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ntorno agli anni Settanta prese vita in Italia un indirizzo storiografico nuovo, progettato e curato da studiosi come Carlo Ginzburg, Carlo Poni e Giovanni Levi, che prese il nome di microstoria. Questa tendenza di ricerca fu influenzata dal gruppo Nouvelle Histoire, corrente di pensiero che mira all’ampliamento dell’orizzonte dell’osservazione storica, con il ricorso a nuovi oggetti su cui porre l’attenzione, e dalla rivista Annales grazie ad autori come Marc Bloch e Lucien Febvre. La microstoria, che parte dai presupposti della Nouvelle Historie per poi trovare una piena e fertile autonomia, trova invece il suo luogo di espressione fondamentale nei Quaderni storici, rivista edita da Il Mulino, e nella fondamentale collana edita da Einaudi e diretta proprio da Ginzburg e Levi, Microstorie (molti titoli ormai introvabili reclamano una ristampa che pare doverosa, come nel caso de Il santo levriero. Guinefort guaritore di bambini di Jean Claude Schmitt e L’eredità immateriale: carriera di un esorcista nel Piemonte del Seicento di Giovanni Levi). In linea generale questa scuola storiografica ha prodotto delle indagini fondamentali su aree geografiche molto circoscritte, che costituiscono delle ricostruzioni minuziose e analitiche della storia di piccole comunità o di personaggi dimenticati dalla storiografia.
Il prefisso micro però non rimanda solo alla dimensione dell’oggetto di ricerca, ma ha ovviamente anche un peso sulla scala di osservazione che, con la sua messa a fuoco sempre più stretta, permette di raccontare e illuminare degli oggetti di studio solitamente ai margini. In generale questo approccio comporta delle importanti ricadute sia nel campo della storiografia che in quello più ampio delle scienze sociali perché divengono protagonisti personaggi e atteggiamenti che sfuggono al pensiero storico maggioritario, con un’attenzione speciale alla quotidianità, alle carte di archivio, alle biografie minori, fino alle macroaree tematiche riguardanti la paura, il dubbio, i ricordi e la memoria. Al centro del lavoro dello storico sta ora, secondo le parole di Levi in A proposito di microstoria, «la ricerca della verità relativa al modo conflittuale e attivo degli uomini di agire nel mondo», compiuta attraverso un paradigma imperniato sulla «conoscenza dell’individuale che non rinunci a una descrizione formale e a una conoscenza scientifica anche dell’individuale».
L’opera di Carlo Ginzburg, di cui Adelphi ha adesso pubblicato in una elegante edizione Storia notturna. Una decifrazione del sabba all’interno della collana Il ramo d’oro, è quella che probabilmente riveste il peso specifico maggiore nel dibattito, con opere fondamentali come Il formaggio e i vermi, Miti emblemi spie, Il filo e le tracce o I benandanti. L’importanza di questi studi risiede anche nell’ampiezza di orizzonti del suo autore, che non manca mai di addentrarsi in altri campi del sapere, quali il cinema (si veda a questo proposito un’intervista pubblicata su Lo Straniero, dove Ginzburg si lancia in una lucidissima analisi del complesso rapporto tra questo e la storia), la storia dell’arte (il bellissimo Paura, reverenza, terrore, edito sempre da Adelphi) e la letteratura. Su quest’ultimo campo in particolare, l’influenza di Ginzburg è notevole, grazie alla trasposizione della metodologia di ricerca microstorica in quella del «paradigma indiziario», una particolare capacità interpretativa e conoscitiva che permette alla mente dell’uomo di conquistare una leggibilità del mondo tramite dettagli, indizi rivelatori e dati accessori.
Questo modello epistemologico è operante, secondo lo storico, in moltissimi campi del sapere come la medicina (tramite la semeiotica), la psicoanalisi (come «metodo interpretativo imperniato sugli scarti, sui dati marginali, considerati come rivelatori»), l’arte (con l’esempio di Giovanni Morelli, medico e appassionato di arte che mette a punto uno stravagante sistema di attribuzione delle opere d’arte basato appunto sui dettagli) e la letteratura (i romanzi polizieschi dove ad utilizzare questo metodo sono personaggi come Sherlock Holmes, un detective paragonabile al conoscitore di arte che scopre l’autore del delitto tramite dettagli invisibili ai più). Sono le spie e gli indizi, le zone privilegiate percorribili per andare oltre l’opacità della realtà; l’analisi finisce quindi per basarsi su dettagli apparentemente insignificanti ma che possono comunque fornire l’accesso alla verità. Questo metodo investigativo di ricerca trova una sua sistematizzazione nel saggio Spie: le lacune, i vuoti e i cedimenti sono i luoghi di indagine privilegiati della ricerca perché, come scrive Lavagetto in Lavorare con piccoli indizi, «a partire da essi sarà possibile trovarsi sulle tracce di qualcosa di più grande».
Storia notturna muove proprio da questi presupposti, da una metodologia che vuole andare a indagare i luoghi di un vuoto, e lo fa attraverso le tecniche proprie della microstoria. In questo caso la scelta di scala però non risulta riferita alla grandezza dell’oggetto studiato, che invece occupa uno spazio geografico e temporale amplissimo, funzionale al tentativo di ricostruire la traiettoria secolare che vede intrecciarsi l’ossessione di un complotto contro la società, di cui vengono accusati via via diversi gruppi (gli ebrei, i musulmani, i lebbrosi e via discorrendo) e le credenze popolari a sfondo sciamanico. L’aderenza al processo conoscitivo si concentra piuttosto sulla marginalità di certi argomenti all’interno del dibattito storico e sull’esclusione, spesso perpetrata, di alcuni soggetti dalla sua narrazione.
L’opera di Carlo Ginzburg è quella che probabilmente riveste il peso specifico maggiore nel dibattito intorno alla microstoria.
Qui sta infatti un aspetto molto importante del lavoro di Ginzburg, quello di dare una voce alle marginalità, a chi la Storia si è sempre trovato a subirla. Certo, leggendo queste pagine, emerge una questione interpretativa e epistemologica ineludibile: se, come viene mostrato, la repressione si è sempre mossa dagli oppressori verso il popolo più indifeso e se le testimonianze, di cui è ricchissimo questo libro, sono frutto della stessa società controllante, qual è lo statuto di veridicità di questi documenti? Una domanda la cui risposta resta confinata nell’ambito della riflessione più teorica, tanto della storia quanto dell’antropologia, ma che trova nell’ipotesi di lavoro microstorica un importante punto di riferimento. Appurata la natura di questi documenti, il tentativo di analisi storico proprio perché coadiuvato da aspetti propri delle scienze sociali, della religione e dell’antropologia permette di riempire ermeneuticamente alcuni spazi bianchi della storia.
Il lavoro di Ginzburg si regge su un meticoloso sforzo di documentazione, concentrato sullo studio certosino di carte che testimoniano vari aspetti della persecuzione di streghe e presunte tali, documenti soprattutto giudiziari, condanne e testimonianze. Attraverso questo lavoro emergono due particolari aspetti: innanzitutto il racconto comune di cortei notturni in cui streghe e stregoni si muovono in uno stato psicologico particolare, né sonno né veglia, guidati da misteriose divinità femminili che assumono nomi diversi a seconda del luogo geografico di indagine; l’altro evento è quello della processione dei morti, legato al culto dei defunti, dove secondo Ginzburg le anime in processione non erano altro che persone reali travestite con maschere e altri paramenti tanto convincenti da apparire come animali o demoni. Ciò che Ginzburg riesce a dimostrare con questo saggio, pur non rimanendo immune da polemiche e discussioni, nasce proprio da questi ritratti dei sabba e delle processioni dei morti: utilizzando un metodo comparativo che abbraccia non solo gli ambienti europei ma anche quei territori di confine tra Europa e Asia, Ginzburg ricostruisce le numerose e impressionanti connessioni tra questi eventi notturni, dimostrando come dietro questi particolari momenti conoscitivi si celasse un rimasuglio di sciamanesimo risalente ad epoche molto remote. Da questo punto di vista, l’importanza del testo diviene particolarmente evidente: innanzitutto, l’affascinante legame spaziale e temporale tra esperienze diffuse in tutta Europa nate quindi da una base comune che trova nel culto dei morti e nel viaggio onirico del sabba una matrice iniziatica.
In secondo luogo una tecnica di soppressioni di tali eventi praticata dai governi che si è rivelata nei secoli la migliore guarigione dall’ossessione verso il diverso, ritenuto responsabile di minare il vivere comune. Si apre qua un capitolo interessante che insiste su una questione che ha sempre appassionato lo studio dell’antichità riguardante il rapporto tra potere e società. La repressione nello stato è necessaria perché altrimenti, a causa della naturale violenza dell’uomo, in termini hobbesiani, non sarebbe possibile costruire e mantenere la società, oppure è la stessa società a essere fonte della violenza con il suo controllo e fondata addirittura su un originario atto di questo tipo? In questa seconda teoria rientra forse il carattere dello studio di Ginzburg, che sembra affermare l’esistenza di un nesso essenziale tra il potere sovrano, la sacralità e la violenza sacrificale: la condanna, la messa a morte o la stigmatizzazione di un gruppo da parte della comunità evita la propagazione della violenza. Non siamo molto lontani dalle teorizzazioni di Girard in La violenza e il sacro e dai paradigmi di potere biopolitico per come espressi da Giorgio Agamben e condensati nella violenza nei confronti della «nuda vita». È evidente però come la ricaduta di questa teoria investa la natura più intima dell’Europa che sembra allora fondare il suo equilibrio su antichi atti di violenza necessari per mantenere l’ordine.
Prima del libro di Ginzburg, grande clamore provocò lo studio di Margaret Murray Le streghe nell’Europa occidentale, che sosteneva che la stregoneria non fosse altro che un’antica religione pagana e i sabba i ritrovi che gli adepti di quel culto organizzavano per celebrare i propri riti. Murray prendeva le misure da La strega di Michelet che indagava la questione da un punto di vista più politico, ovvero definendo quei ritrovi notturni come dei momenti in cui il popolo, vessato dal lavoro e dalle rigide regole della chiesa, ritrovava un momento di fratellanza: un «sogno di liberazione» per le classi subalterne. Nel testo di Ginzburg si incontrano descrizioni dei vari partecipanti a questi riti come i benandanti, punto di unione tra antichi culti pagani tra Friuli, popolazioni germaniche e slave (e a cui Ginzburg dedicò il suo primo libro, l’esemplare I benandanti, stregoneria e culti agrari tra Cinquecento e Seicento), i mazzeri della Corsica che uscivano in spirito durante le notti per cacciare e uccidere animali o i kresnik di Istria, Slovenia e Croazia, il cui spirito esce, sempre durante la notte, sotto forma di mosca nera. Chiude questa edizione Adelphi, la nuova postfazione dell’autore che, oltre a storicizzare il tentativo di analisi e ripercorrere la storia della nascita del volume, evidenzia il suo processo di creazione critica e riflessione e mette insieme molti dei riferimenti fondamentali per comprendere a pieno non solo questo testo, ma forse tutta la corrente della microstoria nelle direttive che ha preso nell’opera di Ginzburg.
A partire dagli anni ’60 mi dedicai in maniera intermittente a una ricerca che si proponeva di rispondere alla sfida dello strutturalismo traducendo in termini storici un’opposizione basilare, apparentemente radicata nella natura umana: quella tra alto e basso.
Siamo nel solco di quello che è stato detto in precedenza, ovvero nella natura del sapere delle classi dominanti che schiaccia non solo i documenti da loro prodotti, ma anche quelli a loro indirettamente legati, come la trascrizione delle testimonianze per esempio, di cui è ricco questo libro. L’andamento della ricerca però si rivela altalenante, con movimenti che vanno da un approccio etnografico a uno morfologico e che trovano nelle Note di Wittgenstein al Ramo d’oro di Frazer un punto di svolta importante (Ginzburg riporta anche la sua annotazione del 1976 sulla sua copia del libro di Wittgenstein: «Rifiuto dell’interpretazione storica. Gran parte dell’Alto e Basso non è storico, cioè non ammette una spiegazione storica: tutt’al più una rappresentazione perspicua nel senso di Wittgenstein»). Ginzburg in questa postfazione sembra costruire una sorta di accenno a un’autobiografia intellettuale ma soprattutto squaderna la natura più intima della ricerca, «l’emergere di un’idea destinata a scomparire e riaffiorare sotto altre vesti». Una lezione non solo per fare storia, ma forse più universale che coinvolge, o dovrebbe farlo, tutto il nostro universo di convinzioni.