decenni prima che Franz Boas iniziasse una etnografia sistematica sul suolo Nordamericano, Thoreau accumula reperti e informazioni sulle culture indiane ormai quasi scomparse, per cercarvi i segni di un modo diverso di organizzare la società, con un gesto che verrà più volte ripreso, fino ad oggi, dai critici della traiettoria distruttiva della civiltà europea.
Ecologia
Il termine “ecologia” fu coniato pochi anni dopo la morte di Thoreau, ma il pensiero ecologico si stava già sviluppando. La consapevolezza del suo contemporaneo Alexander von Humboldt che la natura è un tutto interconnesso e soggetto a continui mutamenti, di cui l’uomo può rompere l’equilibrio, si arricchiva con la rappresentazione darwiniana di una lotta per la sopravvivenza che coinvolge tutti i viventi (L’origine delle specie è del 1859). Su questo sfondo, s’iniziava a porre la questione della tutela dell’ambiente rispetto alla corsa alle risorse della civiltà borghese e capitalistica. Ma l’intera questione di una limitatezza delle risorse e del suo impatto ambientale sfuggiva del tutto a Thoreau: “Checché ne dicano Malthus e altri, su questa terra ci sarà sempre spazio in abbondanza per tutti, almeno fintanto che ciascuno penserà agli affari suoi”.
Questo non significa che Thoreau non abbia importanza per il pensiero ecologico. Se Humboldt – insieme a altri – aveva gettato le basi teoriche di una scienza dell’equilibrio ambientale, Thoreau rilevò un altro fattore della pratica ecologica: la dimensione etica delle scelte di vita individuali, i conflitti anche aspri che queste implicano, e la difficoltà drammatica di concretizzare quell’inversione di rotta di cui gli scienziati avevano già anticipato la necessità sul piano della teoria. Così l’uno fornì uno sguardo globale sulla natura contemplata e conquistata dall’uomo, l’altro chiamò in causa la responsabilità dell’individuo che con essa vorrebbe riconciliarsi: l’ecologia ha bisogno di entrambi.