Q uesto è un dialogo con l’autrice del saggio Le grandi dimissioni. Il nuovo rifiuto del lavoro e il tempo di riprenderci la vita, Francesca Coin. Un dialogo che non mira a ricostruire il libro né a farne il riassunto, quanto a metterlo a confronto con una prospettiva basata sull’attività sindacale, quella che faccio con Acta e Redacta.
Partiamo dalle fonti statistiche che hai utilizzato. Sono un po’ un mio guilty pleasure, perdonami…
Visto che siamo partite non dai dati ma proprio dalla metodologia, prima di passare a domande – per così dire – “culturalizzanti”, che vertono sui discorsi, le retoriche e le conseguenze che accompagnano il fenomeno delle Grandi Dimissioni come epitome di alcuni movimenti sotterranei nel mondo del lavoro, volevo un attimo insistere su questo direzione più economica, e farti delle domande sui dati veri e propri. Diversi commentatori si sono lanciati a provare a dimostrare che le Grandi Dimissioni hanno dei precedenti, che non sono un unicum, tirando in causa, ad esempio, il tasso di dimissioni al 4% del 2006. Ovvero non le negano ma tentano di forzarle dentro una casistica di normalità, riportandole alla cornice del fenomeno che si verifica quando un contesto macroeconomico ha un certo tipo di andamento…
In generale, nel libro provo a chiedermi in quale modo il fordismo nel corso del secolo scorso sia riuscito a ridurre il turnover volontario nelle fabbriche. Torno, quindi, a quelle forme di retribuzione diretta, indiretta e differita che hanno consentito di rendere il lavoro fedele alle aziende nel corso del secolo scorso. La domanda, a quel punto, diventa cosa ne sia di questa fedeltà al lavoro ora che queste tutele sono state gradualmente smantellate.
Visto che il saggio si compone di una parte di sociologia quantitativa – che abbiamo abbozzato ora – e di una di sociologia qualitativa, volevo chiederti conto di questa seconda modalità di raccolta: testimonianze, interviste, ricerche su Facebook – ecco, volevo approfondire i modi in cui hai raggiunto le persone che ti hanno confessato le proprie storie e che vanno a comporre la sostanza polifonica del libro.
Tra i vari fraintendimenti del fenomeno c’è quello che legge le dimissioni di massa come aventi una sola direzione: l’abbandono del mondo del lavoro.A me però sembra molto chiaro che non ci troviamo davanti a un rifiuto del lavoro, un anti-lavorismo filosofico o il desiderio di un mondo senza lavoro – è un altro tipo di cosa, un altro tipo di scelta, decisamente personale e che non parla delle prospettive future della società. Nelle Grandi Dimissioni si lascia un lavoro, non il lavoro. Mi pare anche che non si tengano in conto, quando si dicono certe cose, i dati sulle ricollocazioni, ad esempio… Quindi similmente al giovane Holden che davanti al lago di Central Park si chiede: “Dove vanno le anatre quando il lago gela?”, ti chiedo: “Dove vanno le persone quando si dimettono?”.
Nella sanità, ad esempio, medici e infermieri si muovono verso l’estero, verso il privato o verso il lavoro autonomo ma spesso restano all’interno dello stesso settore. La ristorazione, invece, ha avuto il livello più basso di “stayers”, persone rimaste all’interno del medesimo settore dopo la pandemia (il 59 per cento), secondo i dati Inps. È consistente, invece, la quota di usciti transitati ad altri settori come il terziario o l’industria. Per rifiuto del lavoro intendiamo, in questi casi, il rifiuto di accettare le condizioni prevalenti in questo settore, che si estrinseca nella difficoltà a trattenere e reclutare personale. È un processo che ha poco a che vedere con il rifiuto del lavoro teorizzato dal movimento operaio negli anni Settanta, e molto a che vedere con il rifiuto dell’idea che un determinato impiego o ruolo sociale sia il proprio destino. Maurizio Lazzarato nel suo bel libro Marcel Duchamp e il rifiuto del lavoro, pubblicato da Temporale nel 2014, racconta bene come, negli anni Settanta, vi fossero due diverse forme di rifiuto del lavoro, tra loro molto diverse. Il femminismo, a differenza del movimento operaio, agiva un rifiuto del lavoro incarnato che non nasceva dalla teoria ma dall’esigenza vitale di disconoscere il ruolo che la società attribuiva alle donne. Ho sempre trovato quest’analisi di Lazzarato molto lucida, e penso ci siano delle analogie con le forme di abbandono anche prepolitiche che esistono oggi.
Secondo me fai scacco matto a questa lettura quando scrivi qualcosa come: “A chi si chiede come fanno ad abbandonare il lavoro se non hanno un piano B e non hanno subito pronta un’alternativa per pagare l’affitto e le bollette si potrebbe rispondere che il problema di questi lavori è come si riescono a pagare l’affitto e bollette pur avendocelo il lavoro?”. Abbandonare la propria stabilità, per quanto sbilenca, è senza dubbio un passo doloroso e lo si fa per ricollocarsi in modo da tornare ad avere controllo del proprio tempo, che è poi un elemento centrale del libro. Mi stupisce come per decenni si sia parlato della fabbrica come del luogo di lavoro alienante per antonomasia e, ad oggi, nella ristorazione ad esempio, chi lascia si ricolloca anche nell’industria, dove i turni sono codificati in modo più limpido, c’è un’organizzazione produttiva diversa, straordinari pagati…
Mi è capitato di parlare con tante persone che sono arrivate stremate, magari hanno accettato un lavoro senza contezza di diritti, hanno mollato in pieno esaurimento, non hanno fatto vertenza ma i loro colleghi sì, però da lì in poi – dalla dimissione – hanno messo un paletto e hanno ripreso in mano una sorta di cassetta degli attrezzi.
Anche sulla cassetta degli attrezzi vorrei tornare dopo, ma per ora tocchiamo uno dei punti per me dolenti: identificazione, disidentificazione, lavoro dei sogni. Cioè, per me siamo ancora pienamente in questo frame concettuale dell’identificazione con il lavoro, non ce lo stiamo proprio lasciando indietro… Con Redacta vediamo bene come l’identificazione valga ancora tantissimo nel lavoro culturale, ed è da anni che stiamo provando a smontare questa insalubre romanticizzazione, non da ultimo con il sondaggio lanciato a luglio e che prova a riportare il lavoro – anche se molto bello, anche se molto appagante per la propria personalità – alle sue unità base: tempo e denaro.
Tuttavia, negli anni il lavoro è stato pagato sempre meno, mentre le richieste di efficienza sono aumentate complici forme diverse di controllo digitale. Nello stesso tempo abbiamo cominciato a essere circondati da crisi: quella del debito in Europa, l’austerità, l’inflazione, la pandemia, la crisi climatica e la guerra. In molti casi tutto questo ha portato a pratiche di disinvestimento: quando viene meno l’idea di futuro sulla cui base avevi costruito te stesso, non è detto che la motivazione a perseguire quello stesso obiettivo rimanga invariata. È qui che secondo me scatta un processo di disidentificazione.
Un tratto comune tra le diverse testimonianze è una specie di calcolo costi-benefici circa cosa il lavoro dà e cosa toglie, in termini di salario ma anche di salute mentale, o in termini di ecologia delle relazioni. Lo stesso sondaggio di Redacta che citi chiede giustamente, e secondo me emblematicamente, se “ne vale la pena”. Tra le persone che ho intervistato emergono domande del tipo: “Se io non facessi più il mio lavoro, cosa potrei fare?”. E ancora, “Se io non facessi più il mio lavoro, cosa potrei guadagnare o perdere?”. E infine, “Se io non facessi più il mio lavoro, il mio valore sarebbe forse diverso?”. Per me questo parla di una relazione dinamica, instabile, in corso di trasformazione.
Rimango un po’ perplessa, non posso negarlo, ma mi sembra che la parola chiave intorno alla quale possiamo incontrarci sia proprio ‘dinamica’; siamo ancora dentro quel frame ma siamo forse anche nel momento storico in cui alcuni dogmi si vengono a mettere in dubbio. Magari non è più “Io sono il mio lavoro” ma di sicuro rimane in vigore “Vorrei poter fare un lavoro che mi appaghi anche a livello identitario”. Mi spiego meglio: non dovremmo amare il nostro lavoro visto che il lavoro non ci ama a sua volta, per dirla à la Sarah Jaffe, ma se è pur che il lavoro è qua per rimanere e noi dobbiamo farlo, magari non mi amerà, però non è meglio farne uno che un po’ mi piaccia, che renda il tempo impiegato meno penoso? Ovviamente questo è un discorso più di matrice filosofica, e sto astraendo dalle reali condizioni di salario, di compensi, di ritmi, di organizzazione.
Ti faccio un esempio a partire dal tuo libro: c’è la storia di Sole che si dimette dal suo lavoro di cassiera e intraprende la carriera per diventare personal trainer. Questa scelta forse la instrada in un percorso con un po’ meno soldi (non possiamo saperlo), però contestualmente la indirizza a una liberazione del proprio tempo, ma più che altro perché quel tempo lavorativo è impiegato in un lavoro più soddisfacente rispetto alle sue aspettative. La sua storia – non per cristallizzarmi ma trattandolo come sintomo di tendenze estese – mi dà un po’ da pensare perché mi dico: okay, la dimissione avviene per questioni concrete, però comunque la parabola di Sole è quella di una persona che cerca di inseguire un sogno, una prospettiva di maggiore aderenza tra sé e il lavoro, e quindi comunque l’identificazione è ancora un vettore forte quando si deve o si può scegliere.
Quello che dicevi prima della cassetta degli attrezzi mi incuriosisce: come forse sai, questo è un altro dei punti per me dolenti perché tu proprio all’inizio del libro scrivi che le Grandi Dimissioni non sono solo un sintomo della crisi dell’organizzazione del lavoro ma anche una crisi della rappresentanza sindacale. A livello empirico – perché non credo che ancora abbiamo gli strumenti per potercene occupare a livello statistico – vorrei capire se hai modo di pensare (la speranza la do per assodata, da parte tua) che la traiettoria di fuoriuscita da un luogo sfruttamento, di burnout, di mobbing, di salari bassi, possa portare a quella che, in modo un po’ goffo, io continuo a chiamare ‘auto-sindacalizzazione’. E, in secondo luogo, per come la vedi tu c’è una traiettoria possibile che parte dal momento di individualità nella dimissione e che si slanci verso il livello collettivo – chiamiamolo così – di organizzare un posto di lavoro?
Se c’è una cosa che ho notato nelle presentazioni che ho fatto è che c’è un bisogno quasi viscerale di parlare di lavoro. Le persone vengono alle presentazioni e parlano di sé, dei loro problemi lavorativi e della loro storia. Forse accade perché nei luoghi deputati di lavoro non si parla più? Mi sembra che il problema principale sia che manca il luogo – i luoghi – in cui avere queste conversazioni: i luoghi di lavoro, polverizzati, saturi di minacce, sono da tempo diventati ostili a questo tipo di conversazione perché da tempo ormai le persone al loro interno si sentono sotto ricatto. Lo dicevate bene nel report sull’audiovisivo a cura di Sergio Bologna e Anna Soru, laddove un intervistato del settore ammetteva “Se protesto, non lavoro più”. Questo “codice non scritto”, come giustamente lo definivate, quasi mafioso, introiettato e pervasivo, è stato sottovalutato negli anni e invece racconta bene come il lavoro per lungo tempo sia stato costretto a convivere con una cultura di punizione e ricatto. Le dimissioni vanno collocate qui, in questo contesto, e per me vanno interpretate come un messaggio al datore di lavoro che dice che in un modo o nell’altro questo ricatto non è più accettabile. In che luogo le persone possono incontrarsi per mettere a nudo l’illegittimità di questo codice non scritto? Questa è l’urgenza: creare questo spazio, l’unico che può rendere agibile quella traiettoria.
Una volta terminata l’intervista, io e Francesca prendiamo la macchina per andare alla presentazione della tappa perugina. C’è davvero tanta gente, nonostante siamo a metà luglio e la città sia carica di un’afa invalidante. Vengono fatte molte domande, si percepisce una certa elettricità tra gli astanti. Chissà cos’è.
Guardo questo avvicendarsi di persone che si dirigono incerte ma impazienti verso l’autrice, e poi lo riguardo con in testa quello che mi ha detto poc’anzi: la presentazione è un luogo e un tempo in cui le persone si sentono a loro agio nel parlare di lavoro. Forse è vero che possiamo solo scegliere di sperare che tra questi rivoli, a un certo punto, qualcuno si giri e chieda a un altro: “E tu come stai?”.