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oc. È il suono dello zoccolo di Hans: il cavallo capace di contare, riconoscere le carte da gioco e persino leggere nel pensiero. Ha appena poggiato la zampa su un cartellino con il numero “quattro” disegnato in superficie, il risultato corretto di una sottrazione. Siamo nei primi anni del Novecento e una commissione di scienziati è riunita a casa di Wilhelm von Osten, insegnante di matematica in pensione di Berlino, per verificare che le prodigiose abilità di Hans, il suo cavallo, non siano una frode. E tali non sembrano: sa risolvere calcoli, riconoscere forme geometriche e indovinare a quale numero sta pensando un umano di fronte a lui. Eppure il biologo e psicologo Oskar Pfungst non è convinto e ripropone all’animale i test, questa volta con alcune modifiche: gli sperimentatori non dovranno conoscere le risposte ai quesiti posti o non dovranno essere visibili al cavallo. Hans non risponde più e Pfungst, in questo modo, scopre che l’equino non sarà un bravo matematico, ma è un eccellente osservatore: riesce a leggere i piccoli segnali del volto e del resto del corpo di von Osten e dei membri della commissione che in qualche modo indicano che sta toccando o sta per toccare il numero corretto. Nasce così l’effetto Clever Hans, che indica il rischio da parte degli esseri umani di dare al soggetto testato un suggerimento involontario sul comportamento desiderato.
Nel corso della storia i cavalli sono stati cibo, mezzi di trasporto, forza agricola, armi da guerra, campioni sportivi, status symbol, compagni e mediatori terapeutici. Solo negli ultimi anni abbiamo iniziato a studiare i loro reali bisogni, il modo in cui percepiscono il mondo e perfino alcuni aspetti della loro vita interiore.
Umani e cavalli: due destini che si uniscono
La storia degli Equidae, la famiglia a cui appartengono i cavalli, inizia circa 55 milioni di anni fa, in America. Nell’Eocene apparve il primo antenato del cavallo, l’Hyracotherium, i cui resti fossili ritrovati in America Settentrionale ed Europa rivelavano le sembianze di un mammifero molto diverso dal fiero destriero a cui noi tutti siamo abituati: aveva dimensioni simili a quelle di un cane di taglia medio-piccola, cranio tozzo e zampe sottili. Persino i paleontologi fecero fatica a ricollegarlo ai cavalli prima del ritrovamento dei resti di altri antenati, ultimo il Pliohippus, da cui si è evoluto il genere Equus circa 4-4,5 milioni di anni fa, durante il Pliocene. Nel corso di poche decine di milioni di anni l’evoluzione apportò numerosi cambiamenti, tra cui l’aumento di dimensioni, la riduzione del numero di dita, la modifica della morfologia dei denti affinché fossero adatti al pascolo, l’allungamento del muso e l’incremento del volume e della complessità del cervello.
Il controllo della riproduzione dei cavalli moderni è emerso intorno al 2200 a.C. nelle steppe pontico-caspiche, attraverso l’accoppiamento tra consanguinei stretti per selezionare le caratteristiche più utili.
Gli equidi del Kazakistan non vennero selezionati e utilizzati per il trasporto su larga scala. Questo sarebbe accaduto solo verso la fine del terzo millennio a.C. Uno studio pubblicato su Nature nel 2024 ha rivelato che il controllo della riproduzione della linea dei cavalli moderni è emerso intorno al 2200 a.C. nelle steppe pontico-caspiche, attraverso l’accoppiamento tra consanguinei stretti per selezionare le caratteristiche più utili. Il controllo riproduttivo ha coinciso con una rapida espansione dei nuovi cavalli in tutta l’Eurasia, che ha portato alla sostituzione di quasi tutte le linee locali. Iniziava così la storia umana della mobilità su vasta scala. Le date ottenute dalle analisi genetiche e dall’esame dei reperti archeologici sono di particolare importanza anche perché contraddicono una delle narrazioni più diffuse sullo sviluppo delle culture umane, secondo cui grandi mandrie di cavalli avrebbero accompagnato la massiccia migrazione dei popoli delle steppe che diffusero le lingue indoeuropee attraverso l’Europa intorno al 3000 a.C. A quell’epoca non avevamo ancora domato il DNA dei cavalli selvatici.
La domesticazione del cavallo rivoluzionò il modo di viaggiare e per migliaia di anni fu questa specie a segnare i confini del trasporto via terra, finché il treno, nel Diciannovesimo secolo, aprì una nuova era. Solo con l’avvento dell’automobile, nel secolo successivo, i cavalli persero definitivamente il loro ruolo centrale nei trasporti. Il retaggio di questo passato, però, è ancora ben visibile: molte strade ricalcano antichi percorsi tracciati per i cavalli e la potenza dei motori continua a misurarsi proprio in “cavalli”. Lasciarono un’impronta profonda anche nelle guerre e vennero usati fino al primo conflitto mondiale, in cui furono indispensabili poiché trainavano rifornimenti, munizioni, artiglieria e feriti.
Un animale, tanti ruoli
Il poderoso e imponente percheron, originario del Nord della Francia, plasmato per le battaglie, per i trasporti e i lavori agricoli; il pony delle Highlands, nativo delle isole scozzesi, compatto e piccolo e allevato per l’equitazione di campagna e di maneggio; l’elegante e selvaggio mustang, discendente dei cavalli che gli spagnoli portarono nel Nuovo mondo, in seguito rinselvatichiti. Queste sono solo alcune delle centinaia di razze che l’essere umano ha modellato con la selezione artificiale per adattarle alle proprie necessità, inizialmente incrociando individui con le caratteristiche desiderate, fino ad arrivare all’utilizzo di tecniche di editing genetico come CRISPR (Clustered Regularly Interspaced Short Palindromic Repeats).
I cavalli sono i nostri campioni in discipline sportive, tra cui il polo e l’equitazione, continuano a svolgere i loro compiti tradizionali nei Paesi in via di sviluppo, dove forniscono trasporto e forza lavoro per l’aratura, sono protagonisti di celebrazioni folkloristiche e tradizionali in tutto il mondo, con rituali che frequentemente sfidano la concezione di benessere animale e persino il buonsenso. Ne sono un esempio la conduzione di mezzi a trazione in piena estate a Roma (le cosiddette botticelle), e Las Luminarias, celebrazione durante la quale si festeggia Sant’Antonio, protettore degli animali, facendo attraversare agli equidi le fiamme dei falò accesi nei vicoli di San Bartolomé de Pinares, in Spagna. I cavalli sono anche considerati cibo: secondo i dati della FAO (Food and Agriculture Organization) sugli allevamenti mondiali, nel 2023 si contavano circa 57 milioni di cavalli e 4,71 milioni macellati.
Sono centinaia le razze che l’essere umano ha modellato con la selezione artificiale per adattarle alle proprie necessità, inizialmente incrociando individui con le caratteristiche desiderate, fino ad arrivare all’utilizzo di tecniche di editing genetico.
Secoli di vicinanza non trascorrono senza lasciare traccia e i cavalli hanno imparato a starci accanto, a capirci così bene da poter addirittura essere un supporto negli interventi assistiti con gli animali, progetti che si basano sull’interazione con loro per mantenere o migliorare il nostro benessere fisico, psicologico e sociale.
Essere cavalli
Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento incominciarono a essere diffusi spettacoli in cui cavalli e nuotatori si tuffavano da strutture alte circa venti metri: il cavallo saliva su rampe strette, solo il vuoto intorno a lui; poi, in cima, un fantino gli saltava in groppa ed entrambi scivolavano su una piattaforma inclinata, fino a cadere per diversi metri, a testa in giù, in una piscina. Non sorprende che esperienze di questo tipo lasciassero spesso segni profondi, sia fisici sia emotivi, tanto sugli esseri umani quanto sui cavalli. L’esistenza di queste performance è proseguita fin quasi ai giorni nostri ‒ negli anni Duemila un esemplare ha continuato a tuffarsi in un parco divertimenti vicino a New York ‒ e in rete è ancora possibile guardare i video di queste imprese. Tra i commenti c’è chi suggerisce che questi animali si divertano nel tuffarsi: “Se lo fanno, è perché gli piace”. Un argomento sterile, come afferma Léa Lansade in Nel mondo del cavallo – Pensieri, emozioni, comportamenti di un meraviglioso animale (2025).
Contrariamente a quanto generalmente si pensa, i cavalli sono animali sociali e vivono in gruppi familiari composti da 3-5 femmine, uno stallone e i puledri con esso generati. Famiglie che si spostano, mangiano, dormono, galoppano e giocano insieme.
I cavalli sono animali sociali e vivono in gruppi familiari composti da 3-5 femmine (le giumente), uno stallone e i puledri con esso generati. Tra le giumente si instaurano amicizie che durano a lungo, anche un’intera esistenza, e quando formano una nuova famiglia, esse cercano di rimanere vicine a quella di origine, isolandosi solo nella stagione riproduttiva. I puledri, molto uniti alle madri fino alla maturità sessuale, che arriva intorno ai 2-3 anni, imparano le regole del gruppo tramite il gioco, di cui si occupa soprattutto lo stallone. Le famiglie si spostano, mangiano, dormono, galoppano e giocano insieme. Quando un membro scompare, il resto del gruppo lo chiama e lo cerca: i cavalli sono in grado di riconoscersi e sanno instaurare relazioni solide tra loro.
Non sono territoriali e diversi gruppi possono convivere in uno stesso spazio, in cui trovano tutto ciò di cui necessitano, come acqua, cibo e un riparo naturale, quando possibile. Il fatto che il cavallo sia un erbivoro influisce profondamente sulla distribuzione delle attività a cui si dedica nelle 24 ore. Poiché le piante forniscono poca energia rispetto al fabbisogno di un animale che può pesare centinaia di chilogrammi, il cavallo occupa in media 15-16 ore al giorno a nutrirsi. Durante il pascolo non rimane fermo, ma si muove lentamente con la testa a terra, scegliendo le piante più adatte. Il benessere del cavallo è anche questo: essere libero di trascorrere una giornata a camminare mentre mangia.
I sensi dei cavalli nascondono regni a noi sconosciuti. Il loro campo visivo, diversamente dal nostro, è panoramico: possono arrivare a vedere quasi dietro la propria schiena, grazie alla posizione laterale degli occhi, uno per ogni parte della testa. Si ritiene che l’evoluzione abbia favorito questa particolare disposizione per avvistare i predatori da qualsiasi direzione, una caratteristica che rappresenta un enorme vantaggio per un animale che vive in branco. L’olfatto molto sviluppato permette loro di esplorare l’ambiente che li circonda e svolge un ruolo importante nell’interazione sociale e nella gestione di stati di allerta. Ad esempio, subito dopo la nascita, la madre riconosce il proprio puledro grazie al suo odore; quando due cavalli si incontrano, si annusano per identificarsi; gli stalloni, invece, usano l’olfatto anche per marcare il territorio, esaminando gli escrementi di altri maschi per capire chi è passato prima di loro, quale fosse il suo status, e depositandoci sopra i propri.
Mentre questi animali per necessità hanno imparato a leggere i nostri comportamenti, ad attribuirci una reputazione, a riconoscere i nostri volti e persino le nostre emozioni, noi non siamo altrettanto preparati sul loro mondo interiore e sulla loro intelligenza.
Emozioni equine
La storia di Hans e i racconti sui cavalli tuffatori dimostrano che, mentre questi animali per necessità hanno imparato a leggere i nostri comportamenti, ad attribuirci una reputazione, a riconoscere i nostri volti e persino le nostre emozioni, noi non siamo così preparati sul loro mondo interiore, sulla loro intelligenza e sul loro stato psicologico.
Ce lo spiega ancora una volta Léa Lansade: riconosciamo bene i segnali di paura, che può diventare patologica se trascurata, ma sappiamo poco su frustrazione, rabbia e tristezza. Di certo i cavalli provano piacere, ad esempio quando spazzolati nei punti giusti, e cercano di farcelo capire con le loro posture, il comportamento e le espressioni facciali. Anche la gioia fa parte delle loro emozioni, seppur difficile da delineare con certezza. E poi c’è il dolore, fondamentale da riconoscere per garantire il benessere di questi animali: sono stati sviluppati protocolli per la sua identificazione, in base alle espressioni facciali, da due gruppi di ricerca, uno italiano e l’altro svedese.
I cavalli possono dare l’impressione di comprenderci e questo induce a chiedersi se siano davvero in grado di cogliere gli stati mentali propri e altrui e, in base a questi, capire e prevedere un comportamento, cioè se possiedano una forma di teoria della mente. Alcuni studi rivelano indizi sulla capacità dei cavalli di conoscere che cosa sappia e che cosa non sappia un umano. Nei test gli sperimentatori che avrebbero dovuto dar loro il cibo, in alcune occasioni non lo facevano. Questo avveniva manifestando la chiara intenzione di non fornire cibo oppure mostrando di esserne impossibilitati a causa della presenza di una barriera o di una certa goffaggine da parte dell’operatore. I cavalli rinunciavano più facilmente quando c’era una evidente volontà di non offrire loro cibo, mentre erano più propensi a insistere davanti alla goffaggine dello sperimentatore. Ciò suggerirebbe che essi possano tener conto non solo delle azioni, ma anche delle intenzioni umane, che in qualche modo sarebbero capaci di leggere. Un risultato simile a quanto osservato nei primati.
I cavalli possono dare l’impressione di comprenderci e questo induce a chiedersi se siano davvero in grado di cogliere gli stati mentali propri e altrui, cioè se possiedano una forma di teoria della mente.
Ripensare la nostra relazione con il cavallo
Le scoperte scientifiche sull’etologia dei cavalli dovrebbero porci davanti a interrogativi urgenti sul modo in cui ci rapportiamo con loro. Non possiamo più continuare a credere che certi metodi di allenamento, alcune attività e persino i luoghi in cui li lasciamo vivere siano ancora adatti. I cavalli hanno trascorso le loro esistenze quasi esclusivamente in gruppo e all’aperto fino alla fine del Medioevo, momento in cui si iniziò a detenerli in stalle chiuse, con uno spazio minimo per ciascun esemplare. Era un sistema nato per proteggerli dal freddo, ma che oggi, nonostante possiamo garantire loro riparo e cura in modalità differenti, continuiamo ad adoperare. L’autrice di Nel mondo del cavallo racconta come lei stessa sia stata vittima dell’abitudine e della mancanza di conoscenza:
Imitando le persone che mi circondavano, pensai che per il mio cavallo sportivo sarebbe stato meglio vivere in un box, possibilmente su un letto di trucioli, come avevo visto fare nelle grandi scuderie. Ero convinta che questa vita gli si addicesse e fosse perfetta per lui. Mi divertiva quando faceva risuonare continuamente i denti sul metallo della porta del box, come se stesse suonando un’armonica. In realtà, soffriva di stereotipia, ma all’epoca non me ne rendevo conto. Il mio cavallo visse così per alcuni anni, finché, con l’aiuto di alcuni studi, mi resi conto di quanto fosse deleteria per lui la vita da rinchiuso e di quanto potesse influire sulla sua salute fisica e psicologica.
Equus ferus caballus è stato al nostro fianco, nelle vittorie e nelle sconfitte. È stato sfruttato per necessità, ludibrio, intrattenimento. Ne abbiamo fatto un’icona, uno status symbol, il protagonista di tradizioni identitarie, ha incarnato il riflesso della nostra grandezza e la sua sensibilità lo ha eretto a supporto emotivo, sempre nel nostro interesse. Per lungo tempo non abbiamo considerato la sua essenza, i suoi bisogni, le sue emozioni. Ora il lavoro di ricercatrici e ricercatori ci sta suggerendo un futuro diverso, un nuovo sentiero da percorrere sradicando l’ignoranza.