

U sciti l’uno a distanza di sei mesi dall’altro, Il fuoco che ti porti dentro (2024) di Antonio Franchini e Donne che allattano cuccioli di lupo. Icone dell’ipermaterno (2023) di Adriana Cavarero, hanno in comune la volontà di ridisegnare il rapporto ‒ affettivo o intellettuale ‒ con il materno. Una volontà comune che li rende adatti a essere letti insieme, nonostante le differenze profonde tra i testi ‒ il primo un memoir narrativo, il secondo appartenente alla saggistica filosofica.
L’incipit, folgorante, del memoir di Franchini è “Benché da molti sia considerata una bella donna, mia madre puzza”. Poi, nelle pagine successive: “la detesto da sempre, da quando la mia vita ha cominciato a staccarsi dalla sua e si è aperta sul mondo, perché ci ho messo poco a capire che il mondo giusto ‒ quel luogo inesistente che i giovani sognano e alcuni adulti idealisti si impegnano a fargli credere che esista ‒ faceva, diceva, pensava tutto ciò che mia madre non faceva, non diceva, non pensava”.
Come si scopre leggendo, Angela è una donna eccessiva, cinica, misantropa. Da subito si intuisce la bravura e l’intelligenza dell’autore nel raccontare l’essenza di una comicità insita nella persona della madre, una comicità che, naturalmente, possiede un fondo tragico. L’andirivieni tra questi due poli ‒ comico e tragico ‒ conferisce al memoir la sua cifra più originale. Attraverso la parola, Franchini restituisce il percorso che lo ha condotto davanti alla “verità letteraria del tremendo” (Cavarero), quella destinata a raccontare il rapporto con sua madre. La prospettiva adottata dal narratore non è limitata alla dimensione privata di un rapporto famigliare ma si apre sino a includere un riferimento a una più generica “figura materna” che si nutre di una linfa socioculturale sgorgata dagli ambienti del Sud Italia. Sarebbe una generalizzazione arbitraria affermare che il materno di cui Franchini dà conto sia quello “tipico del Sud”; eppure, come suggerito dall’autore stesso citando L’abusivo, “certi meccanismi di violenza, di sopraffazione, di amoralità” erano latenti “nelle relazioni private della società meridionale, anche borghese, prima ancora che nella criminalità organizzata”. Sebbene non ci sia una relazione automatica, aggiunge, “io nella mia famiglia, e in qualche altra che frequentavo allora, questo legame lo vedevo”.
La madre raccontata da Franchini, come Niobe del mito, si vanta della propria capacità generativa mostrando senza vergogna “la cicatrice slabbrata” sul suo ventre.
Sia Cavarero sia Franchini, seppur a partire da due prospettive differenti e forse capovolte, parlano di figure materne eccedenti. Una figura di riferimento nel lavoro della filosofa è proprio Niobe, simbolo di una straordinaria potenza generatrice, cioè dell’“iper-maternità” che interessa, in modo diverso, la vitalità esuberante e violenta delle baccanti. Niobe viene punita ‒ tramite l’uccisione dei suoi quattordici figli ‒ per essersi vantata di essere più prolifica di Latona (madre di Apollo e Artemide), incarnando su di sé il modello della madre che si vanta biologicamente della prole.
L’altro modello preso come riferimento da Cavarero sono proprio le Baccanti di Euripide: con l’intento di scovarne i significati che esulano dalla componente misogina, si insiste sull’ebbrezza delle figure femminili, elemento che consente di “oltrepassare la funzione materna di allattare i figli neonati, porgendo le mammelle gonfie” non alla propria prole ma a “cuccioli di animali selvatici”. Ciò che viene celebrato qui, secondo la filosofa, è il grande mito della zoe, ossia il mito di una vita indistruttibile connesso con l’oltrepassamento della vita domestica; si tratta di un eccesso vitale che scavalca il ruolo materno pur veicolando un aspetto tremendo e selvaggio.
A essere chiamata in causa, nei riti dionisiaci (Dioniso è l’altro nome di Bacco), “non è la maternità come procreazione bensì il corpo materno come corpo nutritivo”. Nel mito, spiega Cavarero, la ridondanza della maternità diventa iper-maternità. L’operazione tentata dalla filosofa consiste nel presentare la maternità sia come momento tremendo e buio sia come momento che conferisce alle donne uno statuto unico nella misura in cui la gravidanza si rivela essere una verità essenziale della condizione umana: “tremendo, repulsivo ma allo stesso tempo attrattivo, è l’essere due-in-una nel processo originario dello scindersi e generare”. Attraverso un percorso che nomina l’antropologia, la letteratura e il pensiero femminista, la filosofa intende (di)mostrare la dimensione viscerale della vita, sfidando l’indifferenza della filosofia per il corpo materno. La sfera del nascere, dichiara, “sigilla la complicità delle donne con la natura”.
Ad essere chiamata in causa nei riti dionisiaci “non è la maternità come procreazione bensì il corpo materno come corpo nutritivo”. Nel mito, spiega Cavarero, la ridondanza della maternità diventa iper-maternità.
La comparazione tra i due lavori sembra dare ragione alla stessa Cavarero, la quale, in apertura del suo ragionamento, assume Elena Ferrante come esempio paradigmatico del fatto che “il racconto, il romanzo, la finzione sembrano più adatti a parlare del versante buio della maternità che non il tradizionale lavoro filosofico del concetto”. Come Ferrante dichiara in La frantumaglia, “il compito di una donna che scrive oggi non è fermarsi ai piaceri del corpo gravido, del parto, della cura dei figli, ma andare con verità fino al fondo più buio”. A me sembra che l’operazione di Franchini, nel tentativo di eliminare “la luce emanata dagli stereotipi del materno” (Cavarero), proceda su sentieri simili.
L’effervescenza nutritiva delle baccanti euripidee, nominate da Cavarero, si capovolge, in Franchini, nell’ossessione di Angela per il cibo. Dopo essere stata operata, ad Angela viene concesso dal professor Monaldi, il grande pneumologo che l’ha curata, di mangiare “una frittura di pesce, mettendo con ciò in fila tutte le fisse della sua vita passata e futura: quella per il cibo, e tra i cibi per il pesce, e tra i modi di cucinare il pesce per la frittura”. Per donne come Angela e sua madre, scrive Franchini, “il cibo è tutto, è la necessità e il piacere, l’aspirazione e il sogno, è il terrore mai superato di non averne abbastanza”. E, soprattutto, il cibo è un mezzo per esprimere un affetto che altrimenti non trova esternazione. Probabilmente, aggiunge Franchini, l’altra cosa che potrebbe attirare la sua attenzione è “il sesso, l’istinto per il richiamo dei corpi, per il godimento e la riproduzione”, anche se, talvolta, esso è “esibito come oltraggio, smania orgiastica, furore, oppure occultato come una colpa mai espiata del tutto”.
Il punto culminante delle Baccanti di Euripide è l’uccisione di Penteo da parte di sua madre Agave, la Baccante più posseduta da Dioniso. Accecata dalla furia bacchica, Agave scambia il figlio per un animale selvatico (un leone) e lo smembra con le sue mani. Solo alla fine, quando l’estasi finisce, Agave torna in sé e realizza l’orrore del suo gesto. Anche il protagonismo inconsapevole di Angela offusca e annulla il rapporto con il figlio, che viene metaforicamente mangiato. Questo aspetto si palesa nella logorrea di Angela, che “parla”, “parla di continuo” senza dar valore alle parole altrui; “si siede vicino a me che preparo e parla” (dice che parla perché sta sempre da sola). E ancora: “Nei tranquilli anni in cui eravamo lontani mi chiamava l’alba, non dovevo fare altro che dire ciao, appoggiare la cornetta sul cuscino, continuare a dormire mentre il flusso del suo discorso scorreva come acqua…”.
Nonostante Cavarero eviti in tutti i modi un discorso rassicurante, traspare in filigrana un’idealizzazione del materno. Un rischio che si può eludere proprio andando a interpellare il versante letterario della questione attraverso il testo di Franchini, che sembra partire da un sostrato mitico per poi distanziarsene definitivamente.
Se si volesse tentare di tirare le somme, si potrebbe dire che il fulcro del romanzo è la messa in discussione dell’ideologia della maternità come destino naturale, come istinto. Angela, infatti, possiede “un’anarchia istintiva”. L’abitudine di Angela a dimostrare l’affetto tramite il cibo sembra una reazione al mancato allattamento, fatto interpretato come causa della distanza emotiva tra sé e suo figlio. Ma Franchini critica questo giudizio affermando che lui e sua madre sono così distanti non “perché non mi ha allattato” ma semplicemente per “alterità” o “incomprensione”. Il giudizio di Angela è basato sulla “legge della carne”, secondo cui l’allattamento avrebbe garantito un’instillazione d’affetto più diretta e consentito la creazione di un vincolo d’amore più autentico. Questa convinzione porta immediatamente a considerare quelle retoriche della politica contemporanea che hanno fatto leva proprio su questa legge, sul mantra del “sangue del mio sangue” o sul predominio del bios, occultando tutta la parte più complessa del rapporto madre-figlio: la cura.
Come l’economia capitalistica, anche la famiglia contemporanea è improntata sulla logica dell’eccesso; si tratta di un funzionamento che risponde al “plusmaterno”, come è stato definito da Laura Pigozzi nel libro Mio figlio mi adora (2016): “definiamo plusmaterno la forma in cui la funzione simbolica materna è sostituita da quella simbiotica, in cui un limite è sostituito dalla legge arbitraria della carne”. Non è pertanto sufficiente sottolineare il lato viscerale della vita o della gravidanza. Se “la gravidanza è una soglia tra natura e cultura, la maternità è un ponte tra singolarità ed etica” (Julia Kristeva, Maternità, creatività, amore, 1979).
Del resto, la capacità di verbalizzare l’affetto non è una qualità derivante in automatico dal parto né dall’allattamento: Angela “non è capace di parole, di gesti che manifestino i suoi sentimenti aldilà della loro affermazione. Alla fine la sua tragedia è questa, non essere capace di dimostrare l’amore. E forse è anche la mia”. Sarebbe bello accostare questa frase al pensiero di Luisa Muraro che, in L’ordine simbolico della madre (1991), impersonando il ruolo della figlia, aveva affermato la necessità di uscire dalla trappola di una cultura che, “non insegnandomi ad amare mia madre, mi ha privata anche della forza necessaria a cambiarla”. Nessuno, scrive Franchini adottando una prospettiva simile ma capovolta, si preoccupa del “dimostrare amore nel modo più giusto, cioè dei modi del sentimento”; forse ci si limita a indagare la sua “essenza”, così “gentilezza e tenerezza sembrano l’elemosina, la declinazione degradata delle passioni”.
Come l’economia capitalistica, anche la famiglia contemporanea è improntata sulla logica dell’eccesso; si tratta di un funzionamento che risponde al «plusmaterno», come è stato definito da Laura Pigozzi nel libro Mio figlio mi adora.
Nonostante tutto, il romanzo procede nel tentativo di accettare finalmente la propria madre, riconoscendole, post mortem, un irriducibile anticonformismo che ha garantito una riserva di forza. Più che mai attuale l’idea di Franchini che “il carattere si forma per opposizione ai genitori e chissà se ai nostri figli, abituati a padri e madri comprensivi, disponibili al confronto e a non nascondere le proprie fragilità, non sarà mancato alla fine qualcosa, quel conflitto che li avrebbe resi più duri, più adatti all’esistenza”. Qui si è proposto un discorso attorno a un libro che sprigiona un’ironia intelligente e spiazzante, l’ironia senza la quale non esiste distanza: “e quando i nomi della parentela sono senza ironia, non ci saranno che morti annunciate”, scrive Pigozzi.