B ologna, 2011, ex cinema Arcobaleno occupato. È in corso uno degli ultimi incontri di Santa Insolvenza e sono seduta con due amici esattamente dove non siamo mai riusciti a sederci quando cercavamo di utilizzare il cinema come cinema: in platea, nelle file centrali con lo spazio davanti libero per poter allungare comodamente le gambe. C’è da dire che l’incontro su Santa Insolvenza segue piuttosto le dinamiche logistiche delle assemblee dei movimenti sociali o di partito, dove quelli che contano sono equamente distribuiti in piedi davanti (in questo caso, allo schermo) e fuori a fumare. In effetti, ci sono “tutti”: qualcuno dei Giovani Comunisti, gli attivisti del centro sociale anarchico, quelli del centro sociale Bartleby, molti volti noti dal Comitato per l’acqua Pubblica. Nel 2011 le assemblee sono ancora straordinariamente partecipate, soprattutto se il metro di confronto è il 2019, in cui riempire una piazza è difficile anche col richiamo di grandi nomi e qualsiasi riunione politica sembra piuttosto una chiacchierata fra amici un po’ sospettosi.
Nel 2011, i segni di scontento sociale sono ancora una miccia per collettivizzare e organizzare il dissenso, un modo di costruire una rete di modi di pensare e sentire affine, ed è con questo spirito che noi, che siamo ancora i giovanissimi del movimento, partecipiamo alle riunioni. Bauman è ancora vivo, e lo slogan di riferimento è “Pensare globale agire locale”. Ad esempio, a Bologna c’è appunto Santa Insolvenza, che prende le fila dal movimento nazionale San Precario. Il progetto non è solo la costruzione di un nuovo soggetto lavorativo consapevole e collettivo, ma far sì che la sua esistenza venga rappresentata e documentata. Rendere impossibile ignorare la fatica e il dramma quotidiano di chi non ha nemmeno le garanzie dell’operaio degli anni Sessanta. Le assemblee sono gremite di gente dedita a quelli che qualcuno definisce “lavoretti” ma che in realtà sono lavori di tutto rispetto pagati male: molti baristi, alcuni camerieri, babysitter, commessi part-time, assistenti di laboratorio. Molti di noi sono già alla fase della negoziazione della propria identità lavorativa: in attesa di un lavoro per cui si è qualificati svolgiamo altre mansioni, teoricamente più umili, per accorgerci che per vivere non bastano nemmeno quelle, e che comunque non ci soddisfano.
A distanza di meno di dieci anni, non si parla più di San Precario, e pochi si ricordano di Santa Insolvenza. Abbiamo smesso di essere precari insoddisfatti? Le nostre istanze sono state accolte? Niente di tutto ciò. Semplicemente, a un certo punto, i movimenti dei precari hanno smesso di far parte del dibattito pubblico. E questo non ci dovrebbe sorprendere: nella misura in cui con dibattito pubblico si intende la produzione di contenuti, di un vademecum pratico sui diritti che vada oltre le speculazioni momentanee dettate dal malessere collettivo, per esistere in questo senso è necessario disporre di tempo libero. Proprio la precarietà, che avrebbe dovuto innescare una resistenza politica e culturale, ha decretato la fine di tutto: nessuno può più permettersi di perdere tempo per qualcosa di collettivo. Nessuno è più pienamente padrone del suo tempo. Nessuno stacca più davvero dal lavoro, perché da un momento all’altro potrebbe essere rimpiazzato da qualcun altro, probabilmente più giovane e produttivo, o magari semplicemente più disperato. Il tempo davvero libero, per i precari, non esiste più: è stato smantellato dalle riforme del lavoro che attraversano gli ultimi dieci anni e che vedono la punta dell’iceberg nel Jobs Act del 2015.
Prima del Jobs Act c’era ancora un po’ di tempo che si potesse percepire come collettivo e da organizzare: la modalità organizzativa orizzontalista di Santa Insolvenza e di San Precario nel 2011, l’assemblea aperta a tutti, mostra il retaggio culturale e politico di chi lo compone. Lo spettro politico dei partecipanti va dall’area disobbediente a quella autonoma libertaria, da quella marxista ortodossa al riformismo moderato, e ancora non risente davvero dei contrasti e della lotta per l’egemonia interna ai movimenti. In un’ottica orizzontalista, la trasformazione della società va operata cambiando il mondo dal basso, senza prendere il potere e facendo leva sulle affinità dei gruppi che la compongono. San Precario è il risultato dell’unione delle forze di chi lavora per un sottosalario, di chi soffre le conseguenze di un reddito intermittente e di chi è preoccupato per il futuro, con un’ostilità di base nei confronti delle strutture gerarchiche tipiche della politica rappresentativa. Non a caso è malvisto dalla CGIL, che aveva cercato di fornire una risposta istituzionale al problema del lavoro precario fondando un’apposita sezione per i precari, la Niidil (Nuove Identità di Lavoro), vista dai diretti interessati come una contraddizione in termini, se non come una vera e propria beffa.
A distanza di meno di dieci anni, non si parla più di San Precario. Abbiamo smesso di essere precari insoddisfatti? Le nostre istanze sono state accolte? Niente di tutto ciò.
Quando viene fondato San Precario, ci si interroga su quali debbano essere le pratiche di sovversione da attuare in nome di un’organizzazione del lavoro più equa, attenta a non lasciare nessuno indietro. Si punta su una grande scommessa, che solo dieci anni dopo non sarebbe più possibile: mantenere armonia e interazione fra aree politiche con una visione molto diversa fra loro su quale debba essere (e se, in fondo, sia possibile) il dialogo con le istituzioni. La base ideologica di San Precario è quella dell’autonomia milanese – uno spezzone anarchico d’ispirazione malatestiana –, ma il modo orizzontale in cui è costituita l’organizzazione riesce, almeno all’inizio, a far sì che sia possibile oltrepassare il semplice richiamo politico identitario.
Si stabiliscono i limiti irrinunciabili per “volere il pane ma anche le rose”, vengono stilati i cinque punti (“assi”) della precarietà: reddito, casa, diritto alla sessualità, mobilità e diritto alla condivisione. In particolare, l’idea di condivisione è il cardine dell’operazione San Precario, che punta sulla collettivizzazione di storie e saperi per riproporre un fronte unito sul modello della precedente classe operaia. Se nella politica ufficiale si riesce ancora a parlare di coalizione elettorale, grazie alla condivisione dei singoli lavoratori e dei loro obiettivi comuni, la politica extraparlamentare riesce a costruire senza grossi intoppi una rete di emergenza contro l’austerity, e la precarietà.
La condivisione delle esperienze dei singoli diventa la chiave per costruire la consapevolezza della necessità di un nuovo stato sociale, che metta in condizione chi è in cerca di lavoro di rifiutare quegli incarichi che, ad esempio, non prevedono malattie, maternità o che, semplicemente, sono pagati troppo male. La precarietà merita di essere analizzata ex novo, perché sradica il concetto stesso di lavoro, ridotto a una disperata lotta contro la disoccupazione da parte dei singoli precari. E sono proprio i singoli, grazie al racconto delle condizioni comuni, gli unici soggetti in grado di trascendere le differenze e le appartenenze politiche e creare una nuova organizzazione del dissenso alla precarietà che unisce disobbedienti, autonomi e simpatizzanti.
Nel discorso capitalista, la precarietà non è un argomento come gli altri, perché è contemporaneamente accumulazione di forza lavoro e sfruttamento della stessa: è necessario spezzare l’intero meccanismo e non solo interrompere l’accumulazione per evitare che lo sfruttamento prosegua indisturbato. Se la condivisione è l’idea cardine, il ruolo della comunicazione è centrale in questo modo di intendere la lotta alla precarietà, dove l’irriverenza e l’ironia sono le chiavi per esorcizzare il potere, ripensandolo e ridistribuendolo fino a renderlo meno spaventoso. Ne è un esempio il santino che raffigura l’icona-San Precario, versione farsesca dei protagonisti di parabole e martirii. San Precario è grassoccio, come se cercasse conforto dallo stress nel cibo spazzatura, indossa una maglietta che ricorda quella di una Polisportiva popolare come per ricordare che dovrebbe esistere un diritto al tempo libero, che si può condividere con gli altri qualcosa fuori dal lavoro. Ha le mani giunte e un’espressione insofferente, a metà strada fra la fatica quotidiana e il risentimento per il progressivo depauperamento di un’intera generazione, che deve cercare il suo riscatto in un nuovo modo di intendere il collante sociale. Il collante sociale, però va costruito, pubblicizzato, reso solido dalla popolarità. La regola d’oro della comunicazione politica è spiccare, fare in modo di dettare l’agenda. Se si parla di quello che si vede, la parola chiave deve essere visibilità, anche in un contesto di politica antagonista. La mediatizzazione dell’operazione San Precario è evidente ed è un’arma a doppio taglio: è frequente trovarne attivisti in televisione, presentati come antagonisti estremisti poco seri, che per giunta non dicono tutta la verità e vanno presi con le pinze.
Il lavoro è ridotto a una disperata lotta contro la disoccupazione da parte dei singoli precari. E sono i singoli, grazie al racconto delle condizioni comuni, gli unici soggetti in grado di creare una nuova organizzazione del dissenso.
In nome della visibilità gli attivisti di San Precario lavorano per essere presenti in ogni occasione in cui proliferi il lavoro precario, che spesso è in nero, quando non direttamente volontario (ovvero gratuito). Le fiere, fra montatori, commessi, camerieri, baristi e impiegati a vario titolo, hanno diritto a una menzione d’onore. Ad esempio, ecco una squadra di attivisti a denunciare come non funziona l’editoria per i redattori precari al Salone del Libro di Torino 2011. Chi difende lo status quo è infastidito e viene ripreso mentre stacca i volantini, scuote la testa infastidito davanti ai manifestanti vestiti di fucsia. Il Salone del Libro, come tutti gli eventi fieristici, prolifera di lavoro precario: montatori e smontatori, hostess e stewards, elettricisti, falegnami, centralinisti, addetti alla ristorazione. Come tutti gli eventi fieristici, prolifera anche di chi, in un giorno di riposo, di lavoro precario non vuole sentire parlare, pur facendo parte di quelli che avrebbero tutte le ragioni del mondo di alzare la voce e di unirsi alla protesta.
Nonostante la composizione innegabilmente eterogenea di San Precario sia un segno palese della direzione che sta prendendo l’intero mercato del lavoro italiano, gli occhi al cielo del pubblico denunciano gli attivisti come esagitati rumorosi che stanno esagerando, che tirano fuori parole obsolete e sgradevoli come “sciopero”, “classe” e “protesta”. Eppure, la precarizzazione del lavoro non è un’opinione: l’ineluttabile smantellamento dell’articolo 18, l’equazione “minore sicurezza uguale maggiore flessibilità ed efficienza” portata come argomento incontestabile a chi denuncia l’incertezza lavorativa, i licenziamenti senza reintegro, i sempre più diffusi stage non pagati dimostrano che qualcosa, in effetti, non va. Perché chi cerca di denunciarlo viene sminuito, ridicolizzato e allontanato?
La risposta più popolare da parte di chi difende la flessibilità riguarda la necessità di svecchiare il mercato del lavoro, reo di permettere a tanti ignavi di parcheggiarsi felicemente in un comodo posto fisso, da cui è impossibili venir cacciati, anche se lo si merita. In quest’ottica, gli attivisti di San Precario difendono i pigri e contribuiscono a immobilizzare una situazione ingiusta, dove pochi meritevoli trainano il giogo della società, appesantito da nullafacenti giustamente poveri. Il lavoro va meritato, dichiara Elsa Fornero al Wall Street Journal, sottolineando che per un mondo lavorativo funzionante è necessario il sacrificio, la fatica, la flessibilità.
Tuttavia, se alla flessibilità non segue una riforma perpendicolare sugli ammortizzatori sociali, una situazione di lavoro flessibile è a tutti gli effetti una situazione di lavoro precaria, caratterizzata dalla frammentazione del gruppo sociale che la vive. I lavoratori soggetti alla legge Biagi del 2003 godono di un accantonamento pensionistico nettamente inferiore di quello dei loro colleghi con contratti tipici, indeterminati. I lavoratori soggetti alla legge Fornero del 2011 hanno diritto al reintegro sul posto di lavoro solo se sono in grado di dimostrare l’illegittimità del licenziamento. I lavoratori soggetti al Job’s Act del 2015 sono soggetti al demansionamento – ovvero finiscono a svolgere mansioni diverse e generalmente più umili e più faticose di quelle per cui erano originariamente stati assunti.
Il lavoro va meritato, dichiara Elsa Fornero, sottolineando che per un mondo lavorativo funzionante è necessario il sacrificio, la fatica, la flessibilità.
Il problema della percezione di San Precario nasce dal fatto di non essere ascrivibile a una rassicurante visione dicotomica servi/padroni. Se è vero che la politica è una precisa scelta di campo, l’appartenenza di classe è solo uno degli indicatori che la influenzano e, probabilmente, nemmeno il più rilevante. Non sono solo le imprese o le istituzioni a raccontare San Precario come un gruppo di disturbatori poco credibili, questa è la descrizione fornita anche dai lavoratori che non si sentono rappresentati dagli attivisti, o che hanno paura delle conseguenze e delle ripercussioni di un’eventuale protesta. L’unità della classe precaria risente della rappresentazione del conflitto: se non prendere posizione equivale al riservarsi il diritto di coltivare un dubbio, a essere pensatori indipendenti che non fanno parte del “gregge”, chi vuole figurare come “pecora”? Con chi schierarsi sembrerebbe una questione semplice: chi sta pagando le conseguenze della crisi economica? Chi ha davvero qualcosa da perdere se viene problematizzata la flessibilità? Eppure, come scrivevano i Wu Ming, il divisorio non è tanto una questione di appartenenza ideale, quanto fra chi afferma di rappresentare tutta la società negando che le divisioni esistono, e chi riconosce il conflitto come endemico ed inevitabile.
Come fronteggiare una situazione sempre più critica, in cui aumentano i gradi di precarietà e si fa sempre più fatica a stare a galla? Come far fronte, da precari, ai tempi stretti della militanza?Una volta venuta meno la necessaria unità in nome di comuni interessi materiali, la frammentazione della classe operaia e dei tradizionali gruppi di resistenza ha soppresso la possibilità di un noi collettivo. L’unità concettuale deve la sua ragione d’essere a un motivo comune, necessariamente politico: a far identificare il precario deve essere un sentimento d’appartenenza, più che una precisa collocazione economica. Per fronteggiare il conflitto serve una narrazione comune, che si rivolga ai precari e li convinca a prendere attivamente posizione, prima che la situazione diventi incapovolgibile. Eppure, gli altri sono sempre in condizioni lavorative diverse, in situazioni talmente frammentate da trovare a fatica un punto d’incontro nella comune precarietà. La tendenza all’unificazione è sempre stata un fenomeno limitato. Come osservano Nick Srnicek e Alex Williams in Inventare il futuro, “l’ideale dell’unità dei lavoratori è sempre stata più un’aspirazione ideale che una realtà, poiché fin dalle origini il proletariato ha conosciuto divisioni interne”: basti pensare a quella fra lavoratori salariati maschi e lavoratrici non retribuite perché addette al lavoro domestico di riproduzione.
Mostrato all’opinione pubblica come un buffo agglomerato di urlatori da piazza vestiti come studenti fuori-sede poco eleganti, senza entrare nel merito di cosa significhi la lotta alla precarietà, San Precario viene gradualmente escluso dalla narrazione collettiva. Le storie dei precari, che gli attivisti cercano di spingere alla ribalta con i Quaderni di San Precario, vengono oscurate dal racconto di grandi gesta individuali di individui positivi che, per usare le parole della Fornero, meritano il lavoro. Sui giornali fioriscono storie strappalacrime di lavoratori che cedono le loro ferie a colleghi malati che hanno esaurito i permessi, di donne in grado di farsi assumere nonostante lo stato di maternità: storie che parlano di produttività, performatività, dedizione quasi religiosa. Che il mondo del lavoro, ormai, non lasci altre possibilità, è un assioma che viene taciuto a favore di una guerra di tutti contro tutti, dettata dal ricatto più pressante: quello economico.
Sui giornali fioriscono storie che parlano di produttività, performatività, dedizione quasi religiosa.
Non è un caso che fra le iniziative di San Precario spiccasse YesWeCash, una campagna per un “reddito garantito, minimo, diretto, sganciato dalla prestazione lavorativa, universale, singola e non su base familiare”, in grado di permettere a tutti gli individui una vita dignitosa. Il reddito minimo non è il reddito di cittadinanza promosso nel 2017 dal Movimento Cinque Stelle, che viene proposto in una prospettiva lavorista solo a una particolare fascia di reddito e in presenza di date condizioni di nascita, a cittadini dell’Unione Europea con un ISEE inferiore ai 9360 euro. YesWeCash è forse la campagna che meglio esprime lo spirito di San Precario e il motivo per cui a un certo punto ha smesso di esistere. “Il reddito che voi immaginate MINIMO e PER SOSTENERE LA LIBERTA’ DI LICENZIARCI, noi lo vogliamo DI BASE, UNIVERSALE E INCONDIZIONATO, lavoro o non lavoro, per sostenere la libertà di scelta sulle nostre vite” recita la lettera aperta a Elsa Fornero, quando il reddito minimo viene proposto e approvato dalla Regione Lazio. Scegliere di vedere e di rappresentare l’economia come una conseguenza della politica e non il contrario significa operare un rovesciamento di tutti i rapporti di forza esistenti. La proposta di un reddito minimo universale e indiscriminato è il tentativo di creare un immaginario in grado di capovolgere l’attitudine verso il lavoro e la qualità della vita, finalmente priva di preoccupazioni che concernono la sussistenza. È all’interno di una rivendicazione politica che i diversi movimenti che mirano alla giustizia sociale e all’emancipazione possono sentirsi rappresentati, nonostante le differenze.
Come scrive Sandro Gobetti, la necessità è quella di “rompere quel meccanismo di ricattabilità al quale è sottoposto il lavoratore disoccupato e precario, che in assenza di garanzie economiche è costretto ad accettare qualsiasi lavoro”. Il reddito minimo ideato da San Precario non costruisce solo uno strumento di assistenza alle persone in difficoltà lavorativa, legato alla crisi, ma promuove l’idea di un diritto economico incondizionato, una base reddituale come ampliamento delle opportunità, in grado di ridefinire i contorni dell’autonomia dei soggetti sociali.
Il clima di incertezza crescente, che si nutre delle differenze fra le correnti politiche della rete dei precari, ha il suo culmine nella manifestazione del 15 ottobre 2011 a Roma, la cosiddetta giornata degli Indignados, dove qualcuno invoca la candidatura di Nichi Vendola come portavoce ufficiale e istituzionale delle istanze precarie, agli antipodi con chi crede in un’occupazione di piazza senza derive partitiche. La protesta culmina in quella che Franco Bifo Berardi descrive come una violenza indesiderata, ma di cui è necessario prendere atto, con alcuni manifestanti in modalità black bloc in Piazza San Giovanni e la dispersione di tutti gli altri in giro per il centro storico.
La precarietà finisce per incidere e plasmare non soltanto la cultura del lavoro, ma anche la cultura della lotta politica, che viene rappresentata come legittima e positiva solo quando è istituzionalizzabile.
Dopo il fallimento del 15 ottobre, San Precario si scioglie. Chi ne faceva parte, demotivato, non ha più le forze e l’energia di cercare di portare avanti un progetto che si è dimostrato, se non proprio fallimentare, almeno fallibile. Quella che si pensava fosse una rete si spacca sul principale punto critico, il dialogo con le istituzioni. Se per qualcuno l’unico modo di fare una politica che incida risiede nel chiedere legittimità e rappresentanza a un partito, per altri è una contraddizione in termini, una forma di sudditanza al potere che combattono. Ed è a questi ultimi che viene imputata, tanto dai media mainstream quanto dai loro ex compagni, la protesta cattiva, violenta, inadatta alle famiglie, in un quadro d’insieme che rende perfettamente l’idea di quanto abissale sia lo scarto fra il mondo della militanza e il racconto di quel mondo.
Da un lato abbiamo i manifestanti buoni, che vogliono solo marciare in pace nella luce del primo pomeriggio, con una strategia narrata come la non violenza di Gandhi e ragionevolezza necessaria a fare l’unica cosa sensata: scendere a patti col potere e trovare uno spazio nello democrazia rappresentativa che sì, contestano, ma educatamente. Dall’altro ci sono gli anarchici: brutti, sporchi, violenti, mascherati e vestiti di nero; sono solo dei ragazzini viziati e che vogliono giocare alla rivoluzione mettendo a ferro e fuoco le rispettabili attività della gente che lavora. Che il punto in questione sia proprio il mondo del lavoro e che il senso di una manifestazione contro la precarietà sia quello di creare disturbo e di essere visibili in una maniera non necessariamente addomesticata, viene dimenticato in favore della narrazione scandalizzata di cassonetti in fiamme e vetrine infrante. Non ci può permettere di essere additati come disturbatori, dopo Genova è evidente come possono andare a finire le occupazioni – anche quelle pacifiche – e lo sgombero della Val Susa di pochi mesi prima, con arresti e condanne che contemplano fino a dodici anni di carcere, ha dimostrato che il carcere per chi manifesta il dissenso è una prospettiva fin troppo concreta.
La precarietà finisce per incidere e plasmare non soltanto la cultura del lavoro, ma anche la cultura della lotta politica, che viene rappresentata come legittima e positiva solo quando è istituzionalizzabile: un paradosso per un movimento basato precisamente sull’assenza di rappresentazione che lamentava. Nella spettacolarizzata dicotomia protesta buona/protesta cattiva viene disinnescata la lotta in toto, perché svuotata del suo senso politico e resa una sorta di spettacolo per coalizzare gli abitanti del centro (sia nel senso di centro urbano che politico) per lo status quo. La narrazione dei “black bloc cattivi che spaccano le vetrine” è un esempio di come, periodicamente, informazioni parziali o faziose vengano usate contro precari e contro chi cerca di creare una sorta di unità culturale di classe. Non è quindi colpa sua se, in una fase politica in cui il conflitto sociale esiste, ma non è percepito, San Precario non riesce ad agire come agente catalizzatore di scontento e rabbia, ed è destinato a scomparire, intrappolato in una precarietà che finisce per diventare esistenziale.