I n un mondo sempre più preoccupato per le sfide ambientali, dall’esaurimento delle risorse naturali all’inquinamento e alla crisi climatica, Alfonso Lucifredi affronta in Troppi. Conversazioni sulla sovrappopolazione umana e sul futuro del pianeta (Codice Edizioni, 2024) il tema della sovrappopolazione, intervistando esperti di vari settori per offrire una prospettiva approfondita su uno dei problemi più discussi della nostra epoca. In questo estratto dal libro l’intervista a Les U. Knight, fondatore del Movimento per l’Estinzione Umana Volontaria (VHEMT), il movimento internazionale che sostiene l’estinzione volontaria della specie umana tramite la teoria filosofica dell’antinatalismo. “Thank you for not breeding” (“grazie per non riprodurti”) è lo slogan del movimento: l’associazione conta oggi migliaia di iscritti e la loro idea di promuovere la denatalità si sta diffondendo in tutto il mondo.
Alfonso Lucifredi: Tra le varie proposte avanzate per risolvere il problema della sovrappopolazione, la soluzione della tua associazione è senz’altro la più, diciamo così, estrema. Qual è stata la traiettoria che ti ha portato a formulare un’idea così particolare come quella dell’estinzione volontaria dell’umanità?
Les Knight: Tutto è iniziato con l’attivismo ambientale, e in particolare con quella che veniva chiamata “ecologia profonda”. All’inizio degli anni Settanta, quando cominciai a interessarmi all’argomento, la sovrappopolazione faceva parte di qualunque dibattito e veniva inclusa tra le preoccupazioni per l’ambiente. Nel 1970, chi iniziò a organizzare l’Earth Day negli Stati Uniti era un attivista e un senatore, Gaylord Anton Nelson. All’epoca c’erano circa 3 miliardi e mezzo di persone al mondo, meno della metà di quanti siamo oggi, ma era comunque evidente a tutti che si trattasse di un problema enorme. Nel tempo, il movimento ambientalista si divise poi in due rami: l’ecologia profonda e l’ecologia sociale. Gli ecologisti sociali si preoccupavano dell’ambiente per come veniva influenzato dagli esseri umani. A me questo argomento non interessava, così mi sono orientato verso l’ecologia profonda, più attirato dalle questioni riguardanti la biosfera terrestre nel suo complesso. Noi facciamo parte della biosfera, ma, anche se attualmente abbiamo l’impatto più significativo su di essa, non rappresentiamo il suo elemento più importante. Realizzai dunque che noi esseri umani siamo il pericolo maggiore e, per questo motivo, mi sembrò chiaro che la risoluzione del problema passasse attraverso un azzeramento complessivo della crescita della popolazione umana. Era evidente che dovevamo diminuire i nostri numeri, e infatti negli Stati Uniti l’associazione Zero Population Growth era appena nata. Cominciò a contare varie sedi in tutto il Paese e io mi unii a loro. La loro campagna promuoveva di “fermarsi a due”: l’idea era che, se ogni coppia avesse avuto solo due figli, ci sarebbe stata una sostituzione degli individui presenti sul pianeta e la crescita della popolazione si sarebbe fermata. Mi resi conto, tuttavia, di quanto tempo ci sarebbe voluto prima di raggiungere una crescita zero. L’organizzazione stessa alla fine aprì gli occhi, infatti ha cambiato nome e ora si chiama Population Connection, perché si interessa all’aspetto demografico in relazione agli altri problemi che affliggono l’umanità e il pianeta. Il fatto è che stiamo crescendo a un ritmo di 80 milioni di persone in più ogni anno; per il momento questo andamento non è rallentato molto, figuriamoci fermarsi. Per cui ho capito che, anziché limitarsi a due figli, dovremmo fermarci una volta per tutte: smettere di riprodurci e orientarci verso l’estinzione. L’idea di un pianeta senza esseri umani non mi pare uno scenario poi tanto orribile. Per vari antinatalisti, l’estinzione umana non sarebbe una buona soluzione, ma a rifletterci bene non è una cattiva idea. Io ne sono convinto: noi che sulla Terra ormai ci siamo, e che moriremo prima o poi, smettiamo di aggiungere altre persone al nostro totale e andiamo incontro infine all’estinzione. Ovviamente non succederà, ma è comunque un’aspirazione. Proviamoci almeno. A questa idea sono arrivato così, seguendo un filo logico guidato dall’amore e dalla compassione.
AL: Quindi vorresti semplicemente evitare che si registrino nuove nascite nel futuro dell’umanità. Hai dovuto fronteggiare opposizioni forti per aver sostenuto un’idea così radicale?
LK: È molto facile liquidare la proposta come qualcosa di irrealizzabile; ciononostante, dopo aver creato il sito web, sono arrivate parecchie mail di odio. Spesso mi suggeriscono di dare io per primo il buon esempio e di togliermi la vita. Ma questi messaggi dimostrano solo il nostro condizionamento culturale natalista: auspicare l’estinzione del genere umano non significa desiderare una strage di massa, ma ritenere necessario che le persone smettano di riprodursi. La stessa cosa vale per le aziende: se un’impresa vuole adeguare le sue dimensioni, non licenzia tutti i dipendenti o una loro parte, semplicemente li invita ad andare in pensione senza poi sostituirli.
AL: La tua idea prevede un metodo non violento di scomparire dalla Terra; nulla di brutale, nulla di estremo. A mio avviso, tuttavia, c’è un problema pratico: quando si smetterà di generare figli, la società invecchierà sempre più, con gravi conseguenze economiche e di reperimento della forza lavoro necessaria.
LK: Sempre più articoli parlano dei pericoli di un tasso di natalità basso. La tesi di fondo è che la popolazione sta invecchiando e che non avremo abbastanza lavoratori per sostenere gli anziani. Questa tesi, però, è il frutto di una mentalità antiquata. I tempi in cui i giovani lavoravano in fattoria e portavano il cibo agli anziani nella loro casa colonica è finito; oggi possiamo contare sulla tecnologia. Gli Stati Uniti hanno un bilancio militare così gonfiato che si potrebbe dimezzare, e con l’importo in disavanzo fornire assistenza a tutti gli anziani del Paese, e probabilmente non solo negli Stati Uniti ma in gran parte del mondo. Quindi, in realtà, il problema non esiste. Pensare che per prendersi cura degli anziani si debba contare esclusivamente sulle tasse dei lavoratori più giovani è erroneo, perché quei soldi potrebbero benissimo provenire da altre fonti. Rispetto all’accudimento degli anziani, se il loro numero crescerà, e sempre che questa idea prenda piede, dovremo certamente prepararci. Ma abbiamo tempo in abbondanza per organizzarci, per capire come gestire al meglio un numero di persone via via ridotto, utilizzando sistemi per garantirci il cibo come la permacultura, per esempio. Non dovremo lavorare nei campi, perché le bocche da sfamare non saranno tante: potremo sopravvivere cibandoci semplicemente di quello che offre la Terra. Accadrà forse che, alla fine, chi resterà indietro dovrà aspettare la morte senza nessun mezzo per prendersi cura di sé, ma a quel punto gli esseri umani ancora in vita saranno pochi. Anche adesso, d’altronde, ci sono molte persone in situazioni difficili, malnutrite, non accudite, soltanto in attesa di morire. Ma ammetto che per gli ultimi sopravvissuti la situazione potrebbe essere spiacevole.
AL: Il progetto è dunque a lungo, se non a lunghissimo termine. Ma, ragionando per assurdo, avanzo un’altra ipotesi: se l’umanità non ammontasse a 8 miliardi di persone ma a un decimo del totale attuale, 800 milioni di persone, ci sarebbe ancora bisogno di azioni di questo tipo?
LK: Sì, perché è insito nella natura umana aumentare i propri numeri. Circa 70.000 anni fa, l’umanità intera si ridusse a soltanto 10.000 persone, come risulta dal nostro DNA, e da allora non è passato poi tanto tempo. Quindi penso che, finché ci saranno anche solo poche coppie riproduttive, potremmo un giorno tornare ai numeri in cui ci troviamo adesso. Significherebbe semplicemente rimandare nel tempo il nostro ritorno ai grandi numeri. Se fossimo in grado di mantenerci stabili intorno a qualche centinaio di milioni di persone, probabilmente non avremmo un impatto così negativo sul pianeta, ma questa ipotesi è un’utopia bella e buona. Siamo una specie molto tenace, pronta a riprodursi in qualsiasi momento.
AL: Al di là del VHEMT, altre persone o altri movimenti stanno cercando di affrontare la crescita umana in modo realistico o, diciamo, pratico? Molte voci affermano che siamo troppi, ma quasi nessuno sostiene pubblicamente che sarebbe il caso di fare meno figli, perché l’argomento è una sorta di tabù per varie ragioni sociali e religiose. Ci sono politici, movimenti o organizzazioni che invece ne parlano apertamente?
LK: Esistono varie organizzazioni che si muovono in tal senso, ma sono tutte molto caute proprio a causa di questo vigente tabù. Nessuna afferma con decisione che dobbiamo smettere di procreare tout court, che il mondo non può sostenere l’esistenza di altre persone. Inoltre c’è il movimento antinatalista, che ho citato prima, secondo il quale non abbiamo il diritto di far nascere qualcuno in un mondo in cui soffrirà, quando invece, se non verrà alla luce, non sarà destinato a provare dolore. L’idea si basa su una violazione del diritto umano e riguarda il consenso: chi non è nato non può darlo, per cui, in qualche modo, chi procrea sta costringendo un altro essere umano a esistere in un mondo pieno di contraddizioni. Il VHEMT non è un’organizzazione ma, insieme agli antinatalisti, siamo gli unici a sostenere questa tesi. Anzi, in realtà esiste un’organizzazione chiamata Stop Having Kids che non è interessata all’estinzione umana, per quanto quest’ultimo sarebbe il risultato finale, ma ritiene che non si debbano più dare alla luce nuove persone proprio per il bene di coloro che non sono stati generati. Anche nelle migliori condizioni di vita, sono convinti che almeno in parte saranno destinate a soffrire e che con ogni probabilità la loro morte sarà spiacevole. Persino i gruppi ambientalisti affermano che il problema di base non è la popolazione, ma il consumo: chi punta il dito sulla popolazione userebbe i poveri con famiglie numerose come capro espiatorio per giustificare il proprio consumo incontrollato. Il punto fondamentale sarebbe garantire una libertà riproduttiva universale. Ci sono centinaia di milioni di coppie che non vogliono procreare, e la mancanza di mezzi fa sì che quelli che noi chiamiamo salute e diritti sessuali e riproduttivi siano tristemente assenti. Potremmo cominciare da questo aspetto, perché al mondo si stimano 121 milioni annui di concepimenti non voluti, eppure solo 34 milioni si risolvono con aborti volontari, spontanei o altro. Quindi, se stiamo crescendo a un ritmo di 80 milioni all’anno, si rimuoverebbe dall’importo totale un numero consistente di nuovi nati ogni anno. Non saremmo ancora a quota zero, ma sarebbe un inizio.