I l motore della barca si spegne: restiamo a fluttuare sulla “Stella fluviale del Sud”, la confluenza dei fiumi Orinoco, Guaviare e Atabapo. Intorno silenzio e acqua color caramello, nera, rossa, che si mescola e s’ingorga in una vastità sconfinata. La corrente è così lenta che si distingue a fatica la sua direzione. Lo sguardo qui si perde e cerca orientamento. Ci avviciniamo a una roccia con un avamposto militare abbandonato, invaso dalla vegetazione. Sulla riva lontana c’è il Venezuela, da cui una barca avanza come un puntino sul dorso del fiume: vengono in Colombia a comprare benzina.
La “Stella” fu chiamata così dal grande viaggiatore e naturalista Alexander von Humboldt, che arrivò qui risalendo l’Orinoco nel 1800 e descrisse il posto come uno degli spettacoli più meravigliosi del Sudamerica. Non è strano che Humboldt prediligesse proprio questo paesaggio, in cui non spicca un singolo profilo pittoresco da mettere a fuoco. A contemplarlo si produce un sentimento di ammirazione misto a smarrimento, che a sua volta suscita un bisogno di conoscenza: esattamente questi due poli, il sentimento estetico e l’analisi scientifica, definiscono il rapporto con la natura che Humboldt teorizzò nella sua opera rivoluzionaria, a partire dal famoso viaggio di esplorazione del Sudamerica che intraprese tra 1799 e il 1804 insieme al naturalista Aimé Bonpland e che raccontò in un celebre resoconto narrativo, il Viaggio alle regioni equinoziali del Nuovo continente (uscito in 30 volumi tra il 1807 e il 1834) di cui porto nello zaino un’edizione ridotta.
Le idee di Humboldt, nato 250 anni fa, sono oggi oggetto di un’ampia riscoperta. La pubblicazione di una nuova biografia di Andrea Wulf, mostre e convegni di studi (e, in Italia, la ristampa del capolavoro divulgativo Quadri della natura), aiutano a avvicinarsi a questo gigante dimenticato della scienza moderna che ispirò Darwin per le sue teorie sull’evoluzione e John Muir per l’istituzione del primo parco naturale a Yosemite. La sua capacità era quella di collegare saperi diversi in una visione congiunta della natura. Per Humboldt, “lo scopo principale della descrizione fisica della Terra è […] la ricerca dell’insieme e della connessione”.
Collegando tra loro le osservazioni dirette e lo studio dei documenti che descrivono un territorio, non soltanto scoprì nuove specie e nuovi fenomeni (come la corrente oceanica che porta il suo nome), ma introdusse approcci radicalmente nuovi: per esempio, la comparazione di ecosistemi situati alle stesse latitudini lo portò a considerazioni sulle differenze climatiche prodotte da acque, rilievi e altri fattori ambientali; le correlazioni tra terremoti e eruzioni vulcaniche diffuse su aree vastissime lo portarono a confermare l’ipotesi geologica di un nucleo caldo del pianeta. Con questo sguardo sinottico e comparativo, Humboldt – circa duecento anni prima della “ipotesi Gaia” di James Lovelock – presentò il globo terrestre come un’unità vivente, organica e inorganica, che né la geografia né la politica potevano separare.
La conoscenza globale e profonda, per Humboldt, non si separa mai dal sentimento del paesaggio, in cui si trova il “presentimento” di quella stessa armonia naturale che poi si comprende meglio con la scienza.
Ma questa conoscenza globale e profonda per Humboldt non si separa mai dal sentimento del paesaggio, in cui si trova il “presentimento” di quella stessa armonia naturale che poi si comprende meglio con la scienza. Humboldt celebra la bellezza della foresta tropicale partecipando alla rivalutazione della bellezza della natura selvaggia che stava avvenendo da alcuni decenni nella cultura europea – tra pittura, estetica e poesia – per contrasto con la trasformazione del paesaggio urbano prodotta dall’industrializzazione. Descrive il sentimento del paesaggio come un’esperienza estetica e politica che libera dall’“oppressione” del presente:
Ciò che caratterizza un paesaggio, il profilo dei monti che delimitano l’orizzonte in una nebulosa lontananza, il colore scuro delle abetaie, il torrente che si getta con fragore tra le rocce a strapiombo, tutto ciò sta in un’antica, misteriosa relazione con la vita interiore dell’uomo. Su tale relazione si basa l’aspetto più nobile del piacere che la natura ci offre.
Da nessuna parte siamo maggiormente pervasi dal sentimento della sua grandezza, in nessun luogo essa ci parla con più forza che ai tropici (…). Dal ricordo di un bellissimo paese lontano, dall’immagine di una vegetazione libera e rigogliosa, l’animo viene alleviato e fortificato, così come lo spirito che sempre aspira a librarsi in alto, quando è oppresso dal presente si rianima rammentando la giovinezza dell’umanità e la sua semplice grandezza”.
Tanto nature writing contemporaneo – basti pensare oggi a Robert MacFarlane – si può considerare erede di questo collegamento humboldtiano tra paesaggio, sensibilità e poetica. Il sollievo dall’“oppressione dal presente” qui evocato può anche valere come slogan di tutta la cultura successiva dell’escursionismo naturalistico. Ma i toni rousseauiani di queste parole rimandano anche all’atteggiamento di critica del colonialismo che Humboldt espresse nel corso della sua spedizione.
Osservando il modo in cui conquistatori e missionari trattavano gli indigeni, facendosi trasportare su sedili appesi alle spalle, lamentò la “barbarie dei popoli civilizzati”. Al Presidente Thomas Jefferson, che incontrò a Philadelphia sulla via del ritorno verso l’Europa, disse senza mezzi termini che lo schiavismo era inaccettabile. A Parigi, dopo il suo ritorno, divenne mentore di Simón Bolìvar e gli ispirò l’idea che il Sudamerica avrebbe potuto liberarsi. Molti anni dopo Bolívar, riconoscendo il suo debito, avrebbe scritto in una lettera che il “sapere” di Humboldt aveva fatto “più bene al Sudamerica di tutti i conquistadores” e lo presentava come il vero “scopritore” dell’America.
Humboldt criticava i miti coloniali – come quello di Eldorado – e puntava l’attenzione – in pagine che sembrano scritte oggi – sui pericoli della deforestazione
La sua scienza della natura non era infatti soltanto un progresso, ma un rovesciamento dell’atteggiamento dei precedenti esploratori. Humboldt criticava i miti coloniali – come quello di Eldorado – e puntava l’attenzione – in pagine che sembrano scritte oggi – sul fatto che distruggendo le foreste, “come i coloni europei fanno dappertutto nelle Americhe, con imprudente precipitazione”, “si preparano per le generazioni future due calamità congiunte: mancanza di combustibile e carenza d’acqua”. L’irruzione coloniale aveva rotto un equilibrio di cui le culture indigene avevano un profondo sapere, che Humboldt cercò di assimilare nella sua scienza.
Dopo oltre duecento anni contemplo le forme aliene degli alberi di ceiba ricoperti di rampicanti, le felci arboree, i canneti che resistono ancora ai margini dell’acqua coperta di schiuma, da dove spuntano a tratti i villaggi di baracche e ponteggi fluttuanti: un cane appostato su una palafitta, un campetto allagato con due porte da calcio, un uomo che pesca immerso nell’acqua fino alla vita.
A qualche ora di navigazione dalla “Stella fluviale”, lungo il Rio Inìrida, compaiono le tre curve dei Cerros de Mavicure, tre colline calcaree, nere, nude, che spiccano sulla foresta deviando il corso del fiume. Stavolta lo spettacolo è immediato, indimenticabile. Le rocce sono molto scivolose ma si possono scalare, con guide della comunità locale di El Remanso. Lo sguardo gioca dalle cime osservando il corso sinuoso del fiume sulla pianura circostante. Intorno l’acqua si allarga in ampie lagune dove ci si bagna. Il fondo roccioso la colora di rosso. Spesso saltano fuori i delfini d’acqua dolce. Tra gli alberi volano coppie di pappagalli.
Qui si arriva prendendo una barca da Puerto Inírida. Il turismo è ancora molto ridotto e non ha prodotto un impatto negativo sulla natura e sulle comunità. Ma ammirare i Cerros de Mavicure, per me, è inseparabile dalla coscienza del conflitto che i Bianchi hanno portato arrivando fin qui all’inizio del Novecento. Ho visto il profilo delle tre rocce per la prima volta nel film L’abbraccio del serpente (2016) del colombiano Ciro Guerra. Il film narra dei successivi viaggi di un antropologo tedesco – liberamente ispirato alla figura del primo studioso europeo delle culture locali, Theodor Koch-Grünberg, che venne qui nel 1909 – e di un botanico americano che nel 1940 va sulle sue tracce. Entrambi vanno alla ricerca di una pianta psicotropa, la yakruna, sotto la guida di uno stesso sciamano, Karamakate. Il racconto è un’odissea fluviale, che aggiorna la lezione cinematografica di Werner Herzog in Aguirre, furore di Dio (1972) facendo uso di attori e lingue indigene (quasi tutto il film è parlato in dialetti locali), in un bianco e nero su cui spiccano i suoni della foresta. La ricerca della pianta è un miraggio di salvezza per l’antropologo tedesco, che ne può essere curato, ma il suo arrivo coincide con quello degli Europei che convertono e schiavizzano gli indigeni. La demonizzazione delle lingue e culture indigene nelle missioni cristiane è causa di violenza e follia, che si ritorceranno contro gli esploratori. Il botanico americano, seguendo le tracce dell’antropologo, troverà sui Cerros de Mavicure l’ultimo esemplare della pianta, che Karamakate gli preparerà, provocandogli una visione dell’intero territorio circostante. L’intero film esprime una tensione irrisolta tra distruzione e rinascita.
Ammirare i Cerros de Mavicure è inseparabile dalla coscienza del conflitto che i Bianchi hanno portato arrivando fin qui all’inizio del Novecento.
Sulla mia barca incontro Ivan, un professore di educazione fisica di Cali, che è venuto qui per un suo personale pellegrinaggio. Ivan ha sangue indio e ha deciso di dedicare il tempo libero della sua vita a un progetto: “Ci sono circa ottanta gruppi indigeni della Colombia. Li voglio visitare tutti, conoscere le loro culture ancora pure”. Nella penombra di una palafitta, tra le amache dove passeremo la notte, Ivan mi parla appassionatamente di questa purezza. Si sofferma su un tratto unificante di tutte queste culture, dalle foreste dell’Orinoquia alle montagne della Sierra Nevada di Santa Marta: le piante, come la coca, che vengono tritate e fumate o preparate in decotti. Si tratta di usanze che i turisti Bianchi isolano dal loro contesto culturale e intendono come uno sballo eccezionale, sradicandole dal contesto in cui sono piuttosto pratiche regolari per pensare e per curarsi: una medicina della mente. Il traffico di cocaina, che ha devastato per decenni la Colombia, è un risultato mostruoso di questa decontestualizzazione culturale.
Di ritorno a Puerto Inírida, Ivan mi presenta l’antropologo Manuel Romero Raffo, che gestisce l’albergo Parature. Sul banco tiene un libro di Heidegger in castigliano. Mi offre un gin tonic – una vera rarità da queste parti – mi mostra la sua collezione di libri sulla regione, maschere, utensili e strumenti musicali a fiato delle comunità indigene. Ha alcuni notevoli accessori sciamanici: aspiratori di polvere allucinogena, con due cannucce d’osso per le narici, e pupazzi che si tengono in mano durante le visioni. Torno a trovarlo il giorno dopo e conversiamo dei numerosi petroglifi della regione, che Raffo interpreta come schemi della struttura sociale delle comunità indigene. Ha studiato a Bogotà, dove l’etnologia è stata evidentemente influenzata dalla teoria strutturalista che Claude Lèvi-Strauss importò in Brasile. Questa presenza di concetti tipici della Francia degli anni Settanta mi sembra una curiosa reliquia intellettuale. Ma mi rendo conto di quanto si addica alla cultura locale la filosofia del pensatore francese, in cui il soggetto individuale perde la sua importanza, mentre pensiero e azione si definiscono in una rete di relazioni in cui s’intrecciano natura e cultura.
Raffo mi parla della sua ricerca sugli uomini-giaguaro, i cacciatori nomadi che hanno rifiutato di adattarsi alla vita urbana, anche con la violenza. Insiste sull’equivoco per cui la loro resistenza culturale è stata presentata come una rivolta politica, mentre nasceva da una scelta mistica. Mi racconta del suo indimenticabile incontro con il giaguaro: l’uomo e il felino si sono guardati a lungo, si sono rispettati, si sono congedati silenziosamente. Gli occhi di Manuel Raffo continuano a stupirsi delle cose che ha scoperto, e cercano nei miei una conferma di quello stupore a cui ha dedicato la sua vita.
La filosofia di Claude Lèvi-Strauss si addice alla cultura locale: il soggetto individuale perde la sua importanza, mentre pensiero e azione si definiscono in una rete di relazioni in cui s’intrecciano natura e cultura.
Puerto Inírida è un reticolato di case e sterrati sabbiosi, invaso dall’acqua e da alberi maestosi, che si percorre interamente in poco più di un’ora. È pieno di campi sportivi e pastelerias. Qui il capitalismo è ancora alla sua frontiera. C’è una certa confusione categoriale nelle farmacie, dove la birra Corona si vende nello scaffale accanto ai pannolini. Di giorno non c’è molto da fare oltre che assistere a un allenamento di calcio tra frequenti scrosci di pioggia e ripararsi a qualche tavolino di plastica a bere succhi di frutta o panela, la stucchevole spremuta di canna da zucchero. Di sera la città si spegne. Don Ramon, un robusto barcaiolo, mi fa salire sul suo imbarcadero per discutere di possibili spedizioni, mi offre una birra Aguila, capisce che prenderò una barca più economica, mi saluta senza insistere: “Estoy a la orden. Feliz viaje”.
Nei dintorni si trovano diverse comunità di etnia curripaco, raggiungibili per strade asfaltate e piste che attraversano la pianura. Decido di andarci in bicicletta. Qui cresce il fiore di Inírida, a forma di pigna scarlatta, con petali duri che si conservano intatti da secchi. La pianura, delimitata dai fiumi Inírida e Guaviare, è soggetta a inondazioni stagionali. Lungo uno dei fiumi dall’acqua rossastra una comunità ha costruito piattaforme e ponteggi di legno. Mentre i bambini si tuffano e nuotano, i ragazzi svuotano lattine di “Cola e pola” (misto di birra e cola), birra Joker, bottiglie intere di aguardiente, e si strusciano ballando, mentre gli anziani seduti preparano arepas di mais. Il ritorno è illuminato solo da un tramonto rosa, attraversato da milioni di esseri volanti che si svegliano.
Il giorno dopo altra corsa in bici, altra comunità. Ma dopo qualche chilometro la via sterrata scompare nell’acqua. A cinquanta metri c’è una palafitta mezza sommersa, che indica forse l’inizio del villaggio. Una barchetta scavata in un tronco è ormeggiata, ma legata con una catena. Avanzando ancora una ventina di metri le bici affondano fino al sellino. Decidiamo di tornare e prendere la via parallela per un’altra comunità, da cui pare che si arrivi a piedi fino all’altra sponda. Nel frattempo, arriva un uomo che si accorge dell’incertezza. Spiega che nel pomeriggio torneranno i bambini da scuola e il capovillaggio verrà in barca a prenderli. Ma ci vuole un’ora e mezza. “La comunità è laggiù, a cento metri”. Indica alberi sommersi. “Se non si affonda troppo potete legare le biciclette e andarci a nuoto”. “Non è pericoloso?” Allarga le braccia. “Questa è la selva, ci sono animali: non si può sapere”. Animali, tra cui caimani lunghi fino a tre metri, ben più preoccupanti dei piranhas, che contrariamente all’aneddotica dei film non gradiscono la carne umana. Prendiamo la via del ritorno. Ci fermiamo a osservare e essere osservati da un variopinto Ara macao che sta appollaiato di fronte all’ingresso di una casa. Un uomo sta stendendo a seccare i peperoncini, una donna cuoce la manioca in un pentolone. Dopo un po’ il tizio di prima ci raggiunge in motorino e dice che è arrivata una signora e ha chiamato la barca con il cellulare. Alla fine carichiamo le bici in barca, tra le risate di un gruppetto di bambini che sono saliti per vedere chi arriva. Il tragitto è di trecento metri, su una corrente molto profonda.
La comunità è un ampio rettangolo di capanne intorno a un albero enorme. Ci sono due campi da calcio. Quasi nessuno in giro. Il capo villaggio chiama un ragazzo che ci farà strada su un sentiero fino alla comunità vicina, e poi, in barca, tra canali sommersi fino a una laguna. Ci incamminiamo. In una spianata caldissima c’è una casa di legno in costruzione. Un uomo ci invita a sederci al riparo di una zona coperta. Le due figlie stanno copiando numeri su quaderni a quadretti. Si è trasferito qui di recente, dopo che un’inondazione straordinariamente abbondante l’ha costretto a abbandonare l’abitazione nei pressi del Rio Guaviare. Per un conflitto intorno a un terreno, infine, ha dovuto ricostruire qui e ricominciare da capo.
L’avanzata periodica delle acque del Guaviare è esempio di un fenomeno insolito, che rimanda alle idee geografiche di Humboldt. L’impressione è di essere avvolti dall’acqua, tiepida e accogliente.
Anche Armando, il ragazzo che ci sta guidando, racconta dei danni subiti dalle comunità della zona per l’eccezionale inondazione. Indica la linea scura sulle case che indica il livello raggiunto dall’acqua. Ci conduce nella foresta su un canale strettissimo, tra canti di uccelli invisibili. Intorno si vede una doppia foresta, quella in alto e quella altrettanto nitida nel riflesso sull’acqua. Si arriva in una radura allagata, su cui la barca resta a rollare, sotto il sole abbagliante. Mezzora di dormiveglia. Poi il motore della barca si riaccende, ma va e viene. Si finisce remando e spingendo la barca contro i tronchi. Ricompare il villaggio. Il capo sta arbitrando una partita di calcio femminile. Lascia le ragazze e ci riporta alla barca, il villaggio-isola scompare tra gli alberi.
L’avanzata periodica delle acque del Guaviare è esempio di un fenomeno insolito, che rimanda alle idee geografiche di Humboldt. L’impressione è di essere avvolti dall’acqua, tiepida e accogliente. Ma al tempo stesso questo moto delle acque e le sue recenti irregolarità segnalano lo sconvolgimento di equilibri climatici e ambientali, un processo che ha una velocità altrettanto innaturale di quella del piccolo aereo che riporta a Bogotà, il vero porto d’ingresso tra Europa e Colombia.
Bogotà è un luogo di passaggio nel mio viaggio attraverso la Colombia, ma, come accadde a Humboldt, scopro una città bella, vivissima, in cui bisogna fermarsi per capire l’intreccio culturale che caratterizza il paese. Humboldt ha lasciato traccia nei Musei, da quello di storia naturale al Museo nazionale che espone l’originale di una delle sue famose vedute di monti, in cui pittura e scienza si uniscono. La splendida dimora di Bolívar è il luogo in cui, forse, il Libertador, scrisse l’encomio dello scienziato tedesco. Il giardino della villa è un piccolo simbolo della natura colombiana: sento un ronzio e mi si rivela, per la prima volta, la velocità aliena di un colibrì verdeazzurro, sospeso nel vuoto a succhiare polline mentre il suo cuore batte venti volte al secondo.
Per le strade di Bogotà scopro anche la celebrata l’ospitalità dei colombiani, che oggi si rivolge anche ai profughi del Venezuela. In un barrio periferico incontro Martha, sorella di un amico chitarrista emigrato da tempo. Racconta di come sta aiutando una signora di Caracas a trovare lavoro in una scuola di musica. “Non l’ho mai incontrata, ma ci scriviamo. Il suo conservatorio ha chiuso. Non ha più soldi per comprare da mangiare, è costretta a partire. Siamo fratelli e dobbiamo aiutarci”. Non sentirò una sola voce ostile ai milioni di venezuelani che si stanno riversando oltre confine per fuggire dalla povertà.
Bogotà è un luogo di passaggio nel mio viaggio attraverso la Colombia, ma, come accadde a Humboldt, scopro una città bella, vivissima, in cui bisogna fermarsi per capire l’intreccio culturale che caratterizza il paese
Cammino ininterrottamente tra edifici coloniali e musei, mercati, zone universitarie strapiene di studenti. In una vetrina, di fronte a sedie da barbiere, c’è un busto di Batman in vetrina. Il negozio propone “tatuaggi, piercing, cuerpos modificados”. Mi spingo fino alle periferie logore, disseminate di parchi, spazzatura e casinò, dove passanti magrissimi sbandano per tutta la notte. Un enorme poster pubblicizza un “medium espiritual” che cura anima e corpo. Entro in un locale isolato in cui suona un’orchestra di giovani percussionisti, accompagnati dagli amici che ballano. Il tizio magrissimo che sta alla porta è un chitarrista autodidatta, accenna qualche pezzo con una tecnica impressionante. Nel corso di alcune notti non m’imbatto in nulla di minaccioso. Solo la memoria sa che questo è il paese dove pochi anni fa c’era il più alto tasso di omicidi del mondo, con decine di migliaia di vittime civili della guerra tra polizia, narcotrafficanti e organizzazioni paramilitari. L’accordo con le FARC ha pochi anni, le cose stanno cambiando rapidamente, ma questa storia non è chiusa, e stride ancora con la dolcezza disarmante dei colombiani che incontro per strada. La stessa arte figurativa degli ultimi decenni esprime questi contrasti: ci sono le figure tonde e imperturbabili nei dipinti di Fernando Botero e i corpi feriti in quelli di Alejandro Obregòn; i murales con un sorridente Gabriel Garcia Márquez e quelli dei barrios con volti di indigeni contratti in smorfie di dolore.
Nei mercati e nei negozi del centro si vendono statue della Madonna e paramenti sacri, costumi erotici, fruste, maschere di cuoio. Raramente ho visto una tale concentrazione di sexy shop e negozi di articoli religiosi. È un perfetto simbolo della società cristiana. Ma si trovano anche negozi specializzati in pistole, giubbotti antiproiettile, completi mimetici, stivali d’assalto, manette, manganelli, spray urticanti e afrodisiaci, tutti accessori buoni per machos psicopatici e mercenari che a quanto pare hanno un loro mercato. In una vetrina si vende un soprammobile con la madonna che tiene in grembo, come una Pietà, un tizio insanguinato nella sua uniforme militare.
Il mio viaggio tra le culture colombiane continua sulla costa caraibica. Dalla città di Santa Marta si parte per uno dei trekking più popolari del Sudamerica, che porta alla “Ciudad perdida”. Si tratta di Teyuna, un antico insediamento della civiltà Tayrona, nascosto tra i monti della Sierra Nevada de Santa Marta e così sfuggito ai conquistadores, analogamente a quanto è accaduto a Machu Picchu in Perù. Per arrivarci si cammina quattro giorni, salendo e scendendo nella giungla montuosa e fangosa. In questa vasta area, dove altri scavi archeologici restano chiusi al pubblico, ancora oggi vivono isolate popolazioni indigene come i Wiwa e i Kogi. Ne vedo alcuni in paese, ma le loro case sono spesso isolate e inaccessibili, in zone dove i Bianchi non possono accedere senza permesso. Il confine è invisibile, inizia dopo un passo particolarmente ripido. Compaiono bambini vestiti di bianco, con i lunghi capelli neri, lisci, e gli stivali di gomma. Le lunghe vesti servono a proteggere dal clima che qui può essere rigido (ma ora fa caldissimo). I maschi adulti portano caratteristici cappelli a forma di tronco di cono e, alla maggiore età, ricevono l’oggetto che sostituisce il nostro documento d’identità: il poporo, una zucca che serve a mescolare foglie di coca e polvere di conchiglie. Gli uomini – come mi spiega uno di loro – portano la mescola alla bocca con un bastoncino e poi, strofinandolo sul contenitore di zucca, pensano. “È il nostro sostituto di un quaderno, di un’agenda: uno strumento con cui ricordiamo e riflettiamo sulle cose”.
Qui l’accesso indipendente è proibito e il turismo organizzato ha dimensioni notevoli. Mi ritrovo in comitiva con i soliti olandesi, belgi, neozelandesi, canadesi e americani di ogni età, che stanno in viaggio per due settimane, due mesi o due anni. Coppie, donne sole, maschi pallidi con grosse pance che sudano e arrancano nel fango per raggiungere il campo con le amache, tutti esempi di un turismo indipendente e dinamico che in Italia esiste poco (gli italiani – come spesso accade – sono riconoscibili perché si muovono in gruppo, con note agenzie di turismo “avventuroso”). Pedro, il campesino che fa da guida al gruppo, fornisce spiegazioni molto esaustive, insistendo sul valore positivo che il turismo sta avendo per l’area. Indica vaste superfici disboscate, macchie verdine e rase che interrompono l’esplosione di piante della montagna. “Molta gente è venuta qui da Bogotà e dal centro del paese per costruire un’autostrada. Sono rimasti a vivere qui e hanno portato il loro stile di vita agricolo. Poi è arrivata la cocaina. Le colture sono state convertite. Qui era tutta coca. Con la droga è arrivata la guerra. Adesso è finita, ne stiamo uscendo. Il turismo è un aiuto preziosissimo: permette di cambiare attività ai coltivatori, favorisce un rapporto positivo con le comunità indigene”.
Qui era tutta coca – mi racconta Pedro – con la droga è arrivata la guerra. Adesso è finita, ne stiamo uscendo. Il turismo è un aiuto preziosissimo: permette di cambiare attività ai coltivatori, favorisce un rapporto positivo con le comunità indigene.
Al termine dei quattro giorni, con le ginocchia a pezzi, arrivo al Parco Tayrona per un giorno di riposo. È una piccola anabasi, che finisce oltre una barriera di palme e mangrovie, di fronte a un tramonto rosso fuoco, su una spiaggia deserta, preistorica, battuta da un mare violento e poco balneabile tra le cui onde, a pochi metri da riva, saltano i delfini.
In campeggio a tarda sera incontro Mario, che come me procede al buio verso il lavandino, con spazzolino e dentifricio in mano. È qui al mare per un paio di giorni, viene da Medellín dove fa il gelataio. Mi dice che è molto interessato alla ricerca spirituale: “Ho approfondito l’ayahuasca, i tarocchi”, eccetera. Ha frequentato diverse facoltà universitarie, non ha mai concluso gli studi. Dietro la sua ricerca spirituale s’intuisce l’inquietudine. Ascolto il suo interminabile sfogo notturno, finché non usa una parola che non conoscevo: desmarañar. La usa per indicare la sua ricerca di orientamento, di chiarimento. Deriva dalla maraña, la selva. Mario paragona il suo districarsi intellettualmente dai nodi esistenziali alla ricerca di una radura nella foresta. Per cercare la chiarezza che non trova in città viene qui, nel silenzio della foresta, e mi parla dell’effetto benefico dei funghi. “Vieni a trovarmi a Medellín, ti porto in giro con la moto”.
Continuo a ripensare all’impatto del turismo risalendo la traiettoria circolare seguita da Humboldt nel suo viaggio colombiano. Cartagena de Las Indias, con la sua enorme baia, è stato un celebre avamposto spagnolo fin dall’inizio del Cinquecento e un luogo chiave per la lotta indipendentista. Oggi il centro storico è un complesso di stradine, piazze e palazzi coloniali ridipinti a nuovo, occupati esclusivamente da costosi cocktail bar, negozi di caffè e altri prodotti locali. È pieno di salsa club “come una volta”, frequentati solo da bionde signore europee in tiro e relativi mariti in bermuda, che vanno tutti a rimorchiare o piuttosto a immaginare di farlo per sentirsi ancora giovani. In un antico palazzo un Museo dell’Inquisizione fatto quasi solo di pannelli, con copie di Copernico e Kant tra i libri proibiti e un paio di arnesi di tortura. Decine di ostelli e agenzie di viaggio stanno allineati lungo le spiagge sporche. Quando i negozi abbassano le insegne il sito UNESCO si converte alla prostituzione. Il turismo ha svuotato questa città di ogni interesse.
La zona più interessante è il mercato Bazurto, che raggiungo con una lunga camminata. Fuori dalla zona rifatta, sotto la ripida collina col Convento de la popa, riprende vita il sano disordine della città. Il mercato inizia lungo uno stradone trafficato, di fronte alla sede del “Ministerio Profético Vida Eterna”. È un labirinto di odori aspri di pesci esposti al sole, frutti che marciscono, verdure fresche, spremute, musica a palla. Nel vicolo dei profumieri, accanto a statuette incellofanate di vari santi e madonne, si vendono manuali di magia nera, filtri d’amore, stimolanti per lui “Sangre de toro”, agiografie, acque di colonia “esoteriche”, incensi con immagini di Santa Marta in piedi sopra un busto di Tutankhamon e due Tao cinesi. Il profumo e il sacro mescolano promessa e suggestione. Sul retro del mercato, lungo la baia, c’è un deposito d’immondizia. Un tizio si toglie i pantaloni e si piega sulle ginocchia, circondato da decine di pellicani affamati che aspettano il momento di assalire il pesce marcio. Sullo sfondo, lo skyline di Cartagena che fa finta di essere Miami.
Ancora un’altra forma di turismo, di nuovo nella qualità di potenziale “riqualificatore”, si trova a Medellín. Vado a visitare La Comuna 13, il barrio più violento, che è stato luogo di spaventosi scontri tra bande locali e paramilitari che ristabilivano la “sicurezza”, con decine di migliaia di vittime civili. Da alcuni anni qui si prova a trasformare l’economia locale con visite guidate. Giovani formati da associazioni di quartiere guidano i curiosi tra i murales, alcuni dei quali ancora forati dai proiettili e da lacerazioni cruente. Raccontano la vita impossibile degli scorsi anni e i lutti. Si balla hip-hop e si vende michelada (cocktail di birra). Proprio in queste settimane sta tornando a aumentare il crimine, ancora oggi a Medellín si contano circa dieci morti al giorno. Di sera attraverso a piedi la città, che si sviluppa lungo una stretta valle da Nord a Sud. Vedo apparire le differenze sociali tra centro/valle e periferia/pendio montuoso, che per lo più rispecchiano le differenze etniche tra creoli ispanici e mulatti.
Medellín è stata forzatamente appiattita nell’immagine di città del narcotraffico, come accade nella popolare fiction Narcos – narrata da una voce statunitense che ha un insopportabile tono di superiorità – o nel dark tourism che porta gente in cerca di brividi protetti, e un po’ morbosi, a visitare la casa di Pablo Escobar, la sua Harley Davidson, i suoi Rayban rotti nel Museo della polizia, finanche i suoi sicari. In questi giorni la città esplode di colori per la Feira de los flores. Le esibizioni di orchidee e altre centinaia di specie floreali, tra il Giardino botanico e le molte piazze, diventano l’occasione per banchetti famigliari a base di spiedini e dolci locali, nella musica assordante.
Medellín è stata appiattita nell’immagine di città del narcotraffico, nel dark tourism che porta gente in cerca di brividi protetti, e un po’ morbosi, a visitare la casa di Pablo Escobar.
Le piante sono il simbolo di tutte le ambivalenze di questa terra: fiori brillanti dalle simmetrie virtuosistiche e dalla bellezza evanescente, il celebrato caffè, la coca col suo duplice valore di viatico e prigione, un carico estetico e emotivo che, diventando industria, va facilmente fuori controllo. Questo tema si esprime bene nel romanzo del colombiano Juan Cárdenas, Ornamento (2015), ambientato in un paese fantastico in cui dei medici estraggono da una pianta una nuova droga – efficace solo sulle donne – che aumenta il desiderio sessuale e stabilizza l’umore. I medici cercano di elaborare una sostanza che produca al tempo stesso ordine e eccitazione “ricreativa”, un equilibrio instabile che cederà dando inizio a tensioni sociali. La nuova droga si vende benissimo, tra tutte le classi sociali, e il medico si convince che “è possibile una certa idea di democrazia basata sul consumo” in cui “l’unico spazio di legittimazione è il mercato”. Ma nella narrazione, la razionalità paradossale del medico cede il passo ben presto alla voce onirica delle pazienti, liberata dalla droga, che sfugge a ogni interpretazione. Una delle pazienti, una visionaria, entra in un triangolo tra il medico e la moglie artista. Tutto in casa sembra funzionare alla perfezione: la conversazione, il sesso a tre. A volte tra le due donne si manifesta un’inquietudine e allora il medico ammette: “Devo ricorrere alla droga per alleviare le tensioni. Quando la distanza fa effetto andiamo tutti a letto insieme e la questione è risolta”. Poi lei scompare, torna a vivere in un barrio, lasciando un vuoto di senso. Nelle strade la gente torna a ammazzarsi per procurarsi la nuova droga.
Seguendo Humboldt sulla rotta dell’altopiano per tornare a Bogotà mi attendono altre piante endemiche. Arrivo a Salento, un paese tra colline e piantagioni di caffè, vicino ai monti e ai vulcani del parco nazionale Los Nevados. Qui vicino, nella valle di Cocora, si trovano le palme da cera, le più alte del mondo. Cammino in un paesaggio di colline verdissime, fino a un rifugio dove vengono a mangiare i colibrì, che ronzano scattando tra i rami ribadendo la lentezza difettosa del mio stanco salire e ragionare. La luce scompare improvvisamente tra le nuvole. Ma bisogna salire ancora, per osservare un altro paesaggio unico.
Il paramo è un mondo inospitale sommerso nella nebbia. Saliamo con Luis, una guida locale, per sentieri che sono scivolose incisioni rosse nei monti, da cui scendono rivoli di melma e merda. Piove quasi sempre, il vento impetuoso produce rantoli tra i cespugli e spezza i rami dei cedri e dei pini nella foresta nebulosa. Mentre a Salento si toccavano oltre venti gradi, qui al mattino si registra un grado e 70% di umidità. Il freddo entra nei vestiti. Luis, quando è possibile parlare e non siamo chiusi ognuno nel suo poncho, introduce le specie di animali e piante endemiche. Si ferma sotto un ramo sottile. È una rara pianta allucinogena che annulla la volontà e quando si consuma rende docili a ogni comando. La usano in locanda, giù a valle, per adescare gli sconosciuti.
L’obiettivo finale della nostra salita sono i frailejones, parenti dei girasoli che vivono assorbendo vapore e crescono alti fino a cinque metri, protetti dalle proprie foglie morte che diventano tronco e morbida corteccia. Formano un bosco surreale che troveremo solo intorno ai 4300 metri. Bisogna pernottare.
Le piante sono il simbolo di tutte le ambivalenze di questa terra: un carico estetico e emotivo che, diventando industria, va facilmente fuori controllo
Gli abitanti dell’altopiano si arrangiano in qualche bassa baracca gelata, bevono tè di coca, coltivano patate e allevano bestiame che viene occasionalmente mangiato dai puma e dalle pantere nere. Il falò nella cucina scalda poco e non asciuga i vestiti. Sveglia alle quattro. Colazione con zuppa di patate, di fronte alle braci tiepide. Ci s’incammina nel buio, con pensieri indicibili, tra vortici di gocce d’acqua che oscillano e schiaffeggiano. Lentamente si fa chiaro, sono quasi le sei. Si scopre che siamo circondati dai frailejones, che ricoprono come strani totem l’intera superficie curva dell’altopiano. Il vento aumenta, tuona, le mani hanno perso sensibilità. Siamo su un picco da cui, con molta fortuna, si vedono i maestosi picchi bianchi, i vulcani studiati da Humboldt, che amava calarsi nelle caldere terrorizzando i suoi compagni. Ma è tutto bianco, e le figure grigie che s’indovinano tutt’intorno non sono che miraggi dell’immaginazione. Scendendo ricompaiono gli alberi contorti. Sui rami tremanti si ripara qualche grasso pappagallo. La resistenza dei viventi.
Ripasso per Bogotà con le sue architetture europee. A un’ora e mezza di bus, verso nord, c’è Zipaquirà, ultimo luogo humboldtiano del mio viaggio. Qui sorge una famosa cattedrale di sale, scavata nella terra dai minatori. Humboldt, prima di mollare tutto e investire l’eredità della madre per il suo viaggio, lavorò nella società mineraria prussiana. Da Bogotà venne qui a fare un sopralluogo e visitò la cattedrale di sale, interessato non più all’estrazione ma alla stratificazione geologica e all’analisi del suolo. Ancora oggi le miniere sono attive nei dintorni. Gli indigeni dell’altopiano sono stati scacciati, sono andati a vivere in paese. Tra i loro discendenti Egan Bernal, figlio di un impiegato della Cattedrale di Sale, che a 22 anni ha vinto il Tour de France. In affanno tra i saliscendi del paese a oltre 2600 metri, immagino il bambino che si allenava con la sua bici. Il paese è pieno di murales in suo onore, dicono che la festa è stata fantastica. Ora le vie sono calme, due ragazzini giocano a palla nella piazza centrale.
L’accesso alla cattedrale sepolta è un itinerario sotterraneo discendente, che passa per le stazioni della via Crucis, ognuna segnalata da una croce scavata in rilievo o incisa nella roccia salata, con vuoti e illuminazioni che giocano col simbolismo evangelico della presenza e dell’assenza di Dio. È una bella installazione d’arte contemporanea (in effetti, l’intero sito è un rifacimento recente). La cattedrale stessa è una meraviglia a tre navate, che spicca nella penombra e nella luce blu. Quattro enormi colonne, corrispondenti agli evangelisti, emergono dalla roccia salata.
Ma l’esperienza non finisce qui. Finito il percorso religioso inizia un lungo corridoio con bar, negozi di statuette di sale, sali da bagno, gioielli, un repertorio sacro e profano di souvenir in cui non mancano profeti, faraoni e una schiera di pupazzi di indigeni amazzonici a grandezza naturale, in costumi tradizionali. Il tutto è un concentrato di quel che i primi Bianchi hanno portato in Colombia: miniere, cristianesimo, mercificazione. C’è un film in 3D sugli indigeni che abitavano le montagne, me lo risparmio. Ripenso a Humboldt, che qui portò un altro repertorio di idee. Raccontava che la sua passione per il viaggio era nata da tre fonti, durante la giovinezza: i racconti di viaggio degli esploratori come Georg Foster e il capitano Cook, i dipinti della natura selvaggia, le piante esotiche nella serra di Berlino. Arrivò qui dopo oltre due secoli di colonialismo, trovando che gli Europei avevano lasciato buchi nel terreno, spazi disboscati e l’immagine della croce. Insegnò a tutti a guardarsi intorno per scoprire un’altra verità.