S forziamoci di immaginare come dovevano apparire il mondo e l’ambiente ai nostri lontani antenati in quel lunghissimo periodo di tempo che chiamiamo “preistoria”. Immense foreste, fiumi senza argini né dighe che stagionalmente esondavano creando paludi e terreni umidi frequentati dagli uccelli e dalle loro prede, vaste aree boschive fitte e impenetrabili, animali selvatici, mari, fiumi e laghi ricchi di pesce: la forza e la ricchezza dell’incolto erano ovunque. I popoli di agricoltori da cui discendiamo hanno tenuto memoria soprattutto delle “paure” di quel mondo nelle fiabe e nei miti, nelle storie che si sono tramandate. Abbiamo meno tracce della ricchezza dell’incolto nel passato, a parte i racconti di paradisi perduti prima che Dio punisse l’uomo dicendo: “il suolo sarà maledetto per causa tua: ne mangerai il frutto con affanno, tutti i giorni della tua vita”.
Abbiamo studiato a scuola che la preistoria, l’epoca che precede l’agricoltura, la domesticazione degli animali e delle piante, la costruzione delle prime città, l’invenzione di forme di linguaggio scritto e l’apparire dei primi Stati, sarebbe caratterizzata dalla onnipresenza di società di piccole dimensioni, divise in bande di 100, 150 individui, tendenzialmente egualitarie. La mobilità, l’erranza, la povertà e una minacciosa dipendenza dalle risorse dell’ambiente caratterizzerebbero quelle che sono state definite società di “caccia e raccolta”, un tempo diffuse su tutto il pianeta. Poi, dopo l’ultima glaciazione, intorno a dodicimila anni fa, in varie parti della Terra sarebbe avvenuta la cosiddetta “rivoluzione agricola”: gli esseri umani impararono a piantare i semi, domesticarono i vegetali a tal punto da acquisire il potere assoluto di riprodurli, fecero lo stesso con alcuni animali e, creando villaggi e piccole città stanziali, cambiarono e (in genere, sottintendiamo) migliorarono radicalmente le loro condizioni di vita. I cacciatori-raccoglitori divennero progressivamente agricoltori o orticoltori e lentamente scomparvero dal teatro del mondo, salvo quegli sparuti gruppi che ancora nei nostri tempi sopravvivono dalle parti del Sud Africa, dell’Amazzonia o dell’Australia.
Questo vero e proprio “mito” di fondazione della società contemporanea narra che la grandezza dell’essere umano, la cultura, la civiltà, ma anche i suoi grandi tormenti – i conflitti, le violenze e le diseguaglianze – nacquero da quella capacità di dominare e manipolare la natura che coincide con l’invenzione dell’agricoltura, al punto da ergersi quale padrone del mondo. La cultura vince e sottomette la natura, presentandosi come la dominatrice dell’incolto. Le cose andarono veramente così? È una storia comprovata da elementi fattuali? L’agricoltura in sé rappresentò un progresso tale da imporsi autonomamente in tutto il globo per le sue qualità, per la sua capacità di migliorare la vita degli esseri umani? E soprattutto, l’agricoltura è necessariamente una lotta contro l’incolto, il tentativo di sostituire le forze e la ricchezza di quest’ultimo con le capacità creative e generative dell’umano e delle sue tecnologie?
Con la rivoluzione agricola la cultura vince e sottomette la natura, presentandosi come la dominatrice dell’incolto: è veramente così?
Il mito di fondazione delle nostre società contrappone nettamente il contadino che produce il proprio cibo (seppure con molta fatica) al cacciatore o alle raccoglitrici che “si limitano” passivamente ad acquisire le risorse dall’ambiente. In realtà, le cose sono molto, molto più complicate, se guardiamo più attentamente ai recenti studi sulla preistoria e ad alcuni aspetti dell’etnografia. Due studiosi americani, David Graeber, antropologo culturale, e David Wengrow, archeologo comparato, hanno tentato di recente di “scongelare” la preistoria, fornendo un quadro aggiornato delle conoscenze elaborate negli ultimi decenni che, letteralmente, stanno rivoluzionando la nostra visione del passato dell’umanità – e con essa le nostre visioni politiche del presente e del futuro.
Nel loro libro L’alba di tutto. Una nuova storia dell’umanità (2022), Graeber e Wengrow dimostrano che l’agricoltura si impose con molta lentezza e con parecchie difficoltà. Passarono più di 3.000 anni dalla comparsa dei primi semi domestici a una significativa diffusione dell’agricoltura. Non solo: fino alla dirompente e distruttiva espansione delle nazioni europee sul suolo americano, una fetta molto consistente di umanità rimase “affettuosamente” legata a forme di acquisizione di risorse dall’ambiente. Molti esseri umani vollero rimanere foragers, come si dice in inglese, un termine che la traduttrice italiana di Graeber e Wengrow rende con “foraggiatori”. È un neologismo discutibile, che tuttavia pare molto più adatto della vecchia definizione di “cacciatori e raccoglitori”, espressione tutta al maschile, o di quella di “società acquisitive”, espressione che nasconde una certa idea di passività nei confronti dei non umani.
A differenza di quanto recita il “mito” della rivoluzione agricola, la coltivazione di semi o di tuberi su larga scala e l’allevamento di animali domestici si diffusero con grande lentezza nel Neolitico, tanto più se li consideriamo come forme di produzione prevalente. Laddove vennero adottati, agricoltura e allevamento vissero per lo più a fianco di persistenti economie di caccia e raccolta. […] Nei secoli intermedi gli uomini misero alla prova l’agricoltura “giocando agli agricoltori”, oscillando tra modalità di produzione più o meno come avevano fatto con le strutture sociali. L’espressione “agricoltura per gioco” definisce “la propensione delle società umane a uscire ed entrare (liberamente) dall’agricoltura, a praticare l’agricoltura senza diventare soltanto agricoltori, a crescere colture e allevare animali senza cedere una parte eccessiva della propria esistenza ai rigori logistici dell’agricoltura, e in modo da mantenere una rete alimentare abbastanza ampia per impedire che la coltivazione diventi questione di vita e di morte”. L’agricoltura “per gioco” è un’agricoltura con l’incolto, non contro l’incolto.
Graeber e Wengrow dimostrano che l’agricoltura si impose con molta lentezza e con parecchie difficoltà.
I miti nascono, tramontano, si trasformano. Così è per il mito della rivoluzione agricola, croce e delizia della civiltà. Non regge più. Graeber e Wengrow non hanno intenzione di sottovalutare l’impatto straordinario e dirompente che l’agricoltura ebbe nei millenni a venire sulla storia dell’umanità. Ma vogliono demitizzarla mostrandone le incrinature. La prima incrinatura del mito, lo abbiamo già accennato, emerge dalla lentezza di diffusione delle pratiche agricole. Orzo, frumenti e legumi in Medio Oriente e poi in Europa; il riso, il miglio, i fagioli in Cina e in Asia; i girasoli, le zucche, i fagioli, il mais, le patate e la quinoa nelle Americhe si affermarono nell’arco di millenni e non senza stop and go, adozioni e rinneghi da parte di società che tornarono a praticare l’attività di caccia e raccolta in modo prevalente. Magari selezionando qualche pianta domestica e alcuni animali da affiancare al lavoro di foraggiatori.
La seconda incrinatura nasce dal fatto che la domesticazione di piante e animali, più che “contaminare” con il suo fascino civilizzatore le varie società con cui veniva in contatto, pare essersi diffusa laddove più esile era la presenza dei foraggiatori, laddove le risorse dell’incolto erano più scarse. Nell’Europa centrale l’agricoltura neolitica si diffuse nelle aree interne, lontane dalle coste dominate dai foraggiatori. In Oceania, i coltivatori di tuberi e i grandi viaggiatori austronesiani che colonizzarono il Pacifico a partire da 5.000 anni fa evitarono di “atterrare” sia nel continente australiano sia sulle coste delle Americhe, territori saldamente abitati da popolazioni di caccia e raccolta. In Amazzonia la penetrazione dell’agricoltura fu molto lenta e avvenne prevalentemente nella forma “per gioco”, cioè in convivenza con altre modalità di produzione alimentare, seguendo l’alternanza tra stagioni a prevalenza agricola e stagioni in cui a dominare erano la caccia e la raccolta.
L’etnografia delle società moderne e contemporanee evidenzia una terza importante incrinatura nel mito. Se davvero la domesticazione di piante e animali avesse avuto un ruolo così centrale e dirompente nell’evoluzione dell’essere umano, come si potrebbe spiegare il fatto che al tempo dei primi incontri con l’Occidente un intero continente – l’Australia – e porzioni molto rilevanti delle Americhe, dell’Asia e dell’Africa fossero ancora abitati da società di foraggiatori? Nativi australiani, nativi americani della costa nord-ovest e californiana e delle grandi pianure, aborigeni sud-africani, pigmei e altri cacciatori delle foreste del Congo, pescatori malesi e tutti gli altri popoli che vivevano in buona parte delle loro relazioni con l’incolto, possiamo considerarli come inguaribili primitivi? Incapaci di adottare l’agricoltura e l’allevamento? Attardati su vecchie forme produttive? E se la loro fosse stata una scelta?
Come si spiegano i popoli dell’incolto? Incapaci di adottare l’agricoltura e l’allevamento? E se la loro fosse stata una scelta?
Prende così corpo un’ulteriore incrinatura del mito della rivoluzione agricola. Ancora nei primi anni del Novecento, per quanto decimate da virus e violenza, molte società della costa nord-occidentale dell’America (tra Canada e Stati Uniti) e della costa californiana (tra Stati Uniti e Messico) ospitavano popolazioni di foraggiatori che furono studiati da antropologi famosi come Franz Boas e Walter Goldschmidt. Seppure molto diverse tra loro – con pescatori di salmone e cacciatori di pellicce molto competitivi e gerarchici nel Nord-Ovest, dove nacquero stili artistici straordinari di cui abbiamo molte testimonianze nei musei, o con raccoglitori di noci e pinoli in California, inclini alla modestia e alla frugalità – queste catene di società sono accomunate dal gran rifiuto dell’agricoltura. È impensabile infatti che non fossero in contatto con gli agricoltori di mais, di zucche e di fagioli che vivevano in prossimità. Perché rifiutare l’agricoltura?
In alcuni suoi recenti libri, James Scott ci spiega che in Mesopotamia la coltivazione dei cereali era alle origini un’attività faticosa e snervante (che comportava il controllo e spesso la costrizione al lavoro per schiere di agricoltori), che le società di foraggiatori della Mezzaluna fertile godevano di migliori condizioni di salute rispetto ai loro vicini coltivatori, che i cereali e altre coltivazioni di superficie si prestavano a essere controllati da forme di potere centrale, con l’imposizione di tasse e tributi. Ecco perché molti fuggivano. Ecco perché molte società preferivano l’attività acquisitiva. Forse, argomenta provocatoriamente Scott, ma non senza fondamento, i primi muri sorsero per “tenere dentro” la manodopera per le coltivazioni più che per “tenere fuori” i barbari che tentavano le razzie!
C’è un ultimo punto che vorrei sottolineare e che va a incrinare ulteriormente il mito della rivoluzione agricola: non è così semplice dire che cosa significhi “coltivare” un terreno. Quando gli esseri umani hanno cominciato a coltivare la terra? Quando hanno piantato il primo seme o quando per la prima volta hanno appiccato il fuoco a una radura per favorire la crescita del sottobosco e di conseguenza l’arrivo degli erbivori di cui si nutrivano? In realtà, dice Scott, la coltivazione di piante domestiche fu solo uno dei tanti modi di “progettare il territorio”:
Piantare un seme o un tubero è solo una delle centinaia di tecniche progettate per aumentare la produttività, la densità e la salute di piante appetibili ma morfologicamente selvatiche. Qualcuna di queste tecniche comprende l’incendio della flora indesiderata, la pulizia delle piante nocive di campi selvatici in cui crescono le piante e gli alberi preferiti, in modo da eliminare i competitori; e ancora: potatura, sfoltimento, raccolta selettiva, spuntatura, trapianto, pacciamatura, riposizionamento degli insetti protettivi, scortecciatura, taglio dei polloni, innaffiatura e concimazione. […] La domesticazione non si può considerare come una semplice attività di piantagione e pastorizia, ma deve essere vista in modo molto più allargato.
Quel che è certo è che la preistoria non fu solo un’epoca di piccole bande vaganti sul territorio come abbiamo creduto. Più studiamo questo lungo periodo nei diversi continenti, non solo in Europa, più ci accorgiamo che sono ampiamente diffusi grandi monumenti litici, ricche sepolture di personaggi di spicco che fanno pensare a nascenti gerarchie sociali, villaggi e piccole città stanziali, produzione di surplus e di derrate alimentari in sovrabbondanza, forme di schiavitù e dominio, arte e creatività. E tutto questo a volte decine di migliaia di anni prima che il clima neolitico vedesse la comparsa dell’agricoltura.
Gli uomini accumularono beni creando diseguaglianza e al contempo impararono a redistribuirli in modo equo anche prima e fuori dall’agricoltura.
Il ritrovamento di oggetti decorativi utilizzati nelle sepolture – conchiglie, ambra, minerali – a migliaia di chilometri di distanza dai luoghi di raccolta, ci fa pensare a culture regionali di ampia dimensione, a forme di cooperazione e scambio molto diffuse. Gli uomini accumularono beni creando diseguaglianza e al contempo impararono a redistribuirli in modo equo anche prima e fuori dall’agricoltura. E quest’ultima non può essere considerata la sola responsabile dei mali che ci assediano. Proprietà (famigliari e collettive) di terreni e risorse naturali esistevano prima e fuori dell’agricoltura. Peraltro, laddove quest’ultima si impose come modalità privilegiata di produzione di risorse, non sempre si costruirono recinti e barriere. […] La domesticazione di piante e animali, per quanto importante nei destini dell’umanità, è uno dei tanti punti in un continuum di acquisizioni che vanno dalla padronanza del fuoco all’esplorazione dello spazio all’uso massiccio di quell’incolto fossile formato da idrocarburi e gas.
Forse non è la coltivazione in sé a creare un discrimine nella storia umana. A differenza di autori come Timothy Morton, che vede nell’agricoltura neolitica le origini della separazione netta tra Natura e Cultura, non credo che l’agricoltura sia necessariamente l’origine dell’Antropocene, il punto di inizio di una storia che porta fino al riscaldamento climatico in atto. Fu il cambiamento del nostro rapporto con l’incolto il grande discrimine. Fu, come sostiene Amitav Ghosh in La maledizione della noce moscata, l’imporsi di una visione dell’altro-umano (i primitivi, i selvaggi) e dell’altro non umano (l’ambiente) come “cose” da sfruttare, risorse da estrarre, a segnare quell’inizio […]. Fu il passaggio da forme di convivenza con l’incolto – con o senza agricoltura – a cosmologie e forme di produzione che assolutizzarono il ruolo dell’essere umano nell’universo a creare le condizioni per uno sfruttamento senza fine – o meglio, fino alla fine – dell’incolto o di ciò che ne resta nelle profondità della Terra. La creazione di un muro tra Natura e Cultura fu parte di questo processo.
Un estratto da La via selvatica. Storie di umani e non umani di Adriano Favole (Laterza, 2024).