

F iero e possente, emerge dal bianco della neve delle Alpi, con le sue corna arcuate, stabile sui suoi zoccoli su una parete quasi verticale, un prodigio della gravità. Lo stambecco alpino è la specie simbolo del Parco nazionale Gran Paradiso e della conservazione della fauna selvatica in Italia: fu portato quasi alla completa estinzione alla fine dell’Ottocento a causa della caccia spietata, resa particolarmente efficiente dalla grande diffusione delle armi da fuoco. Solo un piccolo gruppo di circa cento individui che viveva sul massiccio del Gran Paradiso si salvò. A quel punto la popolazione superstite di Capra ibex si ritrovò ad affrontare un equilibrio precario, almeno quanto quello che questi animali erano in grado di mantenere sulle rocce scoscese: i pochi esemplari rimasti sarebbero potuti andare incontro ad accoppiamenti tra consanguinei. Un terreno scivoloso che rischiava di costare alla specie l’estinzione.
L’importanza della variabilità genetica
Per inbreeding si intende l’accoppiamento di individui consanguinei. Se questo fenomeno è percepito generalmente come negativo, al netto delle questioni culturali e morali, è perché causa la perdita di diversità genetica. Per capire cosa ciò significhi è il caso di fare un piccolo ripasso di genetica, partendo da noi esseri umani.
Il nostro DNA è organizzato in 23 paia di cromosomi omologhi: fatta eccezione per quelli sessuali, i cromosomi della stessa coppia ospitano gli stessi geni e ogni cromosoma ne porta migliaia. Questo vuol dire che un gene è presente in due copie, di cui una viene dalla madre e una dal padre. Le due copie di ogni gene possono essere identiche tra loro, ma molto spesso non lo sono, e per indicare le diverse copie dello stesso gene si parla allora di alleli.
Sono gli alleli a determinare le nostre caratteristiche fisiche: il colore dei capelli e degli occhi, ad esempio, o altri fattori biologici come il gruppo sanguigno, la capacità di metabolizzare alcune sostanze o la propensione ad avere un’alta concentrazione di glucosio nel sangue. Gli alleli sono alla base della variabilità genetica, che si esprime nella variabilità fenotipica: ogni individuo è diverso da tutti gli altri, perché ha una combinazione di alleli unica e praticamente irripetibile. Queste varianti geniche possono essere dominanti o recessive: se nella coppia uno degli alleli è dominante, il tratto associato a quel gene sarà espresso nel fenotipo della prole. Per l’espressione dei tratti recessivi, invece, entrambi gli alleli dovranno essere recessivi.
La consanguineità tra genitori può portare a mantenere degli alleli recessivi deleteri, generando una serie di problemi noti come “depressione da inbreeding”.
Accoppiamenti problematici
Gli alleli recessivi, che la maggior parte delle volte sono legati soltanto a caratteri meno comuni o addirittura rari, talvolta sono associati a malattie genetiche o a tratti potenzialmente problematici. Immaginiamo una malattia genetica rara che si manifesta quando si trovano insieme, nello stesso individuo, due alleli recessivi di un certo gene. Se una persona porta un solo allele recessivo, la malattia non si manifesterà e l’individuo sarà sano. Potrà, però, trasmettere l’allele recessivo ai suoi figli. Poco male: se la malattia è rara, molto probabilmente l’altro genitore non porterà un allele recessivo e trasmetterà alla sua prole un gene non legato alla malattia.
Immaginiamo, ora, di trovarci in un gruppo chiuso, in cui i componenti sono consanguinei e con un progenitore portatore del nostro allele recessivo. Molti discendenti dello stesso progenitore porteranno quell’allele. Siccome il gruppo è ristretto, la probabilità che due soggetti portatori dell’allele recessivo si incrocino è molto più alta, e molto più alta sarà la probabilità che un figlio si ritrovi entrambi i recessivi. In tal caso, il soggetto sarà affetto dalla patologia.
L’incesto ci ripugna ormai quasi istintivamente e la storia ce ne ha insegnato gli effetti drammatici, eppure non ci curiamo troppo dell’inbreeding quando si tratta di piegare la biologia ai nostri scopi.
Il fenomeno che ho appena descritto interessa tutte le specie viventi. La consanguineità tra genitori può portare a mantenere degli alleli recessivi deleteri, generando una serie di problemi legati soprattutto alla sopravvivenza e alla riproduzione, noti come “depressione da inbreeding”, che possono causare un aumento della mortalità, una riduzione della fertilità e una diminuzione delle nascite. Inoltre, la depressione da inbreeding può compromettere capacità come l’adattamento ai cambiamenti ambientali e la resistenza alle malattie.
Una consanguineità forzata
Quando pensiamo all’accoppiamento tra consanguinei non possiamo non provare una sensazione di disagio che spesso travalica nel disgusto. L’incesto ci ripugna ormai quasi istintivamente e la storia ce ne ha insegnato gli effetti drammatici: la discendenza della regina Vittoria d’Inghilterra fu colpita duramente da malattie ereditarie come l’emofilia, e pagarono un prezzo altrettanto alto le dinastie reali dell’Antico Egitto e gli Asburgo. Eppure, non ci curiamo troppo dell’inbreeding quando si tratta di piegare la biologia ai nostri scopi, come per la selezione delle razze di animali domestici.
Le razze canine presenti ai giorni nostri sono centinaia, e molto diverse tra loro: se un alieno vedesse nella stessa stanza un carlino e un levriero, probabilmente stenterebbe a credere che i due esemplari appartengano alla stessa specie. Il loro aspetto e, in parte, alcuni tratti caratteriali sono il frutto di un percorso evolutivo compiuto a passi sempre più rapidi. Dai primi lupi confidenti che probabilmente iniziarono ad avvicinarsi agli insediamenti umani per cibarsi dei loro rifiuti, siamo arrivati alla grande variabilità morfologica che possiamo osservare passeggiando per le strade delle nostre città.
Le attività dei kennel club accelerarono di molto i cambiamenti fisici tra razze canine, ampliandone enormemente la divergenza.
Richard C. Francis, autore del libro Addomesticati. L’insolita evoluzione degli animali che vivono accanto all’uomo (2016), scrive:
La selettività superò ogni limite. Un maschio proclamato campione della sua razza, per esempio, poteva generare centinaia di cuccioli. Inoltre, si diffuse l’abitudine di far accoppiare i campioni con le proprie figlie femmine. Gli incesti ricorrenti producono soggetti problematici, ma forse i nobili vittoriani, che furono i principali responsabili di questa situazione, non erano disturbati dai rapporti incestuosi, visto il loro stesso pedigree. Una selezione artificiale di questo tipo produce cambiamenti fenotipici rapidi e di notevole entità, ma a un prezzo.
La selezione artificiale è così diventata lo strumento attraverso cui abbiamo trasformato degli esseri viventi in commodity, beni di consumo per soddisfare i nostri occhi, il nostro palato o il nostro bisogno di compagnia. Una pratica che affonda le sue radici nella stessa domesticazione e i cui rischi sono stati compresi ed esaminati solo recentemente.
Gli incroci tra consanguinei storicamente sono stati utilizzati anche per generare animali da cui ricavare il massimo del prodotto ‒ come carne, uova, latte ‒ con il minimo costo.
Ci sono poi i piccoli allevatori che, in alcuni casi, potrebbero ignorare le conseguenze degli accoppiamenti tra consanguinei, trascurando così il benessere degli animali. “Allevare per ottenere i tratti che desideriamo e, allo stesso tempo, controllare il tasso di inbreeding è un atto di bilanciamento difficile, poiché spesso si instaura un compromesso, sebbene esistano metodi statistici utili a questo scopo. Per controllare l’inbreeding – che nel lungo termine dovrebbe giovare alla salute genetica delle popolazioni di animali domestici – le organizzazioni che si occupano di allevamento potrebbero dover accettare tassi di miglioramento genetico leggermente inferiori nel breve termine”, conclude Wiener.
Il rovescio della medaglia evolutiva
L’inbreeding non è solo uno strumento nelle mani dell’essere umano. Sebbene in natura si siano evoluti diversi meccanismi per evitare la consanguineità, l’accoppiamento tra individui imparentati è piuttosto comune. “È utile distinguere tra una definizione ristretta e una più ampia di consanguineità”, spiega Nicolas Dussex, ricercatore in genomica della conservazione presso il Centre of palaeogenetics dell’Università di Stoccolma e dello Swedish museum of Natural history.
Dussex è autore di un recente articolo, pubblicato sulla rivista scientifica iScience del gruppo editoriale Cell, sulla storia della popolazione delle renne delle isole Svalbard, in Norvegia. Rangifer tarandus platyrhynchus è una sottospecie di renna che possiede caratteristiche morfologiche e fisiologiche plasmate dall’adattamento all’ambiente freddo, stagionalmente estremo, dell’arcipelago delle Svalbard. L’analisi di dati genomici e le simulazioni matematiche hanno permesso di scoprire che la popolazione è stata fondata da circa venti individui. Questo piccolo nucleo e l’isolamento degli animali ha, ovviamente, dato origine a una prevedibile consanguineità, oggi ben osservabile. Secondo le simulazioni, nella storia di queste renne a un certo punto la depressione da inbreeding è stata seguita da una riduzione delle mutazioni dannose. Considerando ciò che abbiamo descritto, ci saremmo dovuti aspettare un aumento nella frequenza di alleli dannosi e, conseguentemente, di caratteri svantaggiosi. Così però non è stato. Perché?
Fino a ora abbiamo parlato di una consanguineità riferita all’accoppiamento tra parenti molto stretti, come fratelli o cugini, ma esiste anche un inbreeding tra animali meno vicini per grado di parentela e riguarda soprattutto gli individui che diventano consanguinei o geneticamente più simili quando una popolazione si riduce. “In altre parole, questa è la definizione più rilevante per i biologi evoluzionisti”, specifica il ricercatore.
Sebbene in natura si siano evoluti diversi meccanismi per evitare la consanguineità, l’accoppiamento tra individui imparentati è piuttosto comune.
Esiste poi un altro aspetto per cui la consanguineità potrebbe essere in qualche modo utile. In una popolazione che vive in natura, dove una determinata variante genetica si è adattata a un dato ambiente, l’introduzione di nuovi alleli potrebbe rendere la popolazione un po’ meno adeguata a quell’ecosistema, mettendola in difficoltà. Dussex, però, sottolinea: “Questo non vuol dire che la consanguineità sia un buon meccanismo per mantenere gli adattamenti a determinate condizioni ambientali, ma piuttosto che l’accoppiamento con popolazioni geneticamente distinte, adattate a condizioni diverse, può interferire con un modello locale di adattamento”. Questo è un ulteriore indizio di quanto possa essere complicato realizzare progetti di conservazione della natura che, oltre a prevedere programmi che migliorino la coesistenza tra comunità umane e altre specie, pongano attenzione al patrimonio genetico degli individui che provengono da territori differenti, bilanciando inbreeding e diversità.
Un equilibrio complesso
La selezione naturale, d’altro canto, non eliminerà mai del tutto gli alleli più dannosi. La propensione alla variabilità, e quindi alla mutazione, è il cuore dell’evoluzione e questo caratterizza tutte le specie viventi. Tuttavia, alcune specie sembrano più abili di altre nel rimuovere i caratteri più deleteri, in parte grazie alle loro dinamiche di popolazione e ad altre caratteristiche biologiche, come i comportamenti di accoppiamento e la dimensione della cucciolata. Ad esempio, le specie che subiscono un declino o un isolamento graduale hanno maggiori probabilità di eliminare queste mutazioni in modo che la depressione da inbreeding non si manifesti rapidamente, rendendo la popolazione più resiliente.
Al contrario, se una popolazione è troppo isolata o il suo pool genetico è troppo uniforme, la depressione da inbreeding si verificherà in fretta e il successo riproduttivo di molti individui crollerà simultaneamente, con il rischio che la popolazione stessa collassi altrettanto rapidamente. Nicolas Dussex avverte: “Anche se una specie si riprende da un forte declino e riesce a eliminare alcune delle mutazioni più dannose, esiste sempre il rischio che mutazioni con effetti meno gravi, cioè non letali, aumentino nella popolazione, incrementando la minaccia di estinzione nel lungo termine”. Ecco cosa è accaduto alle renne delle Svalbard: la quantità di mutazioni dannose è diminuita sotto la spinta della selezione naturale. Un altro buon esempio di questo meccanismo è proprio quello dello stambecco alpino, ridotto a una comunità di circa cento esemplari non dalla perdita di habitat ‒ tra le cause principali dell’inbreeding ‒ ma dall’introduzione delle armi da fuoco e dalla conseguente caccia eccessiva.
Uno studio pubblicato su Nature communications nel 2020 ha dimostrato che diverse reintroduzioni della specie, dal Parco nazionale Gran Paradiso al resto delle Alpi, hanno indotto l’eliminazione delle mutazioni più dannose con l’accumulo di alcune di minore effetto. Per ora l’estinzione di questo animale, destinato a muoversi su fragili crinali, sembra essere scongiurata. Ma l’esito di questa partita a scacchi tra alleli, mutazioni e selezione naturale ‒ una partita a volte truccata dalla mano dell’essere umano ‒ è ancora tutto da stabilire.