È uno dei doveri dei giovani recriminare alla generazione precedente i suoi fallimenti. Per quanto riguarda i bersagli delle accuse è possibile tracciare uno specifico filone che da Holden Caulfield nel 1951 arriva fino ai Nirvana nel 1991: i fasulli, i conformisti, i borghesi, la società, il sistema, il mainstream, gli yuppie, l’aziendalismo, i poser, i fake, i venduti. Queste accuse si rifanno a un ideale di autenticità, in base al quale il peggior peccato è probabilmente l’ipocrisia. Il capitalismo è sempre stato in grado di assorbire e metabolizzare il dissenso e la resistenza, appropriandosene, ed è il motivo per cui la sottocultura è costretta a reinventarli continuamente. I Nirvana e Kurt Cobain negli anni Novanta hanno segnato probabilmente il punto culminante di queste accuse, ma è stato anche il momento in cui le tensioni interne alla sottocultura si sono fatte insostenibili. Dopo di loro, qualsiasi critica avrebbe dovuto essere formulata su basi differenti.
Kurt Cobain, come molti ragazzi venuti dopo il Vietnam, dopo il Watergate, dopo la controcultura, aveva assimilato una sorta di cinismo, di disincanto. L’ossessione per l’ironia coesisteva con l’ossessione per l’autenticità. La satira era diventata onnipresente: c’era la rivista Mad (piena di parodie che ridicolizzavano qualsiasi cosa, dai film commerciali alle pubblicità), c’erano i Wacky Packages (pacchetti di sticker con pubblicità di prodotti famosi in versione parodica) e c’era il Saturday Night Live in cui nel 1975, primo anno della trasmissione, Jerry Rubin figurava nei panni dello “Yippie” in un finto spot pubblicitario in cui reclamizzava una carta da parati coperta di graffiti con slogan hippie. Faceva ridere perché Jerry Rubin si era davvero venduto, passando da attivista radicale a imprenditore di successo; il fatto di esserne consapevole rendeva la cosa tutto sommato accettabile, ma quell’atteggiamento cinico racchiudeva in sé anche una forma di resa. Sembrava che la sinistra radicale avesse ormai deposto le armi. E, in effetti, Reagan e Thatcher erano dietro l’angolo.
Il punk, per quanto a sua volta ammantato di ironia, costituiva un gigantesco atto di rifiuto nei confronti di quel cinismo. Nel 1977 i Sex Pistols pubblicarono un singolo ironicamente intitolato “God Save the Queen”. È celebre il sorrisetto di Johnny Rotten mentre chiede al pubblico: “Vi capita di pensare che vi abbiano fregati?” Quel ghigno sarcastico stava lì a significare che c’era un secondo livello in quella battuta: i Sex Pistols fregavano il pubblico, rifiutandosi sfacciatamente di risultare gradevoli, ma anche la cultura aveva fregato tutti, lasciandogli addosso una specie di nichilismo. Tutti sputavano addosso a tutti: il pubblico sul gruppo, e il gruppo sul pubblico.
Nel corso della sua evoluzione il punk ha conservato quel rifiuto nichilistico, ma ha acquisito man mano anche una vocazione egalitaria. Lester Bangs ha raccontato che i Clash invitavano i fan nella loro camera d’albergo. Non erano divi del rock, erano solo una garage band. Il punto non era essere dei virtuosi con lo strumento ma essere virtuosi sul piano politico. E fu questa idea di purezza che il punk si portò dietro fino agli anni Ottanta, un contrappunto alla cultura materialista e aziendalista degli anni di Reagan.
Da una parte dovevi avere l’ironia, l’atteggiamento ambivalente di uno a cui non importa di niente, ammettere apertamente la tua complicità col sistema. Allo stesso tempo però era necessario che ti importasse.
C’erano delle trappole fin dall’inizio in quel fervore giovanile per l’autenticità: innanzitutto il problema di come riconoscerla, e poi la facilità con cui i tratti distintivi dell’autenticità possono diventare l’ennesima posa infarcita di cliché (che sono il marchio di fabbrica delle imitazioni). In queste interviste – la prima delle quali risale al 1990, l’anno prima che i Nirvana sfondassero, mentre l’ultima a due mesi prima della morte di Cobain nel 1994 – Kurt Cobain mostra di aver inglobato il punk degli anni Ottanta nell’“underground” indie/alternativo, e lo vediamo dibattersi per restare fedele alla sua etica punk. Ma era impossibile. Da una parte dovevi avere l’ironia, l’atteggiamento ambivalente di uno a cui non importa di niente, ammettere apertamente la tua complicità col sistema. Allo stesso tempo però era necessario che ti importasse, ed era necessario seguire delle regole ferree per non venderti. Forse bisognava essere come Calvin Johnson, un artista semisconosciuto ma stimato. Probabilmente Kurt Cobain è stata l’ultima persona a credere nel punk, e dover mediare costantemente tra queste tensioni opposte lo stremava. Senza contare che c’era qualcosa di elitario e fighetto nell’oscurità affettata, no? Il punk non dovrebbe essere elitario (è il problema di una sottocultura definita spesso da ciò che non è).
Nell’ambito dell’ethos del punk uno dei miei filoni preferiti è quello iniziato con gli Stooges e poi ripreso dai Replacements: l’orgoglio di essere perdenti. Era una forma di anticapitalismo, di resistenza al culto dell’avidità e del successo materiale, amorale, tipico degli anni Ottanta. È esemplificato dalla famosa t-shirt della Sub Pop su cui campeggiava la parola loser in maiuscolo, o dal pezzo di Beck del 1994 “Loser”. E sentiamo la stessa nota autodenigratoria quando Cobain dice che i Nirvana sono “pigri” e “analfabeti” e che in qualsiasi discussione avevano la peggio perché si erano fatti “troppe canne e troppi acidi”. Questa autodenigrazione è un atto di liberazione e sovversione – i ragazzini bullizzati che si riappropriano delle parole un tempo usate per ferirli. Ma allo stesso tempo è anche una posa, come se non volessero essere sorpresi a tenere troppo a qualcosa. Non puoi criticare le mie canzoni perché sono il primo a dire che faccio schifo e non so suonare. Come per tutti gli altri filoni, le cose sono più complicate di così. Magari, è vero, Kurt Cobain non era erudito in fatto di musica o di letteratura, ma era bravo. Magari non andava fiero di nient’altro, ma andava fiero dei suoi dischi.
Ma allo stesso tempo la sua umiltà era autentica. Dopo il traumatico divorzio dei genitori (“il mitologico divorzio è una noia”, cantava in “Serve the Servants”) aveva condotto una vita nomade, a tratti dormendo in macchina. Non aveva finito le superiori, aveva lavorato come inserviente, ma per la maggior parte del tempo era disoccupato. La cosa che lo aveva salvato, il punto in cui iniziava e finiva la sua vita, era la musica. Credeva davvero nella musica, uno spazio in cui poter essere se stesso. Cominciò a scrivere canzoni dedicandovisi anima e corpo, a suonare la chitarra e a esibirsi. E sapeva benissimo come doveva essere la sua musica. Doveva essere come la musica che amava: grezza e dura ma con melodie pop e testi che risultavano strani e interessanti anche dopo averli sentiti mille volte. Proprio come i Beatles e i Black Flag, che erano riusciti a farsi apprezzare dal grande pubblico. Il problema era quello che faceva il mondo alla musica: il commercio, la promozione. Alla fine, nelle sue interviste, si vede che sta metabolizzando questa cosa. Non vuole una “immagine”. E, nei suoi testi, riesce a combinare sarcasmo e ambiguità e allo stesso tempo mostrare quanto gli importa, davvero tanto, di un sacco di cose e per tutto il tempo. Se nelle canzoni il trucco funzionava, era più difficile farlo funzionare nella vita. Spesso nelle interviste mentiva o si sottraeva alle domande, ma allo stesso tempo cercava di essere onesto in modo quasi compulsivo, di essere vulnerabile, una persona che soffre e che continua a confessarsi e a mostrare il proprio cuore nonostante si senta tradito dalla stampa e snervato dai fan. Continuò a rilasciare interviste anche dopo il celebre articolo di Vanity Fair che dipingeva in modo crudele e brutale il suo rapporto con Courtney Love. Era ormai sospettoso, arrabbiato, sulla difensiva, eppure continuava a credere di potercela fare, di poter riprendere il controllo. Se ne lamentava apertamente. Come mai non ha deciso di sottrarsi a tutto questo, ritirarsi a vita privata? Probabilmente, a un certo livello, voleva disperatamente essere compreso. Probabilmente credeva che fosse possibile essere compreso. Non era capace di essere ambiguo o indifferente, a prescindere da quanto dichiarava.
Era vero che non voleva essere l’ennesima divinità del rock, era vero che non voleva mercificare le donne, non voleva fare appello ai cliché della mascolinità rock’n’roll. Era un ragazzo bianco cresciuto in provincia, ma non era uno stereotipo, non era razzista né sessista né omofobo.
Negava di avere ambizioni, ma poi lo ammetteva. Voleva fare dischi e avere un pubblico. Solo che voleva farlo alle sue condizioni, come i suoi eroi del punk. All’inizio le sue condizioni erano restare con un’etichetta indipendente e non passare alle major. Ma alla lunga questo si rivelò insostenibile. I Nirvana non erano ragazzini borghesi e privilegiati che suonavano nel garage di una villetta. Quello che guadagnavano con la Sub Pop non bastava neanche lontanamente a vivere. E la distribuzione (oggi un concetto vintage) faceva schifo. I Nirvana pensarono allora di poter rimanere fedeli alla propria visione anche avvalendosi dei vantaggi di una major. Per i Sonic Youth aveva funzionato, anche loro avevano firmato con la Geffen Records e avevano avuto successo, abbastanza da guadagnarsi da vivere ma non così tanto da perdere la credibilità indie. I Nirvana però vendettero immediatamente milioni di copie, diventarono all’istante superstar mondiali, e questo era difficile da conciliare con una credibilità punk. I Nirvana si lamentavano di mtv, ma volevano sfruttare mtv tanto quanto mtv voleva sfruttare loro. Si lamentavano di dover suonare nei grandi stadi (l’arena rock, che schifo) e dell’assenza di connessione col pubblico, di intimità. Ma ormai il pubblico era troppo grande. E da chi era composto in effetti quel pubblico? Dagli stessi ragazzini che li bullizzavano a scuola. Rispetto a questo nuovo pubblico Cobain fa avanti e indietro: all’inizio non sono i suoi veri fan. Lo spaventano. Poi cerca di controllarli. Dopo il successo travolgente di Nevermind, arriva a scrivere nel booklet di Incesticide:
Se qualcuno tra voi per qualsiasi ragione odia gli omosessuali, le persone con la pelle di colore diverso, o le donne, vi preghiamo di farci un favore: levatevi dal cazzo! Non venite ai nostri concerti e non comprate i nostri dischi.
E questo ci porta a quello che era probabilmente il tratto più interessante e inedito dell’ethos punk di Cobain. Era vero che non voleva essere l’ennesima divinità del rock, era vero che non voleva mercificare le donne, non voleva fare appello ai cliché della mascolinità rock’n’roll. Era un ragazzo bianco cresciuto in provincia, ma non era uno stereotipo, non era razzista né sessista né omofobo. Dichiarava di avere una sensibilità gay, e gli piacevano le donne forti e intelligenti. Era fragile, costantemente in preda al dolore fisico, e lo ammetteva. Era sposato e non usciva con le modelle. Gli piaceva fare il papà. Questo si estendeva anche al suo aspetto, o al suo modo di presentarsi. Come Johnny Rotten, Cobain aveva stile, ma lo stile veniva dalle sue contraddizioni. Era bellissimo, ma non si pettinava, e indossava maglioni da nonno. Indossava la gonna – non sfarzosi abiti da donna pensati per gli uomini come quelli di Bowie, ma vestiti raccattati nei negozi dell’usato. Ha indossato un camice da paziente d’ospedale (il proprio, che dai, su, è veramente, veramente punk). E quindi anche il suo stile nasceva dalla sua vulnerabilità, dal fatto che la portava appesa al collo. O sulle magliette. È famosa la sua foto sulla cover di Rolling Stone in cui indossa una maglietta con su scritto corporate magazines still suck. (Questo lo assolveva? No, in realtà no. L’autoconsapevolezza è davvero un alibi? Ma è comunque qualcosa.) Usava anche le sue magliette come cartelloni pubblicitari per far conoscere altri artisti meno famosi. Come a dire: se proprio dovete guardarmi, tanto vale sfruttare lo spazio a fin di bene. Ha indossato una maglietta di Daniel Johnston, e nell’Unplugged di mtv aveva addosso una maglietta delle Frightwig, un gruppo proto-riot grrrl. Come i r.e.m. prima di loro, i Nirvana hanno usato la loro fama per promuovere altri artisti e allo stesso tempo citare (e legittimare) quelli che li avevano influenzati. Mtv avrebbe voluto che i Nirvana in Unplugged suonassero le hit del grunge e le canzoni dei Pearl Jam, ma Cobain si impuntò per fare tre canzoni dei Meat Puppets, e perché fossero sul palco con loro. Nella scaletta c’erano anche pezzi dei Vaselines e di Leadbelly e un pezzo di Bowie (all’epoca) completamente sconosciuto. Nella sua voce si sente la devozione: coraggiosa, accorata, strappacuore. Cercò di affrontare faccia a faccia le sue contraddizioni nei confronti di mtv, delle interviste, dei suoi fan. “Come as you are, as you were, as I want you to be”. Nella sua ultima intervista dichiarò: “Ho a disposizione un paio d’ore per cercare di cambiare il loro modo di vedere il mondo”. Queste tensioni non si risolveranno mai. È necessario viverci dentro. O sopravviverci.
Negli anni Venti del nuovo millennio il punk è ormai diventato una delle tante “estetiche”, al pari del goth o del glam. Una posa, espressione di una particolare sensibilità più che di un ethos. E, naturalmente, oggi ci si aspetta che gli artisti dedichino ancora più attenzione all’immagine, al marketing e all’autopromozione. Il concetto di autenticità, contraddittorio fin dall’inizio, ormai non è solo antiquato, è completamente illeggibile. Vendere molti dischi/libri/biglietti è un marchio di qualità, e non c’è niente di male nel farsi pubblicità, nel considerarsi un brand, nel fare film Marvel e via dicendo, perché è necessario arrivare alla gente in un mondo assordante, ed è necessario guadagnare se si vuole continuare a creare. Ed è in qualche modo un sollievo poter smettere di fingere di essere mercificati (non solo l’opera, ma anche l’artista, il creatore). La resistenza e la sottocultura non devono più essere per forza cose di nicchia, ora ci sono altri valori oltre all’identità: le comunità virtuali consentono una diffusione orizzontale che fa sì che gli artisti non abbiano più bisogno di sfondare i cancelli del mainstream per raggiungere il pubblico. C’è la possibilità di un livello di accesso autenticamente egalitario, che è un’idea sovversiva e anti-aziendalista. Si può eliminare il sotto dalla sottocultura, oppure si può dire che tutto è sottocultura, che non c’è più un mainstream contro cui inveire. Forse ci sono solo flussi: flussi di musica, di film e, in qualche modo, per qualcuno, flussi di incassi. È meglio essere un artista oggi o era meglio essere confinati nei 120 minuti a tarda notte che mtv concedeva alla musica “alternativa”? La risposta, temo, è che non è mai un buon momento per essere artisti.
Ma poi c’è il Kurt Cobain degli anni Novanta, che ci dice che c’era qualcosa di prezioso nello strenuo tentativo di vivere all’interno di quelle tensioni e contraddizioni.
Un estratto dall’introduzione di Territorial Pissings (minimum fax, 2024).