I l 2017 è stato un anno di profondo cambiamento per YouTube. E non parliamo del nuovo logo, quanto della trasformazione che ha attraversato l’idea stessa del sito, del suo ruolo all’interno di Alphabet, la holding che contiene Google e tutte le sue propaggini. Alcuni di questi cambiamenti sono stati determinati da eventi esogeni, come l’ascesa di Facebook nel settore video: il social network, forte dei suoi due miliardi di utenti, spinge da tempo qualsiasi contenuto video, incentivando sempre più utenti a utilizzare la propria piattaforma piuttosto che il servizio. Altri stravolgimenti, invece, hanno avuto a che fare con il nazismo e Pewdiepie.
Lo scorso settembre Felix Kjellberg, svedese di 27 anni, conosciuto su internet come Pewdiepie e per essere l’utente YouTube con più iscritti al mondo, ha pubblicato un video che ha fatto scandalo. Il tutto iniziava come un esperimento ironico attorno a Fiverr, un sito che permette di trovare freelancer disposti a realizzare un logo per pochi dollari, per esempio. Insomma, una piattaforma in cui è possibile trovare grande disponibilità in cambio di pochi soldi. Per dimostrare l’assurdità del tutto, Kjellberg decise di pagare due ragazzi per mostrare alla telecamera un cartello con su scritto “Death to jews”, “Morte agli ebrei”.
Il video fece ovviamente scalpore ma pochi giorni dopo un’inchiesta del Wall Street Journal scovò contenuti anti-semitici o razzisti in altri nove video recenti dello youtuber, dando inizio a una grande crisi per lo status quo di Youtube. Le prime conseguenze si limitarono a toccare lo svedese, che perse prestigiosi contratti pubblicitari (tra cui quello con una casa di produzione di proprietà della Disney) e si vide cancellare la serie che produceva per il servizio a pagamento YouTube Red, Scare Pewdiepie. Seguirono quindi le sue scuse, per quanto piuttosto strane, contenute in un video in cui il ragazzo tenta di giustificare la sua decisione pur accettando le critiche, per concludere con un messaggio ostile nei confronti del Wall Street Journal, qui inquadrato come scampolo di “old media” in missione per distruggere il nuovo che avanza.
Il caso Pewdiepie è stato però solo l’inizio. La seconda ondata di reazioni è andata invece a colpire la community in generale, scatenando quella che è stata definita la Adpocalypse di YouTube, con una crasi tra advertising a apocalypse. Il caso Pewdiepie ha portato alla luce il principale problema del modello pubblicitario di YouTube: l’assenza di controllo da parte degli inserzionisti, i quali possono usare il sito per raggiungere un certo audience, ma non possono scegliere di accostarsi a un determinato canale o artista. Si tratta di un’enorme differenza rispetto al mercato televisivo o della stampa, in cui gli inserzionisti possono affiliarsi facilmente a trasmissioni o testate che ritengono in linea con la loro immagine, evitando invece altri ambienti “tossici”. Ora torniamo a Pewdiepie, il canale con più iscritti al mondo, noto a milioni di ragazzini e di genitori, che negli anni hanno deciso di “fidarsi” del ventisettenne. Qualsiasi brand vorrebbe comparire nei suoi video, giusto? Certo che sì; almeno fino a quando non vengono alla luce le sue “ironiche” allusioni a Hitler e l’Olocausto. A quel punto qualsiasi inserzionista è legittimato a domandarsi a quali altre cose orrende il loro brand è stato affiancato.
Negli ultimi mesi il termine “monetizzazione” è diventato l’incubo di molti creativi di YouTube: è l’ago della bilancia con cui il sito decide se un video potrà contenere pubblicità oppure no.
Ecco il perché della grande fuga dei maggiori inserzionisti dalla piattaforma (nomi come AT&T, Verizon, GSK, Pepsi, Walmart e Johnson & Johnson) che ha spinto Youtube e Google a contrattare un loro ritorno. Il prezzo per la tregua tra i brand in questione e il servizio di video si è però rivelato molto alto: non solo per Pewdiepie ma per tutti gli youtuber.
Negli ultimi mesi il termine “monetizzazione” è diventato l’incubo di molti creativi della piattaforma: è l’ago della bilancia con cui il sito decide se un video potrà contenere pubblicità – e quindi creare profitto – oppure no. Nella prima metà del 2017 l’Adpocalypse è stato l’argomento più dibattuto nella community di YouTube, una minaccia al modello di business di molti youtuber. A preoccupare non è il fatto che il sito possa muovere le leve economiche, quanto il criterio con cui lo può fare. La logica della difesa dei brand, infatti, spinge YouTube a far diminuire i profitti di tutti i contenuti “sensibili”, ovvero quelli che parlano di problemi politici e sociali. Le opinioni forti, potremmo dire.
L’utilizzo di questa lente rischia però di livellare le enormi differenze tra un video “politico” e una clip con contenuti nazisti, prodotti separati da sfumature che gli algoritmi non sono in grado di cogliere. A finire nel tritacarne, poi, sono stati infatti alcuni canali impegnati nel settore LGBT, oltre a molti nomi grossi dell’alt-right. Ecco perché l’Adpocalypse è ben più di un problema per Alphabet e può essere vista come una forma – indiretta – di censura politica. Oltre a Gaby Dunn, giovane icona per i diritti gay, Infowars e Breitbart (tre nomi davvero distanti l’uno dall’altro), a confermarlo è stato Philip DeFranco, un vlogger che da anni tiene il quotidiano DeFranco Show sul suo canale, e che ha reagito al giro di vite inaugurando la DeFranco Elite, un piano con cui i suoi utenti possono finanziare direttamente e mensilmente il suo progetto, in modo da circumnavigare le mosse di YouTube. L’Elite ha avuto un enorme successo ma è il genere di mossa che solo un nome come il suo può permettersi: che significa quindi questo nuovo corso di YouTube per i nuovi arrivati, gli esordienti, le persone che hanno bisogno di un minimo ritorno economico per cominciare?
“Violenza, porno, droghe e odio”
Il problema politico rimane, comunque, ed è preoccupante perché quella inaugurata da YouTube sembra essere una tendenza a cui Facebook si è già adeguata. Dopo aver passato gli ultimi anni a “spingere” i contenuti video all’interno della piattaforma, creando pagine in grado di macinare milioni di visualizzazioni al mese, Facebook sta invadendo il campo di YouTube permettendo agli utenti di monetizzare i loro contenuti. Ciò porta con sé due problemi: innanzitutto quello dei diritti, visto che per aumentare il proprio peso nel settore dei video online, Facebook non ha fatto nulla per colpire chi ruba contenuti altrui e li ripropone nella propria pagina. Risultato? Il social network è una terra senza padroni in cui il furto e il plagio sono più che tollerati. Il secondo problema è che anche il social network di Mark Zuckerberg ha annunciato che non monetizzerà contenuti contenenti “violenza, porno, droghe e odio”.
Quella inaugurata da YouTube sembra essere una tendenza a cui Facebook si è già adeguata: anche il social sta permettendo agli utenti di monetizzare i loro contenuti.
Sono parole grosse, tutte vagamente negative: chi non vorrebbe escludere dalla propria piattaforma “violenza, porno, droghe e odio”? È scavando nel regolamento interno che comprendiamo il vero significato di questi termini e, tra le categorie escluse dalla monetizzazione, scoviamo virgolettati come: “tragedia e conflitto” e “contenuto che è incendiario e infiammatorio”. La critica sociale e politica, la satira e in generale le opinioni forti sembrano essere quindi le prime a venire cassate anche su Facebook.
Dopo mesi di polemiche e richieste di chiarimento cadute nel vuoto, l’Adpocalypse sembra essere rientrata: sono stati fatti dei miglioramenti ai meccanismi della demonetizzazione, certo, ma il timore è che la sua esistenza sia già stata accettata. YouTube è già cambiato, e con esso i suoi creatori e il suo pubblico: il piano sta funzionando, gli investitori sono tornati.
Il feed
Anche il design sembra confermare l’idea della profonda trasformazione avvenuta a YouTube in pochi mesi. Al di là del nuovo logo svelato recentemente, il sito sta cambiando profondamente: prendiamo il feed, per esempio, che si è trasformato da una collezione di video provenienti dai canali a cui si è iscritti a una selezione di contenuti sulla base delle preferenze dell’utente. Attenzione a queste ultime parole, che nascondono lo zampino dell’algoritmo. L’affiliazione a un canale, l’iscrizione, ha meno peso se un algoritmo scova clip da tutta la piattaforma e le consiglia all’utente. Secondo un articolo di The Verge sull’evoluzione del feed del sito, è stato l’utilizzo di Google Brain, la sezione del gigante dedicata all’intelligenza artificiale, a consentire questa trasformazione:
I canali non dominano YouTube come un tempo. Aprite YouTube nel vostro telefono oggi e li troverete nascosti in una tab a sé stante. Al loro posto l’app vi mostra un feed con un misto di video basati sui vostri interessi. Ci sono video provenienti dai canali a cui siete iscritti, certo, ma ce ne sono anche di collegati ad altri video che avete guardato, provenienti da canali che non conoscete.
Dopo un 2017 simile, è evidente come lo status quo di YouTube sia ancora troppo fragile per sostenere un altro scandalo; ed è un problema, visto che la piattaforma è una miniera di questo genere di cose (youtube drama, lo chiamano gli addetti ai lavori). Lo scorso settembre, Pewdiepie, che nel frattempo aveva condannato apertamente i neo-nazisti dopo i fatti di Charlottesville, stava facendo una diretta streaming nella quale giocava contro altri utenti. Nel mezzo della partita, ha gridato a un altro giocatore la “n-word”, il famigerato insulto razzista contro le persone di colore: così, davanti a migliaia di spettatori e a pochi mesi dalla bagarre sull’Olocausto.
Questa volta la reazione degli altri youtuber è stata differente, lontana dalla solidarietà di settore dimostrata a febbraio: in molti hanno accusato lo svedese e sottolineato come il suo comportamento metta in pericolo la tenuta economica di migliaia di professionisti. Sean Vanaman, per esempio, il co-fondatore di Campo Santo, un produttore di videogiochi, è stato il più duro contro Kjellberg, chiedendogli di togliere tutti i video in cui aveva giocato a giochi prodotti dalla sua azienda, per non ledere l’immagine della stessa.
A fine settembre, infine, è giunto l’ultimo cambiamento della piattaforma, che questa volta sembra voler colpire deliberatamente gli autori minori, gli ultimi arrivati. Una caratteristica classica dei video di YouTube sono le “card” finali, dei quadrati che gli utenti possono cliccare per aprire altre pagine: possono essere link interni a YouTube ed esterni, e quindi portare a un sito di merchandising, una pagina Facebook, una di Patreon. Ebbene, tali link esterni sembrano non funzionare più, come denunciato da molti youtuber, poiché nel futuro a breve termine il sito chiederà agli utenti di entrare a far parte di un programma chiamato “YouTube Partner”, con cui sarà possibile far rispettare le regole e monitorare le attività degli youtuber. L’obiettivo è di tutelare il pubblico da link malevoli ma in questo modo si toglie ai canali minori un’utile forma di guadagno non pubblicitaria.
Cosa sta succedendo, quindi? Si tratta di una vendetta nei confronti di siti come Patreon, sempre più diffusi tra i creatori di video? Oppure, più realisticamente, è l’ennesima tappa della strada di YouTube verso il mainstream: quello vero, istituzionale. Per farlo, però, deve diventare un’alternativa credibile alla televisione, un settore pesantemente regolamentato in cui le sorprese sono poche e gli investimenti massicci. Per diventare la “nuova tv” YouTube è disposta a perdere – o indebolire – quell’anima casereccia, sperimentatrice e incontrollabile che l’ha reso quello che è oggi, una palestra in cui chiunque può provarci, facendo qualche soldo. Appena un anno fa, un aspirante youtuber poteva ancora pensare di avere YouTube dalla sua parte; oggi, a fine 2017, le cose sembrano essere cambiate per sempre.