

D a Huaraz si vedono le Ande. La città peruviana dista solo 20 chilometri dal lago glaciale Palcacocha, alimentato dalla fusione del ghiacciaio Palcaraju. Da alcuni anni, Luciano Lliuya, agricoltore e guida di montagna, osserva le cime preoccupato. Il ghiacciaio si sta ritirando troppo, e troppo in fretta. Il rischio che una frana o una valanga generino un’onda capace di travolgere il centro abitato è diventato concreto: nel 2020, il lago conteneva acqua sufficiente a riempire 800 piscine olimpioniche. Nonostante lo stato di emergenza dichiarato dal governo e l’installazione di enormi tubi per drenare l’acqua in eccesso, il livello del lago è sceso solo di pochi metri. Lliuya, comunque, non è rimasto a guardare.
Dopo il vertice delle Nazioni Unite sul clima del 2014 – la Cop20 di Lima – Lliuya e l’organizzazione tedesca, Germanwatch, arrivata in Perù in occasione del negoziato ONU, hanno deciso di portare avanti un’idea folle, un’azione giudiziaria senza precedenti: denunciare per i danni legati alla fusione del ghiacciaio la società energetica tedesca RWE (Rheinisch-Westfälisches Elektrizitätswerk), una delle aziende più inquinanti d’Europa, anche se questa non ha mai operato in Sud America.
A novembre 2015, la denuncia è stata depositata al tribunale distrettuale di Essen, città dove ha sede RWE. Citare in giudizio una multinazionale tedesca è una scelta strategica: lo scopo è far giudicare il caso da un tribunale della Germania. Nel Paese, infatti, la legge consente alle persone di fare causa a un vicino se le sue azioni ne danneggiano la proprietà e – dettaglio importante – il concetto di “vicinato” comprende qualsiasi luogo raggiunto dagli effetti dannosi, anche se lontano migliaia di chilometri. Nel contesto delle emissioni globali – nell’atmosfera senza confini – l’avvocata di Lliuya, Roda Verheyen, ha argomentato che il “vicinato” di RWE comprende il mondo intero: le emissioni della multinazionale contribuiscono in modo rilevante alla crisi climatica globale e, dunque, al rischio di alluvione che incombe su Huaraz.
Il caso dell’agricoltore peruviano Luciano Lliuya ha dimostrato che è possibile citare in giudizio un’azienda fossile per i danni prodotti dall’emergenza climatica anche a migliaia di chilometri di distanza.
Il caso Lliuya v. RWE è solo uno degli ultimi contenziosi incentrati sul cambiamento climatico ad aver attirato l’attenzione dei media. Le climate litigations – come vengono chiamate anche in italiano le azioni legali intentate contro Stati o aziende responsabili del riscaldamento globale e dei danni ambientali connessi – esistono da alcuni anni, ma negli ultimi tempi sono diventate sempre più visibili e numerose. In un periodo caratterizzato da una crescente repressione delle azioni di protesta e da una ridotta mobilitazione nelle piazze, portare il cambiamento climatico in tribunale può rappresentare il cavallo di Troia dell’attivismo ambientale contemporaneo.
Una questione di diritto
A porre le basi per le attuali climate litigations furono le cause legate all’inquinamento dell’aria, dell’acqua e al degrado ambientale, avviate negli anni Settanta, soprattutto negli Stati Uniti. Sono stati questi primi casi ad aprire la strada ai contenziosi climatici degli anni Duemila, quando il legame tra attività antropiche e cambiamento climatico è diventato impossibile da ignorare.
Nel 2007, ad esempio, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha emesso una sentenza storica per il caso Massachusetts v. EPA. In quella causa, dodici Stati, tra cui il Massachusetts, e diverse città statunitensi avevano citato in giudizio l’Environmental Protection Agency (EPA) per non aver regolamentato le emissioni di gas serra provenienti dai veicoli, sostenendo che tali emissioni contribuivano al cambiamento climatico e mettevano a rischio la salute pubblica. La Corte ha stabilito che, stando al Clean Air Act, la legge federale sulla qualità dell’aria, i gas serra rientrano nella definizione di “inquinanti atmosferici”, e dunque l’EPA era obbligata a regolamentarli. Per la prima volta, la crisi climatica veniva riconosciuta anche come una questione di diritto da affrontare giuridicamente. Da allora, le climate litigations sono aumentate di anno in anno.
Stando al database Global Climate Change Litigation, dal 1986 al settembre del 2024 sono stati avviati 2976 contenziosi climatici, il 70% dei quali solo negli ultimi dieci anni. Gli Stati Uniti sono il Paese dove se ne registrano di più. Per contarli, comunque, occorre prima distinguerli, il che non è affar semplice.
Il numero di cause climatiche sta aumentando drasticamente. Dal 1986 ad oggi sono stati avviati 2976 contenziosi in tutto il mondo, il 70% dei quali solo negli ultimi dieci anni.
Un altro modo di fare attivismo
Nel 2013 – un’era fa in termini di consapevolezza e politiche climatiche – un gruppo di cittadini e cittadine dei Paesi Bassi, guidato dall’organizzazione ambientalista Urgenda, ha deciso di citare in giudizio il proprio governo per inazione climatica. Secondo i promotori della causa, lo Stato olandese, non riducendo abbastanza rapidamente le emissioni di gas serra, stava violando i diritti fondamentali di cittadini e cittadine. I legali hanno fatto riferimento alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo: l’inerzia statale stava minacciando il diritto alla vita (art. 2) e il diritto al rispetto della vita privata e familiare (art. 8). Nel 2015 è arrivata la sentenza del tribunale dell’Aia: entro il 2020 l’esecutivo dei Paesi Bassi avrebbe avuto l’obbligo di ridurre le emissioni di almeno il 25 per cento rispetto ai livelli del 1990.
Nonostante il ricorso del governo, nel 2019 la Corte suprema ha confermato la sentenza. Per la prima volta, un tribunale riconosceva la responsabilità legale di uno Stato in materia climatica. I Paesi Bassi hanno annunciato diverse iniziative per rispettare la decisione: chiusura delle centrali a carbone, investimenti in energie rinnovabili e una legge sul clima più ambiziosa di quella vigente fino a quel momento. Misure che hanno funzionato: nel 2024, secondo l’Istituto nazionale di statistica (CBS Statistics Netherlands), le emissioni nel Paese sono scese del 37% rispetto ai livelli del 1990. Così, il contenzioso è diventato un precedente per chiunque voglia citare in giudizio uno Stato per inazione climatica.
Nel 2019 per la prima volta un tribunale ha riconosciuto la responsabilità legale di uno Stato in materia climatica. I Paesi Bassi hanno dovuto chiudere centrali a carbone, investire in rinnovabili e approvare una legge sul clima più ambiziosa.
È questo che fa delle climate litigations una forma di attivismo, magari diversa nei modi dagli scioperi del venerdì promossi dai Fridays for future, dai blocchi stradali e dalle performance fatte da Extinction rebellion e Ultima generazione, ma non negli obiettivi. Fare attivismo climatico in tribunale funziona almeno su due fronti: in primo luogo coinvolge persone che non parteciperebbero a cortei e azioni dirompenti dei gruppi ambientalisti; in secondo luogo aggira il dibattito pubblico, che sui temi climatici è ormai polarizzato, portando la questione direttamente all’attenzione e alla pronuncia dei giudici.
Chi fa causa a chi
Nell’ambito delle climate litigations, i casi vengono classificati, in base al soggetto citato in giudizio, in due categorie: da una parte ci sono le cause contro gli Stati, accusati di inazione di fronte alla crisi climatica; dall’altra quelle contro le aziende responsabili delle emissioni e dei danni ambientali.
I contenziosi climatici rientrano nella definizione più ampia di “cause strategiche”: procedimenti avviati non solo per ottenere un esito giuridico o amministrativo, ma anche per produrre effetti mediatici e politici.
La Corte ha quindi ordinato al legislatore di stabilire, entro la fine del 2022, obiettivi chiari di riduzione delle emissioni. In risposta alla decisione, il Parlamento tedesco ha modificato la legge sul clima, fissando l’obiettivo di ridurre le emissioni di gas serra di almeno il 65% rispetto ai livelli del 1990 entro il 2030 e di raggiungere la neutralità carbonica entro il 2045, cinque anni prima rispetto alla data prevista dall’Unione Europea. Anche in questo caso, come in quello Urgenda, portare la questione climatica in tribunale si è rivelato un mezzo efficace per costringere uno Stato ad agire.
Un altro precedente importante – anche nel dimostrare l’efficacia dei contenziosi per allargare la sfera generazionale dell’attivismo climatico – è il caso KlimaSeniorinnen v. Switzerland, avviato nel 2016 da un’associazione di oltre duemila donne anziane. Le signore svizzere hanno sostenuto di essere, a causa dell’età e del genere, più vulnerabili alle ondate di calore estreme, notoriamente aggravate dal riscaldamento globale. Hanno quindi denunciato la Svizzera alla Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU), accusandola di non aver ridotto in modo sufficiente le emissioni di gas serra, mettendo a rischio salute e vita privata, contravvenendo così agli articoli 2 e 8 della Convenzione europea.
Ad aprile 2024, la CEDU ha stabilito che l’inazione climatica di uno Stato può violare i diritti umani e ha condannato la Svizzera per non aver adottato misure adeguate e trasparenti di riduzione delle emissioni. Ha anche ribadito il dovere degli Stati di proteggere soprattutto le categorie più vulnerabili. Un anno dopo, il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa ha riconosciuto alcuni miglioramenti legislativi da parte del Paese, ma ha chiesto ulteriori prove di coerenza con la sentenza.
Esistono diversi fattori che rendono difficile per cittadini, comunità o associazioni intentare cause contro governi o aziende, tra cui l’assenza di obblighi giuridicamente vincolanti, i lunghi tempi della giustizia, gli elevati costi legali.
Le difficoltà dei contenziosi climatici
A chiarire le principali difficoltà che ostacolano chi intenta una causa climatica è Luca Saltalamacchia, avvocato civilista esperto in materia: “L’assenza di indicazioni specifiche nei trattati internazionali sul clima è uno degli ostacoli più difficili da superare per ottenere una decisione positiva”, spiega al Tascabile. Il riferimento principale è all’Accordo di Parigi, che ha il merito di fissare un obiettivo mediaticamente forte – contenere l’aumento delle temperature ben al di sotto dei due gradi rispetto ai livelli preindustriali – ma non stabilisce come ciascun Paese debba contribuire concretamente alla mitigazione del riscaldamento globale.
Esistono quindi diversi fattori che frenano la diffusione e l’efficacia delle climate litigations: l’assenza di obblighi giuridicamente vincolanti nei trattati internazionali, i lunghi tempi della giustizia, gli elevati costi legali. Elementi che rendono difficile per cittadini, comunità o associazioni intentare cause contro governi o grandi imprese. Anche quando sono presenti solidi argomenti scientifici e giuridici, l’accesso alla giustizia climatica resta diseguale, ostacolato da barriere economiche, normative e istituzionali.
Un esempio è quello del contenzioso Milieudefensie v. Shell, tra i più noti a livello internazionale. Avviato nel 2019 dall’organizzazione olandese Milieudefensie, insieme ad altre associazioni e oltre 17 mila cittadini, il ricorso mirava a imporre alla compagnia petrolifera Royal Dutch Shell una riduzione sostanziale delle proprie emissioni. Dopo una prima sentenza storica favorevole ai ricorrenti – nel 2021 il tribunale distrettuale dell’Aia ordinava a Shell di ridurre del 45% le emissioni di CO₂ entro il 2030 rispetto ai livelli del 2019 – il procedimento ha incontrato un’inversione di rotta. Il 12 novembre 2024, infatti, la Corte d’appello dell’Aia ha ribaltato la decisione, stabilendo che non si possono imporre a Shell obblighi specifici di riduzione. Le associazioni ambientaliste stanno ora valutando se ricorrere in cassazione, soppesando le probabilità di successo, i costi legali e l’importanza di mantenere alta l’attenzione pubblica sulle responsabilità delle grandi compagnie.
L’Italia è tra i pochi Paesi europei a non avere una legge quadro sul clima, strumento che regolerebbe il processo di pianificazione e monitoraggio delle politiche climatiche.
Le cause climatiche in Italia
L’Italia è tra i pochi Paesi europei a non avere una legge quadro sul clima, strumento che regolerebbe il processo di pianificazione e monitoraggio delle politiche climatiche: il Parlamento italiano, eletto con elezioni democratiche, non è ancora riuscito ad approvarla. Questa mancanza genera difficoltà anche nelle decisioni della magistratura in materia climatica.
A spiegare il contesto italiano è di nuovo l’avvocato Saltalamacchia, che conosce bene le climate litigations in Italia anche facendo parte del team legale della prima e più nota causa italiana di questo tipo. Promossa nel 2021 da oltre 200 ricorrenti, l’iniziativa è chiamata Giudizio universale ed è rivolta contro lo Stato italiano, accusato di non attuare politiche efficaci per la riduzione delle emissioni. Secondo i promotori, questa inazione viola numerosi diritti fondamentali riconosciuti dalla Costituzione. A marzo 2024 è arrivata la sentenza di primo grado: il tribunale civile di Roma, pur riconoscendo la gravità della crisi climatica, ha dichiarato la causa inammissibile per “difetto assoluto di giurisdizione”. I giudici hanno sostenuto che la definizione delle politiche climatiche spetta alla sfera politica, non a quella giudiziaria, e hanno richiamato il principio di separazione dei poteri. Tuttavia, come sottolinea Saltalamacchia, “la sentenza della CEDU emessa il 9 aprile 2024 nel caso KlimaSeniorinnen v. Switzerland ha stabilito che il principio di separazione dei poteri non può essere invocato per impedire ai giudici di pronunciarsi su una causa climatica”. Il team di Giudizio universale ha fatto valere questa pronuncia nel ricorso in appello. La nuova sentenza è attesa nei primi mesi del 2027.
I casi italiani dimostrano che la mobilitazione per il clima attraverso lo strumento del contenzioso giudiziario, da sola, non è sufficiente. Per superarne i limiti, l’attivismo legale deve trasformarsi in capitale politico.
I casi italiani, come anche altri a livello internazionale, dimostrano che la mobilitazione per il clima attraverso lo strumento del contenzioso giudiziario, da sola, non è sufficiente. Per superare i limiti che ne riducono l’efficacia, l’attivismo legale – come ogni altra forma di attivismo – deve trasformarsi in capitale politico. Nelle democrazie, il mezzo a disposizione di ogni cittadina e cittadino per compiere questo passaggio è il voto. Eleggere parlamenti e governi capaci di approvare leggi a tutela del clima, adottare misure concrete contro il riscaldamento globale e porre fine agli incentivi alle fonti fossili è il primo passo per rendere incisiva anche l’azione nei tribunali. Solo così si può provare a scardinare uno dei pilastri dell’impunità climatica: l’idea che gli effetti della crisi siano troppo diffusi, indiretti o lontani nel tempo e nello spazio per poter essere attribuiti a un singolo soggetto. In questo modo, collegare la fusione di un ghiacciaio sulle Ande alle emissioni di una multinazionale in Germania – come nel caso Lliuya – potrebbe non sembrare più un’idea così folle.