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l discorso sulla frenesia della nostra quotidianità è senz’altro un discorso attorno alla tecnologia. I ritmi temporali della nostra vita (lavorativa e non) sono ormai indissolubilmente legati alle cosiddette ICT, acronimo inglese per Information and Communications Technology, ossia quell’insieme di tecnologie che consentono di raggiungere, archiviare, trasmettere e manipolare informazioni: PC, internet, telefonia mobile, TV, sistemi di pagamento.
I libri e il pensiero di Judy Wajcman, sociologa della London School of Economics, nascono all’intersezione tra tecnologia-lavoro-disuguaglianza: Feminism confronts technology; TechnoFeminism; The sociology of speed e infine La tirannia del tempo. L’accelerazione della vita nel capitalismo digitale, saggio del 2015 tradotto lo scorso anno per Treccani Libri [l’editore di questa rivista]. Wajcman si oppone all’approccio che vede nella tecnologia un agente esogeno e indipendente dalla società, dei cui mali è considerata principale causa: l’autrice si rifà alla teoria del “modellamento sociale” (social shaping of technology) in base alla quale la tecnologia rappresenta invece il frutto di un processo di modellamento reciproco con la collettività che la produce e ne fa uso, rispecchiandone scopi, visioni e bisogni.
“Non esiste alcuna soluzione tecnica per la nostra situazione attuale. Non possiamo semplicemente iniziare una dieta digitale, rifiutare gli smartphone e tornare alla natura, come sembrano suggerire alcune riflessioni sulla decelerazione”, scrive Wajcman. “Per una politica del tempo in grado di emanciparci sarà necessaria una comprensione più a tutto tondo della relazione tra temporalità e tecnologia. È necessaria una democratizzazione della tecnoscienza: dovremo decidere che tipo di tecnologie vogliamo, e che uso intendiamo farne”. L’abbiamo intervistata al Festivaletteratura di Mantova, durante un incontro promosso dalla rivista La Balena Bianca.
Quando si parla del rapporto tra tecnologia e società si arriva quasi sempre a posizioni polarizzate, di estremo entusiasmo o di estremo pessimismo. In pochi cercano di capire, come fa lei nel libro, i modi in cui invece tecnologia e società si influenzano a vicenda e crescono una sull’altra. A cosa dobbiamo la diffusione dell’immaginario apocalittico e di quello messianico quando parliamo di tecnologia?
In effetti è da più o meno un ventennio che mi lamento di questa polarizzazione: da una parte possiamo citare l’ottimismo in stile Silicon Valley – a dire il vero negli ultimi anni non più così di moda –, che individua nella tecnologia la soluzione ai problemi del mondo, una specie di panacea; dall’altra si assiste invece a una sorta di panico morale che addita la dipendenza dalla tecnologia come unico fattore colpevole di fenomeni che richiederebbero un’analisi ben più complessa, come la depressione infantile o l’aumento dei casi di anoressia.
A mio avviso noi tutti ci stiamo lasciando imbrigliare dalla polarizzazione di questo dibattito, invece che considerare il fatto che tecnologia e società si forgiano e modellano a vicenda: la tecnologia riflette il progetto di una determinata società. Se noi non vivessimo in una società che attribuisce tanto valore alla velocità, al fatto di essere sempre impegnati, di avere sempre qualcosa da fare, forse non pretenderemmo dalla tecnologia un’accelerazione costante. Basti pensare a tutte le applicazioni che promettono di ridurre i tempi di qualsiasi mansione abbiamo da svolgere, rendendoci multitasking. Oppure, pensiamo alle presentazioni e alle release fatte ogni autunno da aziende come Google nelle quali vengono presentate le ultime novità in fatto di tecnologia: ciò che mi colpisce è che, ogni volta che esce un nuovo prodotto, il tema principale è sempre quello del risparmio di tempo. Ad esempio, l’ultima moda sembra essere quella di eseguire le più svariate operazioni tramite l’utilizzo della voce, invece che appunto “dilungarsi” a digitare i diversi comandi. In effetti l’intento del mio libro è proprio quello di allontanarmi da visioni troppo polarizzate di queste problematiche.
Lei pone prima di tutto un problema di immaginario, di come elaboriamo e presentiamo le idee del futuro. Scrive che la Silicon Valley, e in generale le grandi compagnie tecnologiche, hanno colonizzato molto del nostro spazio d’immaginazione imponendo a tutta la società la loro specifica visione di come apparirà il futuro.
Sono aziende che assorbono continuamente il nostro immaginario e, giocando d’anticipo, producono un modello che ci impedisce di pensare un futuro differente da questo stesso disegno. Tutto ciò peraltro senza che dietro vi sia alcun dibattito politico su come vorremmo cambiare la società – che è un aspetto di cui invece avremmo realmente bisogno. Così, esclusivamente attraverso queste immagini che ci vengono propinate senza sosta, continuiamo a parlare e a pensare a come migliorare la nostra vita accelerando o ricercando soluzioni in tecnologie solo apparentemente risolutive (come, tra le tante, le automobili a guida automatica). Poi c’è anche la metodologia – la chiamo così – in base alla quale quest’industria tecnologica coinvolge a tutti gli effetti le migliori risorse in termini di fondi e figure professionali. Due anni fa a Stanford mi sono chiesta cosa potrebbe accadere se tutti questi mezzi dispiegati per la creazione, ad esempio, di sistemi di ricerca vocale sempre più accurati, fossero reinvestiti su problematiche sociali – come la crisi ambientale. Come cambierebbe il mondo se potessimo politicizzare il dibattito su quali problemi desideriamo risolvere con questi stessi strumenti? Devo dire però che negli ultimi due anni mi sembra che sia in corso un cambiamento di umori, da un lato c’è meno idolatria nei confronti dei personaggi di questo settore e dei loro prodotti – penso all’ambiguità che ha assunto la figura di Zuckerberg –, dall’altro c’è una consapevolezza più diffusa sui lati oscuri delle tecnologie, penso alla dimensione della sorveglianza, la diffusione di informazioni false e più in generale all’influenza che le piattaforme social hanno nel dibattito democratico.
Uno dei nodi centrali del libro è il cosiddetto “paradosso della pressione del tempo” secondo cui le tecnologie che dovrebbero liberarci dagli impegni e renderci così più liberi ci fanno invece percepire una quotidianità più pressata e con meno tempo a disposizione. In particolare le tecnologie che dovrebbero automatizzare i lavori domestici – come la lavatrice – tendono ad innalzare gli standard di vita e quindi ad aumentarne la frequenza di utilizzo. In questo modo, l’apparente inadeguatezza al compito (risparmiare tempo) spinge a cercare come soluzioni altre tecnologie ancora più rapide. Così, la frustrazione delle nostre aspettative si riversa in un consumo compulsivo di ciò che ci viene offerto. Come si disinnesca questa dinamica?
Ho messo questo paradosso al centro del libro perché, in definitiva, ogni qualvolta mi trovo a fare delle interviste per delle ricerche le persone rispondono sempre di avere poco tempo e troppe cose da fare. La colpa di ciò viene poi comunemente imputata alle tecnologie che, però, sono a loro volta individuate anche come soluzioni a questo problema. L’idea è infatti quella di avvalersi di tecnologie ancora più sofisticate per economizzare il tempo che quelle attuali non ci permettono di risparmiare, cercando l’automazione dei processi ad ogni costo.
Tuttavia, il problema che non si pone è l’utilizzo di questo tempo accumulato, verso cosa indirizzarlo e come sfruttarlo. Le soluzioni attuali apportate dalla tecnologia non restituiscono l’evidenza del fatto che il tempo è una dimensione plurivoca di percezioni ed esperienze. Per esempio, l’ultima moda britannica dei care robots rimane ancorata al principio di risparmiare tempo, senza concentrare però il dibattito sulle tante tipologie di tempo di cui facciamo esperienza e che non sono trattabili, risolvibili, comprimibili nella stessa maniera. Il punto reale della discussione è la qualità del tempo e la velocità con cui vogliamo affrontare le varie attività che caratterizzano la nostra vita. Tutti sappiamo che il tempo della “cura”, un tempo lento basato sulla presenza, non è un tempo che vogliamo accelerare e questo, ad esempio, è un aspetto che andrebbe esteso come limitazione virtuosa alle macchine che ci aiutano in questo campo.
Il ruolo della progettazione e del design tecnologico risultano decisivi in questo senso. Il design tecnologico di un prodotto risponde a un preciso progetto etico oltre che economico. Guardiamo per esempio a come i social network, le app, le notifiche sugli smartphone non ci aiutino davvero a guadagnare tempo come promettono, ma piuttosto guadagnino loro il nostro tempo, e i nostri dati, sfruttando le nostre fragilità cognitive e lottando tra loro per la nostra attenzione.
Il problema che sollevate mi sta molto a cuore, anche se devo dire che ultimamente ho notato una sorta di movimento, di fermento presso alcuni tecnologi proprio per mettere a nudo l’importanza dell’economia dell’attenzione. Spesso la società incolpa gli individui per la dipendenza tecnologica, per il fatto di non riuscire a staccare mai gli occhi dagli schermi, quando non viene evidenziato abbastanza il fatto che la tecnologia è stata progettata esattamente per questo scopo.
In effetti, quando sono stata nella Silicon Valley, una cosa che mi ha sorpreso è stata scoprire che i migliori psicologi del mondo vengono ingaggiati dalle aziende per capire come manipolarci, per fare in modo che le persone restino sempre online e guardino, per così dire, tutto quello che viene loro propinato. Quindi non si tratta di una nostra debolezza in qualità di esseri umani, piuttosto c’è un’effettiva intenzionalità del design in gioco in questo senso, proprio perché l’obiettivo delle aziende è quello di fare denaro: più traffico le tecnologie sono in grado di creare, più profitti si generano. Ovviamente ora sono iniziate le discussioni sul fatto che ci sia o meno una responsabilità etica dietro la manipolazione delle persone che poi utilizzano queste tecnologie.
Un anno fa è stato condotto un esperimento su un popolare social network per cercare di capire fino a che punto si riescano a condizionare le emozioni di qualcuno che è online tramite l’invio di determinati contenuti, feed e così via: gli esiti dell’esperimento hanno confermato che gli utenti possono essere assolutamente manipolati. Dopo la pubblicazione dei risultati si è gridato allo scandalo, ma di fatto a livello pratico non sono seguiti provvedimenti significativi: questo per sottolineare quanto è importante l’etica del design. In questi mesi, addirittura a livello europeo, sta prendendo piede una discussione a cui io plaudo molto e che seguo con interesse a proposito della cosiddetta “innovazione responsabile”. Nel concreto, se qualcuno fa domanda per una sovvenzione europea a favore di un progetto, quella persona deve essere in grado di dimostrare la propria responsabilità a livello etico e di rendere conto del valore sociale della propria idea. Credo che iniziare a discutere sulla tecnologia anche in termini di responsabilità etica sia fondamentale. Un’altra cosa che mi ha colpito è che oggi sembra essere di moda un’adorazione per gli algoritmi, si parla perfino di “governo algoritmico”. Eppure, dopo gli eventi legati al movimento Black Lives Matter, è stato appurato che alcuni algoritmi erano stati usati in maniera volutamente discriminatoria – ma direi che lo stesso sistema automatico del welfare system statunitense è tale da riprodurre implicitamente le disuguaglianze sociali vigenti nella società americana. Quindi anche in questo caso è importante discutere (al momento se ne parla più che altro a livello accademico) di “algoritmi etici”, che devono essere studiati, vagliati e valutati prima di essere applicati alle politiche governative per esempio, per fare in modo che non venga perpetrata discriminazione di nessun tipo.
Con la fluidificazione del rapporto tra vita privata e lavorativa, l’accelerazione del tempo si fa sentire specialmente in ambito domestico, caratterizzato da quello che lei chiama “lavoro non retribuito”. Secondo le statistiche, la percezione di una difficoltà nella gestione del proprio tempo colpisce soprattutto le donne, evidenziando come la casa sia un ambiente in cui le disuguaglianze di genere sono difficili da estirpare: è ancora alle donne infatti che è demandata la maggior parte del “lavoro non retribuito”. Insomma, da una parte la tecnologia è stato un elemento decisivo per l’emancipazione delle donne – specialmente dalla dimensione domestica –, ma dall’altra continua a nutrire e aggravare molte delle anomalie del rapporto tra gestione del tempo e parità di genere.
Devo confessare che per molto tempo ho riflettuto e scritto – rimanendo anche piuttosto bloccata – riguardo a quanto siano diventati labili le linee di demarcazione tra la casa e il lavoro, e in effetti è un dibattito molto lungo – già trent’anni fa alcuni sostenevano che nel futuro avremmo lavorato da casa attraverso degli “electronic cottages”. Le dinamiche di genere in relazione a questi spazi si sono invece palesate in tutta la loro impressionante chiarezza, proprio alla luce della situazione pandemica che stiamo vivendo.
Nel Regno Unito – ma immagino un po’ ovunque – mentre da una parte abbiamo avuto moltissimi uomini che si sono ritrovati a lavorare da casa e hanno apprezzato molto questo cambiamento che ha aumentato la quantità e la qualità del loro tempo, dall’altro abbiamo assistito ad un aumento del fardello ricaduto sulle spalle delle donne, le quali, oltre al telelavoro, continuano statisticamente ad occuparsi della maggior parte delle faccende domestiche – che io identifico come “lavoro non retribuito” – e dei figli. Questo, però, non è un problema di tecnologia, ma di rapporto tra i generi che ha a che fare con la condivisione e la ripartizione sia del lavoro retribuito che di quello non retribuito. Ricordo di aver scritto su questo argomento più di trent’anni fa, quando arrivò nelle case la nuova generazione di elettrodomestici (le cosiddette lavatrici, lavastoviglie “intelligenti”) che prometteva di liberare quasi definitivamente le donne dalle mansioni domestiche, con un netto guadagno di tempo. È vero che queste tecnologie hanno cambiato la vita e i rapporti familiari, ma non a favore delle donne, le quali piuttosto che disporre di maggior quantità di tempo, si percepiscono pressate dal mantenimento degli standard imposti da queste stesse tecnologie.
Oggi penso sia importante porre l’accento su quanto il lavoro non retribuito sia ancora diffuso nonostante l’automazione e sia ancora principalmente a carico delle donne. Se negli ultimi decenni le donne del ceto medio hanno iniziato a ricoprire le professioni più svariate, queste hanno quasi sempre fatto ricadere il lavoro non retribuito sulle spalle di donne più povere di loro – le cosiddette “donne di servizio”. Lo stesso meccanismo si è poi invertito durante la pandemia: licenziate le donne di servizio, sono state le donne di famiglia a farsi nuovamente carico dei lavori domestici. Traslandosi da una classe sociale all’altra il lavoro non retribuito non è mai uscito dal recinto della categoria femminile. Credo che da un simile meccanismo risulti evidente come la tecnologia sia praticamente ininfluente senza qualcuno che svolga quel determinato lavoro e che il lavoro non retribuito è, oggi come ieri, ancora specchio di profonde disuguaglianze di genere e classe.
Mark Fisher sosteneva che dietro al vortice di frenesia e di accelerazione della nostra società gravasse una certa dose di immobilismo, di opposizione al cambiamento, e che sarebbe quello il vero cuore delle istituzioni e delle tecnologie neoliberiste. Questo tempo digitale e simultaneo cela una stasi della nostra società?
Mark Fisher ed io abbiamo scritto cose molto diverse e ora come ora non saprei definire un concetto di “stasi” generale per la nostra società. Quello che però posso dire è che, in relazione al cambiamento tecnologico, la retorica in stile Silicon Valley nasconde un atteggiamento ambiguo nei confronti del concetto di innovazione. Da un lato infatti, in alcune aree assistiamo a un sostanziale numero di sviluppi, dall’altro al contrario vi è una mancanza di progresso – o stasi – nettamente più marcata in altre. Ad esempio negli ultimi decenni l’evoluzione dei social ha visto molti più cambiamenti rispetto a problemi decisamente più fondamentali come la risoluzione della crisi climatica o il bisogno di energie rinnovabili. Questa tecno-ideologia serve anche a farci concentrare unicamente sul presente e sull’immediato futuro piuttosto che lasciarci applicare una prospettiva storica che permetta di comprendere a pieno la società in cui viviamo oggi. Inoltre da parte di questi tecno-idelogi c’è chi grida finalmente all’avvento di una nuova rivoluzione industriale – la quarta – come faro di un progresso ininterrotto. Personalmente sono piuttosto scettica riguardo a tutti i discorsi su questo argomento, soprattutto perché l’insorgere della gig-economy con il suo strascico di poveri e precari è un vero e proprio balzo indietro per i lavoratori, fatto passare invece come l’avvento di un radioso futuro. In ogni caso sono assolutamente d’accordo con le teorie di Fisher. Credo sia necessario oggi porre sotto un’inchiesta critica le idee neoliberali su che cosa abbia valore in qualità di cambiamento radicale, movimento, progresso e trasformazione.
Molti dei punti fondamentali delle riflessioni della Tirannia del tempo sono validi ancora oggi; ma alcune cose sono cambiate proprio negli ultimissimi anni, in cui le tecnologie hanno giocato un ruolo fondamentale nel modellare il mondo, sia in positivo che in negativo. Se oggi dovesse riscrivere questo libro da capo lo modificherebbe aggiungendo o togliendo qualcosa?
Proprio ritornando alla dinamica tra velocità e lentezza, se dovessi scrivere il libro oggi, probabilmente sottolineerei ancora di più ciò che ho rimarcato precedentemente, ossia la presenza di disuguaglianze evidenti. Per esempio, il fatto di poter vivere veloce, di seguire la velocità, di essere sempre occupati e costantemente aggiornati, in realtà è un privilegio: servono risorse per acquistare la tecnologia necessaria per vivere questa velocità. Eppure ci sono moltissime persone che non sono nella posizione di permettersi la velocità, ma che lavorano per agevolare la vita rapida e frenetica di tutti gli altri. Durante l’emergenza legata alla COVID-19 abbiamo avuto persone che occupano posizioni manageriali e impiegatizie che si sono trovate a lavorare da casa: questo per loro ha rappresentato un privilegio perché hanno potuto rifugiarsi in case comode e spaziose e ordinare il loro cibo se avevano fame. Per loro l’esperienza del telelavoro è stata un’esperienza confortevole e continua ad esserlo. Tuttavia ci sono anche milioni di persone che si ritrovano in alloggi angusti e limitati, che magari lavoravano nei negozi e nei servizi, le quali, una volta finito il periodo di cassa integrazione, si sono trovate ad affrontare lo spettro della disoccupazione. Se dunque dovessi riscrivere oggi questo libro sottolineerei con ancor più nettezza l’evidente disuguaglianza tra coloro che possono controllare il loro tempo e coloro non possono farlo perché vivono letteralmente al servizio degli altri.