

“B izet fa di me un filosofo migliore”, scriveva Nietzsche. Assisteva ai concerti del grande compositore francese con un taccuino in tasca, attento a contemplare l’effetto che la musica produceva nella mente e nel corpo. Annotava di come il ritmo fosse in grado di scuotere il sistema nervoso, guidare il movimento e risvegliare il pensiero. Colpito da frequenti emicranie che evolvevano in stati depressivi, Nietzsche trovava nella musica una sorta di medicina, qualcosa in grado di ridestare l’energia vitale nei momenti di stasi. Era convinto che quella vitalità trovasse la sua espressione più diretta nella danza, persino quando il corpo si muoveva entro limiti imposti e rigidi.
Lo ricorda Oliver Sacks, neurologo e scrittore britannico, che in Musicofilia (2008), raccoglie l’intuizione di Nietzsche e ne comprende le implicazioni in ambito clinico. Osserva che la musica e la danza sono in grado di riattivare alcune funzioni compromesse dal danno neurologico. Quando inizia a lavorare al Beth Abraham Hospital di New York, nel Bronx, nel 1966, Sacks si trova davanti a pazienti segnati da forme estreme di immobilità: sopravvissuti all’encefalite letargica, bloccati in posture rigide, oppure affetti da Parkinson in forma grave. Eppure, se sentono un ritmo, alcuni riescono a camminare. Altri, pur congelati nei gesti, danzano. Nel caso di Frances D., per esempio, era sufficiente la melodia giusta perché il corpo si liberasse da tic e blocchi. “Il Parkinson l’aveva smusicata”, appunta Sacks. Ma la musica, anche solo immaginata, le restituiva la grazia. In quelle stanze, il ballo diventava così un vero e proprio sostegno clinico.
La musica e la danza sono in grado di riattivare alcune funzioni compromesse dal danno neurologico. Il tango argentino, ad esempio, è oggi uno strumento riabilitativo per il Parkinson.
Il cervello che danza
Quando balliamo, il nostro cervello si attiva in modo diffuso e sincronizzato: la corteccia motoria e quella premotoria preparano ed eseguono i gesti, il cervelletto affina equilibrio e precisione, i gangli della base modulano il movimento, insula e corteccia cingolata anteriore elaborano gli stati emotivi e cognitivi. Secondo una review pubblicata su Neuroscience and Biobehavioral Reviews, la danza stimola in parallelo ritmo, controllo motorio, emozioni e interazione sociale, offrendo una finestra privilegiata su come il cervello integri corpo e relazione.
A differenza di altre tecniche riabilitative il tango non isola il movimento, ma lo intreccia in un dialogo motorio che coinvolge anche la sfera relazionale.
Nonostante il campo sia ancora giovane e manchi di protocolli comuni, la danza si sta affermando come un terreno fertile per esplorare come il cervello elabora il movimento, l’empatia e la creatività.
Di recente, per comprendere cosa accade nel cervello di chi balla, i neuroscienziati hanno cominciato a monitorare istante per istante l’attività cerebrale di chi si muove a ritmo, tramite l’utilizzo dell’elettroencefalografia. Emerge che ballare insieme migliora il coordinamento tra diverse regioni cerebrali, favorendo una comunicazione più efficiente tra le reti neurali coinvolte. Non solo: quando la danza è condivisa, questa sincronizzazione si estende anche tra persone diverse, dando origine a una sorta di “allineamento cerebrale”, un fenomeno che può verificarsi sia che si balli in due sia all’interno di un gruppo.
Questa particolare “risonanza cerebrale” non riguarda solo chi balla, ma anche chi osserva. Il progetto quinquennale Neurolive, lanciato nel 2020, ha esplorato proprio questo aspetto, analizzando l’attività cerebrale del pubblico durante alcuni spettacoli di danza contemporanea. Grazie all’uso dell’elettroencefalografia mobile e dell’hyperscanning, il team guidato dal neuroscienziato dell’University College London Guido Orgs e dal coreografo internazionale Matthias Sperling, ha osservato le onde cerebrali degli spettatori sincronizzarsi tra loro. Anche restando fermi, seduti in platea, i loro cervelli sembravano “danzare insieme”. I risultati sono pubblicati su Nature.
In un’intervista al Guardian, Guido Orgs ha spiegato che i dati hanno evidenziato delle singolarità rispetto alle ipotesi iniziali: invece delle onde alfa ‒ indicative di attenzione vigile, tipiche di chi segue una lezione ‒, a emergere sono state le onde delta, solitamente collegate a stati di concentrazione interiore e meditazione. Questo tipo di attività cerebrale sembra suggerire che assistere a una performance di danza assomigli a una vera e propria esperienza immersiva, un “sogno a occhi aperti” vissuto insieme agli altri spettatori.
Un gesto universale, un linguaggio preverbale
Ballare, quindi, potrebbe piacerci non solo per il benessere fisico che accompagna il movimento, o perché stimola cognizione e creatività, ma anche e soprattutto perché alimenta una profonda connessione con gli altri. La danza è infatti un atto profondamente collettivo, radicato in riti e forme di aggregazione che attraversano culture e secoli. Dai rituali di iniziazione alle danze di guarigione, dalle cerimonie matrimoniali alle feste popolari, fino alle folle in movimento durante i concerti o ai cortei. Ballare è da sempre un linguaggio condiviso, un gesto che, a seconda del contesto, può curare come evocare, unire come rivendicare.
Ballare insieme migliora il coordinamento tra diverse regioni cerebrali. Non solo: quando la danza è condivisa, questa sincronizzazione si estende anche tra persone diverse, dando origine a una sorta di “allineamento cerebrale”.
Muoversi a tempo, però, è un’altra cosa. La capacità di sincronizzare i propri movimenti con uno stimolo sonoro esterno, nota in ambito scientifico come entrainment, richiede un lavoro sofisticato di previsione, controllo motorio e coordinazione. Eppure, se agitiamo un sonaglio di fronte a un neonato di pochi mesi, vedremo le sue braccia agitarsi. Loro stessi, anche se con gesti disorganizzati, tentano di scuotere gli oggetti musicali con una certa regolarità, manifestando un impulso spontaneo verso la danza . Con l’età, i movimenti del braccio destro e sinistro si armonizzano sempre di più. A due anni, i bambini modificano il loro tempo naturale per avvicinarsi a quello di un partner, che sia un umano, un robot o perfino un video. Sei mesi dopo, i piccoli iniziano a sincronizzarsi: percepiscono il ritmo esterno e regolano i propri movimenti di conseguenza.
Uno studio pubblicato su Scientific Reports (2024) ha analizzato in modo dettagliato come evolve la capacità di entrainment tra i 6 e gli 11 anni, confrontando 190 bambini e un gruppo di adulti. Ai partecipanti è stato chiesto di “rimbalzare” sulle ginocchia seguendo diversi pattern ritmici a diverse velocità. Emerge che la precisione della sincronizzazione migliora con l’età, ma anche all’ultimo anno della scuola primaria i bambini non raggiungono ancora la fluidità degli adulti. Il corpo comincia ad adattarsi al ritmo, ma servono tempo, pratica ed esperienza per sviluppare una risposta motoria stabile e predittiva.
Un atto evolutivo
Che sia un ballerino esperto che disegna movimenti fluidi, un amatore che si muove con passo incerto sul pavimento di casa, un neonato che agita un sonaglio o un adulto che ripete una coreografia con precisione, ballare è sempre ‒ in forme più o meno consapevoli ‒ un modo per mettersi in relazione con lo spazio e con chi ci circonda, una pratica che ci aiuta a sintonizzarci con il mondo esterno e, allo stesso tempo, a sentirci parte di qualcosa.
Percepire il ritmo è un atto preverbale. Alcuni studi dimostrano che per riconoscere le cadenze musicali bastano pochi giorni di vita.
E se da un lato la ricerca scientifica si interroga su cosa renda la danza una parte così universale dell’esperienza umana, dall’altro ci si chiede quanto questo comportamento sia davvero esclusivo della nostra specie.
Ballare potrebbe avere avuto un ruolo nel nostro successo evolutivo, giocando un ruolo attivo nello sviluppo delle relazioni sociali, della comunicazione e della selezione sessuale.
Dieci anni dopo, Snowball ha dimostrato di essere in grado di elaborare fino a quattordici diversi movimenti ritmici, manifestati soprattutto durante l’ascolto di “Girls just want to have fun” di Cyndi Lauper. Per il team di scienziati della Johns Hopkins di San Diego, il comportamento di Snowball sarebbe un modo per interagire con chi se ne prende cura. Un atto slegato da richieste esplicite ‒ come la necessità di cibarsi o di accoppiarsi ‒ ma relazionato a comunicazione e socialità.
I primati, naturalmente, non sono da meno. Alcuni esperimenti condotti al Kyoto Primate Lab hanno dimostrato che gli scimpanzé reagiscono alla musica dondolandosi, battendo mani e piedi, e in alcuni casi sincronizzandosi con la cadenza dei suoni. In particolare, un esemplare maschio chiamato Akira ha mostrato una sensibilità al ritmo tale da avvicinarsi alla fonte sonora e muoversi in modo coerente sia con battiti regolari che irregolari. I ricercatori parlano di una propensione ancestrale al movimento ritmico, risalente a un antenato comune a umani e scimpanzé vissuto circa sei milioni di anni fa.
Un’altra ricerca, pubblicata nel 2025, ha rivelato che, proprio come gli esseri umani, scimpanzé e bonobo utilizzano le superfici come percussioni. In particolare, sono state documentate diverse centinaia di episodi di “percussione spontanea” tra 47 scimpanzé selvatici in Africa. I colpi sono spesso ritmici e variano da regione a regione, i pattern sono precisi e sembrano trasmessi socialmente, come in una sorta di microcultura sonora. “La struttura acustica del drumming varia tra individui durante gli spostamenti e il riposo, ma non nei comportamenti aggressivi, suggerendo che gli scimpanzé siano in grado di modulare la percussione per diverse funzioni sociali”, commentano gli autori; “Potrebbero servire a trasmettere ai membri del gruppo informazioni sull’identità, sull’attività o sulla posizione, facilitando dinamiche complesse”.
Uno strumento di coesione sociale e cura
Questi comportamenti hanno contribuito ad alimentare una riflessione molto ampia sulle radici della danza e della musica nell’evoluzione umana. Tra le più affascinanti, quella di Robin Dunbar, antropologo, psicologo evoluzionista e professore emerito dell’Università di Oxford. Dunbar è famoso per aver ipotizzato che esista un limite alla quantità di relazioni sociali stabili che un essere umano può intrattenere. Si tratta di circa 150 persone. È quello che oggi conosciamo come “numero di Dunbar”. Lo psicologo evoluzionista descrive informalmente questo numero come “il numero di persone con cui ti sentiresti a tuo agio a prendere un drink se le incontrassi per caso in un bar”. Non si tratta solo di conoscere nomi e volti, ma di essere in grado di collocare ciascuna persona in una rete relazionale più ampia, sapere chi è legato a chi, ricordare eventi condivisi, prevedere comportamenti. Nei piccoli gruppi di primati, questa funzione è garantita dal contatto diretto e ripetuto: la vicinanza fisica, i gesti di cura, le interazioni uno a uno mantengono saldo il tessuto del gruppo. Ma quando i gruppi umani si sono fatti più grandi, questi scambi non bastavano più. Avevamo bisogno di qualcosa che più rapidamente ci mettesse in connessione con gli altri.
La danza non sfama, non disseta, non produce oggetti, non garantisce vantaggi immediati, eppure tiene insieme i corpi, li rende sensibili al ritmo degli altri, riattiva circuiti biologici legati al piacere e alla cura.