

È il 1784 e in Europa tutti parlano delle pratiche non convenzionali di Franz Mesmer. Il medico tedesco sostiene di poter curare una vasta gamma di patologie riequilibrando il “magnetismo animale” nel paziente (una sorta di fluido impalpabile che connette tutto l’universo), un potere taumaturgico che possiederebbero in pochissimi.
Quando Mesmer ripara in Francia, in fuga dall’Austria per incomprensioni con l’establishment medico viennese, Re Luigi XVI chiede una valutazione sulle pratiche non convenzionali del dottore. Pretende prove oggettive dell’efficacia del metodo. L’Accademia affida l’indagine a Benjamin Franklin, uno dei padri fondatori degli Stati Uniti, al tempo ambasciatore in Francia, che si mette subito al lavoro insieme a un gruppo di scienziati degno di nota: il chimico Antoine Lavoisier, l’astronomo Jean Sylvain Bailly e il fisico Joseph-Ignace Guillottin.
È durante le ricerche di questo gruppo di lavoro che l’effetto placebo fa la sua prima apparizione in veste moderna nella storia della medicina. L’idea si dice che venne a Lavoisier, che mette in pratica, documentandolo per la prima volta, un “esperimento in cieco”, dove i pazienti sono all’oscuro del trattamento che ricevono. In questo caso in cieco lo si intende letteralmente: i partecipanti vengono bendati. La pratica del mesmerismo prevede una serie di gesti che il medico esegue al fine di riequilibrare il magnetismo, mentre il paziente bendato ascolta la descrizione del procedimento in corso. In metà dei casi però – a sua insaputa – non accade proprio nulla: il medico resta immobile. Risultato? Lo stato fisico del paziente dopo la sessione è concorde con le sue credenze sull’efficacia del trattamento e non con la terapia: sostiene di sentirsi meglio solo chi, credendo al mesmerismo, pensa anche di aver effettivamente ricevuto il trattamento.
Da qui in poi, l’effetto placebo (letteralmente “io piacerò” in latino) entra nella letteratura della ricerca medica. Se Franklin e gli altri usano il termine “immaginazione”, per placebo invece s’intende la diminuzione dell’entità di alcuni sintomi, in genere dolorifici, provocato da una sostanza o una terapia inerte, creduta un farmaco dal paziente. Oggi ogni farmaco per essere messo in vendita deve necessariamente superare un certo numero di test clinici randomizzati e controllati. Questo significa, fra le altre cose, che il principio attivo deve aver superato in efficacia quello della sostanza che funge da placebo, una compressa di zucchero per esempio, in esperimenti in cieco o più spesso in doppio cieco (dove anche chi somministra il farmaco è all’oscuro dell’effetto del trattamento).
Di cosa parliamo
Esiste una definizione chiara e univoca dell’effetto placebo? Non proprio. “È buffo, in questo campo la [questione] più difficile è quella più fondamentale: che cosa è davvero l’effetto placebo “, commenta al Tascabile Leander Steinkopf. Steinkopf è un esperto di basi evolutive del placebo e di recente ha pubblicato un libro dal titolo Die andere Hälfte der Heilung (“L’altra metà della guarigione”, per ora disponibile solo in tedesco). “La versione breve è: l’effetto placebo è un miglioramento dello stato di salute causato da una sostanza inefficace. Questa è chiaramente una contraddizione in termini: come può una sostanza senza effetti provocare degli effetti?”.
Possiamo dire che si ha un effetto placebo laddove avviene una remissione dei sintomi patologici a seguito dell’assunzione di una sostanza inerte (una caramella per esempio), che viene offerta al paziente facendogli credere che si tratti di una medicina. Va detto molto chiaramente: il placebo non cura le malattie. È un dato consolidato, riassunto nella rassegna sistematica del 2010 commissionata dalla Cochrane, la famosa iniziativa britannica che si occupa di fare le pulci alla ricerca medica mondiale. Il report analizza oltre duecento trial clinici e stabilisce che l’assunzione di placebo ha un effetto solo su alcuni sintomi autonomamente riportati dai soggetti. Parliamo principalmente di dolore e nausea. Non bisogna tuttavia pensare che il placebo sia una sorta di simulazione o inganno: gli effetti sono genuini e non controllabili dal soggetto stesso.
L’effetto placebo è un miglioramento dello stato di salute causato da una sostanza inefficace: una contraddizione in termini.
Ted Kaptchuck, professore della Harvard Medical School e direttore dell’Harvard-wide Program in Placebo Studies and the Therapeutic Encounter, conferma che il placebo è efficace solo sui sintomi soggettivi (ossia quelli riportati dal soggetto ma che non sono accessibili, quindi misurabili in maniera oggettiva da terzi) e non influisce sulla malattia. Ma sono molte le dimensioni su cui ha un effetto: respiratorie, digestive, urogenitali, cardiovascolari, ecc. Secondo Fabrizio Benedetti – professore all’Università di Torino, autore di Placebo Effects: Understanding the mechanisms in health and disease (Oxford University Press) – sarebbe più corretto parlare di effetti placebo: al plurale. “Di effetti placebo ce ne sono diversi”, spiega al Tascabile, “poiché si manifestano su dimensioni diverse, come dolore, nausea, ansia, ed esiste persino un effetto nocebo, ossia il malessere evocato da una sostanza falsamente creduta nociva. Ognuno di questi ha i suoi meccanismi. Questo è uno degli equivoci più grossi quando si parla di placebo”.
Da molti punti di vista rimane comunque un paradosso. Quando risponde a un trattamento placebo di fatto il nostro organismo sta essenzialmente curando se stesso. Perché questo miglioramento non avviene spontaneamente?
La maggior parte della (corposa) mole di ricerche che fin qui ha riguardato il placebo si è concentrata sostanzialmente sulle modalità in cui l’effetto si verifica: quali sono i meccanismi psicologici, quali le condizioni che lo modulano e più di recente quali processi fisiologici e biochimici entrano in gioco. Stranamente, sono invece molti meno gli scienziati che lo hanno affrontato da una prospettiva evolutiva. Quali forze della selezione naturale hanno condizionato la comparsa di questo fenomeno? Svolge una funzione precisa o è una conseguenza di altri adattamenti?
Una questione evolutiva
Uno dei maggiori studiosi di effetto placebo dal punto di vista evolutivo è Nicholas Humphrey, ex professore dell’Università di Cambridge. “A me è sempre interessato più il come del perché”, mi dice. Per Humphrey l’effetto placebo sarebbe un modo con cui il sistema immunitario ottimizza le risorse. Se è vero che il nostro organismo è in potenza capace di curarsi da solo in molti casi, spiega, è altrettanto vero che però non è conveniente restare in una condizione costante di allerta immunitario, perché i danni potrebbero essere maggiori dei benefici. La sua ipotesi, pubblicata qualche decennio fa, è rimasta tuttavia poco nota. Negli ultimi tempi, grazie anche al lavoro di altri giovani ricercatori, sta trovando nuovo vigore.
Un lavoro del 2013 condotto da Peter Trimmer e colleghi e pubblicato su Evolution and Human Behaviour ha spiegato con maggior dettaglio, utilizzando un modello matematico, quello che sembra un punto controverso dell’idea di Humphrey: perché, per entrare in azione, il sistema immunitario aspetta un segnale esterno? Come racconta Trimmer al Tascabile, in realtà la “decisione” (in senso inconscio) dell’organismo di mettere in moto le difese immunitarie, quando lo stato patologico non è immediatamente pericoloso per la vita, dipende da un processo di negoziazione tra fattori ambientali e interni all’organismo. Lo scopo è quello di massimizzare non tanto la sopravvivenza dell’individuo, quanto il “valore riproduttivo”, ossia la capacità di mettere al mondo dei figli, una popolare misura della fitness. Le due cose infatti non coincidono: un individuo può sopravvivere ma la malattia potrebbe renderlo sterile.
Per Nicholas Humphrey l’effetto placebo sarebbe un modo con cui il sistema immunitario ottimizza le risorse.
Il bilancio costi-benefici porta all’attivazione del sistema immunitario o al ritardo della stessa. Tra le tante variabili può entrare in gioco anche il placebo, che nella visione di Trimmer è un segnale ambientale (ingannevole, perché il sistema “vede” placebo ma “pensa” farmaco) che comunica che quello è un momento conveniente per mobilitare la difesa immunitaria. Se infatti si trattasse davvero di un farmaco, sostengono Trimmer e colleghi, significherebbe che ci troviamo in un contesto di cura, quindi più sicuro, dove è probabile trovare protezione e risorse sufficienti, anche alimentari. L’associazione fra farmaco (vero o falso che sia) e il contesto di cura è spesso appresa attraverso il condizionamento e quindi può agire in maniera inconscia.
Da notare che invece in alcuni casi la negoziazione fra i vari fattori in gioco può portare l’organismo a ritardare la risposta immunitaria. Se infatti pur avendo una gamba rotta, ci sono in giro dei predatori, è più conveniente non sentire dolore e scappare, nonostante questo possa aggravare la ferita. Con il loro modello, Trimmer e colleghi spiegano anche effetti paradossali come il nocebo, il negativo del placebo, dove una sostanza inerte che si crede possa essere nociva porta effettivamente a uno stato di malessere.
La spiegazione di Humphrey e il modello di Trimmer si occupano sostanzialmente del rapporto fra l’individuo e il suo ambiente, in senso ampio. Un’altra affascinante ipotesi che vale la pena di menzionare qui è quella formulata da Steinkopf, nel 2015 e successivamente ripresa in altri lavori, che invece tira specificamente in ballo la natura sociale dell’essere umano.
Sintomi
“I sintomi per cui è efficace il placebo sono quelli provocati dal sistema immunitario stesso”, spiega Steinkopf, “e la ricerca sul placebo dimostra che la qualità soggettiva delle cure e del supporto sociale, insieme alle aspettative sul trattamento, influenzano i risultati delle terapie”. Prima di illustrare la Signaling Theory of Symptoms (STS) di Steinkopf, è utile rispolverare il significato di exaptation negli studi sull’evoluzione: un tratto che si evolve con una funzione originale può, successivamente, assolvere funzioni diverse; come piume e penne, selezionate per la termoregolazione e poi usate per il volo. Torniamo al sistema immunitario: un armamentario complesso di processi fisiologici (ma in senso molto ampio possiamo includere anche alcuni comportamenti) che permettono all’organismo di superare gli stati patologici, combattendo i patogeni, rimarginando ossa e ferite, e la cui funzione dal punto di vista evolutivo è piuttosto chiara. Ci sono alcune risposte immunitarie molto tipiche che spesso sbagliando interpretiamo come sintomi della malattia. La febbre, che innalza la temperatura per rendere l’ambiente ostile ai patogeni. O il dolore, che è una condizione che ci spinge ad allontanarci dalla fonte di pericolo (con il quale ci siamo scottati, tagliati), o a metterci in uno stato di riposo utile per recuperare le forze o, ancora, a chiedere il soccorso altrui.
Inoltre l’uomo è un animale sociale, che ha fatto della cooperazione una delle sue armi vincenti. Secondo Steinkopf la manifestazione evidente di certi sintomi patologici (dolore, nausea, gonfiori ecc.) nel corso della storia evolutiva sarebbe stata rinforzata dai comportamenti di cura dei conspecifici, che avrebbero aumentato la probabilità di sopravvivenza del malato. Insomma, quando i comportamenti di soccorso sono apparsi nella storia evolutiva, i sintomi visibili della malattia sono diventati un segnale utile.
Ci sono alcune risposte immunitarie molto tipiche che spesso sbagliando interpretiamo come sintomi della malattia.
Non siamo l’unica specie in cui i membri del gruppo si aiutano. Ampia documentazione esiste per scimpanzè, topi e persino nei passeri. Questo spiegherebbe perché secondo alcuni l’effetto placebo esiste anche in altri animali oltre all’uomo. Dal punto di vista di chi aiuta, il vantaggio evolutivo dei comportamenti altruisti è spiegabile con la “reciprocità ritardata” o con l’aumento della buona reputazione del soggetto nel gruppo. I comportamenti di aiuto sarebbero inoltre un segnale onesto della qualità come partner.
Data questa propensione degli altri al soccorso, i sintomi (dolore, nausea) selezionati a scopo strettamente immunitario avrebbero assunto anche una funzione di natura comunicativa, utile a massimizzare la probabilità di ottenere cure. Più i sintomi sono evidenti, più alta è la probabilità di ricevere aiuto, per questo motivo la selezione avrebbe favorito l’esagerazione dei sintomi, a un livello superiore a quello necessario a scopo immunitario. La STS inoltre spiegherebbe anche altri fatti osservati, per esempio i comportamenti autolesivi manifestati da certi individui depressi, dove la richiesta d’aiuto diventa talmente estrema da sforare nel patologico.
Cure e cultura
Quindi quando stiamo male stiamo simulando? No, perché questi sono sintomi “costosi” per l’organismo (fan male davvero) e quindi onesti. Inoltre, in quanto esagerati fin quasi oltre la soglia di sicurezza, non possono essere mantenuti troppo a lungo e non appena arriva il “segnale” giusto, l’atto di cura, la pillola o il placebo, la loro intensità diminuisce.
Attenzione, non stiamo ancora parlando di placebo in senso stretto. Il fenomeno sin qui descritto è noto con il nome di social buffering e identifica l’evidente recupero fisico (osservato negli esseri umani, in altri primati e nei topi per esempio) che un soggetto sofferente mostra dopo aver ricevuto cure e attenzione da parte dei conspecifici.
Come si passa quindi dalle cure amorevoli di una madre, un amico o un medico a una anonima e asettica (finta) pillola? “L’effetto placebo è flessibile e adattabile al contesto culturale”, precisa Steinkopf. Ogni cultura ha infatti le sue peculiarità, anche per quel che riguarda l’assistenza ai malati: fin dall’antichità ogni società aveva i suoi metodi, i suoi rimedi e i suoi riti. Pratiche che potrebbero avere origini davvero antichissime. Ci sono studi che suggeriscono addirittura che semplici trattamenti terapeutici dovevano esistere anche fra le tribù di Neanderthal. Nei siti archeologici sono stati infatti ritrovati fiori con proprietà mediche note ancor oggi e alcuni scienziati hanno ipotizzato che potessero essere stati usati come rimedio farmaceutico.
Secondo Steinkopf, l’effetto placebo ci rimetterebbe in contatto con alcuni aspetti ancestrali del nostro essere umani.
Accanto alla componente “umana” del trattamento, l’accudimento alla persona, vi sarebbe perciò anche una costellazione di usanze, trattamenti e liturgie associate al processo di cura e guarigione. Il nostro cervello sarebbe in grado di apprendere, per via culturale ma anche attraverso il condizionamento, l’associazione fra trattamento specifico e atti di cura.
Un’osservazione piuttosto sorprendente chiarirà quanto possa essere flessibile questa associazione. Alcune ricerche (la più recente del 2012, di Juan Undurraga e Ross Baldessarini) hanno dimostrato che negli ultimi trent’anni gli antidepressivi più comuni, nonostante non vi sia stato alcun cambiamento nei principi attivi, sono diventati statisticamente più efficaci. Oggi la gente risponde meglio al Prozac di quanto facesse trent’anni fa. Perché? “Può essere interpretato”, spiega Steinkopf, “come un effetto di apprendimento su vasta scala: nel corso degli anni gli antidepressivi sono diventati parte della cultura medica popolare”. I pazienti avrebbero dunque imparato (non necessariamente attraverso l’esperienza diretta, ma per via culturale) che questi farmaci sono un trattamento efficace e il sistema di “segnalazione” rappresentato dai sintomi funzionerebbe in accordo. Questo è inoltre una prova che anche nei veri farmaci esiste una componente placebo, e questo ci riporta all’inizio di questo articolo dove si spiegava la necessità di testare ogni nuovo farmaco comparandolo al placebo.
Secondo Steinkopf, l’effetto placebo è una cartina tornasole del fatto che non saremmo perfettamente adattati al nostro attuale ambiente industrializzato, e ci rimetterebbe in contatto con alcuni aspetti ancestrali del nostro essere umani. “In opposizione al modello meccanicistico che ci ha portato così tanto progresso, malattia e guarigione sono anche fatti profondamente sociali. Problemi sociali provocano sintomi fisici”, conclude Steinkopf. “La malattia è socialmente incorporata, proprio perché a differenza di molti altri animali nella nostra storia evolutiva abbiamo ricevuto aiuto quando eravamo ammalati. Abbiamo dato tempo a un osso rotto di rinsaldarsi, a una ferita di richiudersi, mentre per altri animali il destino è sempre stato quello di morire di fame o di essere mangiati. Se nella nostra storia non ci fosse stato il ruolo del soccorritore e del guaritore, non ci sarebbe oggi l’effetto placebo”.
______________
Errata corrige: una precedente versione di quest’articolo indicava Benjamin Franklin come uno dei primi presidenti degli Stati Uniti d’America. Benjamin Franklin, scienziato e politico, è stato uno dei Padri fondatori degli Stati Uniti.