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ell’estate del 1958, per settimane le strade di Notting Hill, allora ancora un quartiere operaio, furono teatro di una caccia spietata: bande di giovani bianchi attaccavano sistematicamente gli immigrati caraibici, mentre la polizia guardava da un’altra parte. L’anno dopo, in quelle stesse strade di Londra Ovest, accadde qualcosa di inaspettato: centinaia di persone della comunità caraibica si riversarono nei vicoli del quartiere con maschere colorate, musica calypso e il ritmo ipnotico degli steel drum. Era il modo più radicale per rivendicare il proprio diritto a esistere in quello spazio, per trasformare la paura in gioia. Quel primo carnevale di Notting Hill è diventato oggi uno dei più grandi d’Europa, ma la sua progressiva istituzionalizzazione racconta una storia più ampia: quella di come il potere ha imparato a temere – e quindi a controllare – la festa spontanea forse ancora di più della protesta esplicita.
C’era una volta la gioia collettiva: i rituali estatici di gruppo, le danze scatenate alla luce dei falò, le feste dei folli, le processioni mascherate e tutte le altre manifestazioni di massa che permettevano alle persone, maschi e femmine, giovani e vecchi, di esprimere insieme la propria joie de vivre. Nel saggio Una storia della gioia collettiva, pubblicato in Italia da elèuthera nel 2024 (il titolo originale era Dancing in the Streets. A History of Collective Joy), Barbara Ehrenreich racconta l’evoluzione di questi riti e si interroga su che fine abbiano fatto: sono scomparsi perché non ne sentiamo più l’esigenza? Sono stati cannibalizzati dalle istituzioni? Normati e strutturati fino a essere svuotati di ogni valore liberatorio? O esistono ancora, magari in forma diversa?
Ehrenreich, scomparsa nel 2022, è stata giornalista, scrittrice e attivista in ambito femminista e socialista. Memore del suo background accademico scientifico (una laurea in chimica e una in immunologia), non ha esitato a mettersi in gioco in prima persona per testare le sue teorie nel mondo reale. Nel 1998, a 57 anni, si è finta una casalinga in cerca di occupazione dopo il divorzio e per mesi ha girato gli Stati Uniti documentando l’America dei bassi salari, dei pasti consumati in piedi con un pacchetto di patatine e dei tanti stratagemmi che un’ampia fetta di popolazione mette in campo ogni giorno per la semplice sopravvivenza. Un reportage come Una paga da fame: come (non) si arriva alla fine del mese nel paese più ricco del mondo (2002) potrebbe sembrare molto distante da un saggio storico-antropologico sulla gioia, se non fosse che entrambi i testi rivelano l’interesse dell’autrice per il modo in cui la società ha plasmato la nostra percezione della qualità della vita.
Alla luce dei falò
Nei secoli le persone hanno sviluppato strategie per sperimentare una sorta di estasi comune: musica e danze, banchetti e alcol, maschere e travestimenti. La danza cerimoniale, per esempio, è un soggetto ricorrente nell’arte rupestre. L’ipotesi più accreditata tra gli antropologi è che la danza, soprattutto in cerchio e in fila, abbia avuto la funzione evolutiva fondamentale di incoraggiare gli esseri umani a vivere e cooperare in gruppi più allargati rispetto alle piccole bande di individui strettamente imparentati tra loro. L’antropologo e biologo evoluzionista Robin Dunbar, per esempio, nel suo Dalla nascita del linguaggio alla Babele delle lingue (1998) cita anche la danza come forma comunicativa fondamentale, ben più efficace del linguaggio per esprimere le emozioni.
L’ipotesi più accreditata tra gli antropologi è che la danza, soprattutto in cerchio e in fila, abbia avuto la funzione evolutiva fondamentale di incoraggiare gli esseri umani a vivere e cooperare in gruppi più allargati rispetto alle piccole bande di individui strettamente imparentati tra loro.
Il tempo sospeso
Tolti alcuni capisaldi come la danza e i travestimenti, i rituali di gioia collettiva hanno assunto forme diverse a seconda dei luoghi e delle epoche, ma c’è una tradizione che incarna meglio di ogni altra lo spirito della festa: il carnevale.
Filosofo e critico letterario, Michail Bachtin si è occupato a lungo di cultura popolare. Secondo i suoi studi, scrittori come Fëdor Dostoevskij o François Rabelais si inseriscono nel solco di una tradizione realistico-grottesca che ha la sua massima espressione nello spirito “carnevalesco” delle feste medievali, come la festa dell’asino o le feste dei folli, i cui prodromi a loro volta vanno ricercati nei Saturnalia romani.
Nel Medioevo il momento della festa era il rovescio del duro lavoro quotidiano. Inizialmente celebrate nelle chiese e avallate dalle istituzioni, le feste popolari divennero col tempo sempre più clandestine, continuando a esistere nelle strade e nelle taverne e introducendosi nelle celebrazioni del carnevale. Se le feste ufficiali servivano a consacrare l’ordine sociale esistente e quindi le disuguaglianze e la verità già data, il carnevale era al contrario la festa del divenire, il trionfo del mondo alla rovescia, il rifiuto di ogni carattere definitivo. E, naturalmente, l’abolizione di tutti i rapporti gerarchici. Le differenze di censo, sesso, età che dominavano indiscusse nella vita extracarnevalesca venivano sospese nello spazio e nel tempo della festa, ed entrava in vigore una particolare categoria: “il libero contatto familiare tra gli uomini”. Anche i codici linguistici mutavano e a dominare era il linguaggio familiare di piazza, arricchito da colorite imprecazioni e irriverenti bestemmie.
“Il carnevale avvicina, unisce, collega e combina sacro e profano, sublime e infimo, grandioso e meschino, saggio e stolto”, scrive Bachtin (Dostoevski. Poetica e stilistica, 1968). Se Ehrenreich individua nella danza il carattere distintivo fondamentale della festa, lui, da buon letterato, si concentra soprattutto sulla categoria del comico, sul riso liberatorio, che “era innanzitutto un riso di festa”. Non la reazione individuale a questo o a quel fenomeno ridicolo, ma un riso generalizzato, che scoppia di allegria ma è anche beffardo, perché c’è una sorta di impunità e di diritto all’irrisione che accompagna il senso carnevalesco del mondo.
Se le feste ufficiali servivano a consacrare l’ordine sociale esistente e quindi le disuguaglianze e la verità già data, il carnevale era al contrario la festa del divenire, il trionfo del mondo alla rovescia, il rifiuto di ogni carattere definitivo.
Uccidere il carnevale
Scrive Ehrenreich:
A un certo punto in una città dopo l’altra del mondo cristiano settentrionale, la musica si zittisce; i costumi carnascialeschi finiscono in solaio o sono venduti; le recite che un tempo coinvolgevano l’intera cittadinanza sono annullate; i rituali festivi vengono dimenticati o preservati soltanto in versioni addomesticate e tronche. La possibilità estatica, già espulsa dai sacri recinti delle chiese, ora viene scacciata anche dalle strade e dalle pubbliche piazze.
Poliziotti e pupazzi
Secondo l’antropologo David Graeber (Oltre il potere e la democrazia, 2013) la rappresentazione mediatica delle proteste no global si è cristallizzata in due fenomeni principali: i Black Bloc e i grandi pupazzi di cartapesta. Da un lato figure anonime, senza volto, un blocco compatto. Dall’altra una creativa scorribanda di divinità. Perché di divinità si tratta: “I mega-pupazzi”, spiega Peter Schumann, animatore del Bread and Puppet Theater, “non sono carini come i Muppets: sono effigi, sono divinità, sono creature dotate di un significato”. Sono buffi, multicolori e costruiti con materiali effimeri: “la derisione dell’idea stessa di monumento”, scrive Graeber, monumento che viene contraddetto nelle sue caratteristiche essenziali di solennità, stabilità e austera monocromia. Soprattutto, osserva Graeber, i poliziotti odiano i pupazzi. Addirittura più di quanto odino i Black Bloc. La strategia privilegiata è distruggerli prima ancora che facciano la loro comparsa sulle strade. È quello che è accaduto nel 2000 a Filadelfia, quando in occasione di una convention repubblicana era stata organizzata una Danza macabra di scheletri, a rappresentare le oltre 138 persone giustiziate in Texas durante il mandato da governatore di George W. Bush. La sfilata non ebbe mai luogo, perché centinaia di pupazzi, tra cui gli scheletri, furono distrutti dalla polizia nei giorni precedenti.
A differenza del lavoro nei campi – duro ma scandito dai ritmi stagionali – la fabbrica esigeva una produttività costante. Gli svaghi e l’ozio divennero così uno spreco intollerabile.
Depressione collettiva
Il poeta e saggista Samuel Johnson cadde nella depressione per la prima volta nel 1729, a 20 anni, quando per mancanza di fondi fu costretto a lasciare Oxford e tornare in famiglia. Ma non erano solo le prospettive di povertà e fallimento ad affliggerlo perché anni dopo, all’apice del suo successo, quelle angosce si ripresentarono. Ehrenreich ce lo racconta come esempio della cosiddetta “epidemia di malinconia” descritta nelle cronache inglesi e poi europee del Diciottesimo secolo, così simile a quello che possiamo osservare oggi a proposito della depressione.
Secondo l’autrice non è un caso che questa patologia emerga con l’affermarsi di un nuovo tipo umano nell’Europa moderna: un individuo solo di fronte alle proprie responsabilità, apparentemente autodeterminato ma in realtà ossessionato dal giudizio altrui. Per Ehrenreich, riprendendo Weber, è “il tremendo senso di isolamento psichico” prodotto da un’economia competitiva a minare il benessere psicologico. Il godimento collettivo e spontaneo diventa così non solo sospetto ma pericoloso per un sistema che richiede costante autodisciplina. Da questo punto di vista, la depressione non appare solo come una patologia individuale ma come il sintomo di una società che ha perso i suoi antichi antidoti. È di nuovo Nietzsche, nella sua analisi dei riti dionisiaci, a cogliere per primo il potenziale terapeutico dell’estasi. Un’intuizione confermata dall’esistenza in molte culture di rituali di guarigione – ne parla anche Andrew Solomon nel suo ottimo lavoro sulla depressione (Il demone di mezzogiorno, 2002) – attraverso cui le comunità si prendono collettivamente cura dell’individuo afflitto, esponendolo con musiche e danze a una gioia curativa che spazzi via l’isolamento.
L’eredità del carnevale confinato
Nella lotta plurisecolare tra il clero e i contadini festaioli, tra i puritani e i fautori del carnevale, tra i missionari e i seguaci delle religioni indigene sembra proprio che i primi abbiano prevalso. Ma prevalere non significa annientare: come le scintille di un fuoco mai spento del tutto, la gioia collettiva ha continuato ad accendersi spontaneamente, illuminando crepe inaspettate nel sistema di controllo. Lo vediamo nei grandi movimenti di protesta, come Occupy Wall Street o Black lives matter, che hanno riscoperto il potere sovversivo della musica e della danza, e nelle stesse forme musicali popolari – dal jazz al rock n’ roll – che hanno incarnato quella spinta che Ehrenreich descrive come l’impulso “a non stare fermo, ad alzarti dalla sedia”.
Se oggi il nostro carnevale è stato ridotto in buona parte a fenomeno folcloristico per compiacere un turismo sempre più invasivo, tra gli anni Cinquanta e Settanta fu soprattutto il movimento situazionista a farsi carico dell’antico spirito della festa. In una “società dello spettacolo” in cui la gente, invece di generare da sola i propri piaceri collettivi, si limita a consumare passivamente l’intrattenimento commerciale, Debord e compagni hanno cercato di riattivare l’antico spirito sovversivo attraverso la creazione di “situazioni” di rottura: spazi di gioco, performance spiazzanti e momenti di vita “non mediata” e improduttiva.
Se le gerarchie stabiliscono confini – chi può andare dove, chi può essere accolto e chi no, chi può avvicinarsi a chi – la festa popolare rimescola le carte e consacra una massa attiva che si riconosce tale.
L’intero spazio urbano, nelle progettazioni più recenti, viene ridisegnato per favorire un’esperienza sempre più individualizzata del piacere.