

I nvertendo la massima di Marx ed Engels sul capitalismo industriale e la sua capacità di dissolvere tutto ciò che è solido nell’aria, possiamo dire di aver di recente scoperto che tutto ciò che del capitalismo digitale ci appariva incorporeo viene in realtà dalle materie. È un fatto inconfutabile degli ultimi anni. Una data più di altre ha impennato la curva di apprendimento: la primavera del 2020, quando, in piena prima ondata di Covid, si sparse voce di problemi nelle filiere dei chip. La carestia tecnologica, legata non solo al virus, colpì come un uragano molti settori, dalle automobili alle console di videogiochi. Ma la cosa davvero sorprendente, per molti, fu scoprire che nell’occhio del ciclone non era un’azienda della Silicon Valley bensì di Taiwan. Si chiamava TSMC. Pochissimi ne avevano sentito parlare ed eppure esisteva dal 1987 e tutti noi avevamo lavorato, twittato, fotografato per anni grazie ai suoi chip.
Sul finire del Novecento, si è scelto di suddividere i processi industriali in filiere popolate da imprese iper-specializzate, anonime ma indispensabili per gli innumerevoli marchi di cui invece conosciamo benissimo il nome.
TSMC era – è – un frutto purissimo della iper-globalizzazione degli ultimi decenni. Esiste perché, sul finire del Novecento, si è scelto di suddividere i processi industriali in filiere popolate da imprese iper-specializzate, anonime ma indispensabili per gli innumerevoli marchi di cui invece conosciamo benissimo il nome. Nel caso di TSMC la specializzazione è la manifattura di chip e tra i grandi nomi dei suoi clienti c’è, per esempio, quello di Apple. Il fondatore di TSMC si chiama Morris Chang, è nato a Taiwan nel 1931 e ha una storia incredibile. Da bambino ha vissuto il trauma della guerra sino-giapponese per poi fuggire con la famiglia in America, dove ha studiato ingegneria ad Harvard, MIT e Stanford, finendo per lavorare a Texas Instruments nel pieno della fase più pionieristica della ricerca sui chip. Anziché godersi i nipotini, a quasi sessant’anni Chang è tornato a casa, a Taiwan, per accogliere l’invito del premier Sun Yun-suan a fondare un’azienda. E così, nel 1987, è nata TSMC e Chang è divenuto “the silicon godfather” (il titolo di un profilo che gli dedicò il New York Times nel febbraio 2000).
La vicenda di Chang e TSMC è fondamentale per capire le tensioni intorno a Taiwan e dunque è centrale nella lotta tra Cina e Stati Uniti per l’egemonia sul resto del secolo. È perciò inevitabile che proprio da essa cominci un libro che si intitola Il dominio del XXI secolo. L’autore si chiama Alessandro Aresu e, a parere di chi scrive, è il più brillante autore della “new wave” geopolitica italiana. Lo aveva già dimostrato nell’ottimo e consigliato Stati Uniti e Cina. Le Potenze del capitalismo politico (Nave di Teseo, 2020). Lo conferma con questo nuovo lavoro sulla “guerra invisibile” delle tecnologie. Guerra che si sta combattendo da tempo a colpi di atti del Congresso americano e di diktat del PCC, di riconfigurazione delle supply chain e di censura delle piattaforme. Guerra che si combatterà ancora più aspramente in futuro intorno a chip e batterie, materie prime e terre rare. Intorno a tutto ciò da cui già oggi dipende il mondo di domani. Come scrive nell’introduzione l’autore:
La supply chain dei semiconduttori ha una complessità che le nostre menti faticano ad afferrare: è difficile capire, a prima vista, come la realizzazione di oggetti infinitamente piccoli richieda una legione di macchine, programmi, gas, reagenti e altri materiali. E le supply chain non sono mai neutre nella loro natura e nei loro effetti: creano dipendenze e valore aggiunto in termini diversi per i vari attori che le compongono. Superano i confini e allo stesso tempo ne rimarcano l’importanza, in processi che tengono insieme le innovazioni dei ricercatori, la genialità degli imprenditori, e le scelte politiche. Sta qui l’importanza della guerra economica, il grimaldello con cui inserirsi nella sinfonia delle supply chains.
Senza darsi toni oracolari, Aresu si addentra in questa sinfonia. Ne padroneggia i risvolti industriali e normativi, culturali e militari, tecnici e geopolitici, con maestria e l’abilità di intrecciare la notizia allo scenario, il fatto singolo al quadro filosofico di riferimento. Come quando il racconto della capacità di Elon Musk di muoversi da trickster su più tavoli dell’innovazione diventa anche occasione per mostrare cosa si nasconde nelle pieghe (“un mondo sotto e dentro la pelle del pianeta”) delle filiere dell’automobile. Un’industria che, ancora cent’anni dopo i “cinque dollari” di Ford, non è mai solo un’industria ma anche la promessa, e la premessa, di un determinato contratto sociale. O quando l’analisi dell’ascesa di Tik Tok offre ad Aresu lo spunto per riflettere sul rapporto tra libertà e innovazione. Su come la Cina abbia ormai da tempo smentito le profezie, tra i tanti di Clinton e Biden, sull’incompatibilità tra il suo modello e un elevato tono di vitalità tecnologica. O, infine, quando la storia di ASML, l’avanzatissima azienda olandese che fa i macchinari per fare i chip (le filiere, se seguite a ritroso, non finiscono mai), nelle mani di Aresu diventa propizia per rivisitare in poche pagine Gadda e la legge di Moore, Koyré e gli spazi discreti.
Quanto sopra Aresu riesce a farlo sempre con una buona penna. Il capitolo meglio riuscito, in tal senso, è “Febbraio a Pechino, aprile a New York”. Dedicato ad “affinità e divergenze” tra la reazione americana e quella cinese al Covid, l’analisi vi assume tinte quasi liriche. Il capitolo ha al cuore una metafora, quella sulla “confusione degli orologi”, capace di conferirgli un andamento da sceneggiatura. Da disaster movie d’autore:
Ci sono quindi diverse dimensioni nel “mese più crudele del 2020”. Aprile a New York, con i cadaveri dentro i camion. Aprile a Washington, nelle stanze governative dove i capitali sono valutati sulla base della sicurezza nazionale e del passaporto. Aprile a Cape Canaveral, dove SpaceX si prepara per il suo primo volo umano a maggio. Aprile nei laboratori dove va avanti la corsa per il vaccino. Aprile nelle aziende che licenziano e quelle che programmano di riprendere le assunzioni. Con il senno di poi cosa è possibile imparare dalla pandemia come tappa, e non come momento decisivo, della sfida tra Cina e Stati Uniti?
Beh, per esempio, si può imparare come nasce, cresce e si sviluppa il “sanzionismo”. Ovvero l’arma del capitale con cui, più di ogni altra, l’America intende affrontare, e spera di contenere, l’avanzata cinese nelle industrie e nelle filiere strategiche. O, in alternativa, ci si può chiedere come mai tutto ciò che capita in Cina venga (anche negli ultimi giorni) commentato e inserito in Occidente all’interno di schemi interpretativi prefabbricati. Come mai, per esempio, il combinato “censura del Covid + rivolte di Hong Kong” sia subito stato qui da noi traslato in un “Chernobyl + primavera araba”. Un goffo tentativo di rendere familiari fatti complessi che, in realtà, contribuisce solo a opacizzarli.
“Da dove viene questa superficialità?” si domanda Aresu. E in effetti, mutatis mutandis, guardando la saggistica che, su America e Cina, oggi spopola in Italia è una domanda che mi faccio spesso. Per fortuna Il Dominio del XXI secolo è una felice eccezione e Aresu si conferma un eccellente speleologo di quel “mondo delle cose” materiali che da sempre abita il cuore di ogni dibattito e di ogni grande questione.