L a cosa che subito mi ha colpito di Silvia De Toffoli è stata il suo “bilinguismo”: la rara capacità di abitare in due culture molto diverse, che le dà l’opportunità di affrontare una disciplina come la filosofia della matematica in maniera unica, senza pregiudizi o luoghi comuni. De Toffoli (1984) è infatti una filosofa e una matematica: ha un dottorato in matematica conseguito alla Technische Universität Berlin e un secondo dottorato in filosofia presso la Stanford University. Oggi è ricercatrice presso la Princeton University. Ho conosciuto De Toffoli attraverso qualche sua apparizione sulle riviste, ho approfondito poi alcuni suoi articoli e sono riuscito a incontrarla di persona durante un workshop al Dipartimento di Matematica dell’Università di Bologna. L’ho intervistata qualche settimana prima che vincesse una fellowship di un milione di dollari alla Wallenberg Academy. “Sono molto emozionata, è davvero un’occasione unica”, mi ha raccontato quando l’ho ricontattata per complimentarmi. “Il progetto si chiama: Humanizing Mathematical Knowledge: Fallibility, Technology, and Know-How. Si tratta di unire l’epistemologia analitica – cioè la teoria della conoscenza – e la filosofia della matematica”. Lo scopo della ricerca sarà quello di produrre un’analisi del sapere in matematica che non sia ridotto a questioni puramente logiche, ma che tenga in considerazione aspetti che hanno a che fare con il modo in cui noi esseri umani ragioniamo. “Insomma, un’analisi propriamente filosofica (e non psicologica o sociologica). Ma non troppo idealizzata. L’idea è di spiegare come l’oggettività matematica possa essere raggiunta da soggetti che, come tutti noi, sono imperfetti, limitati, e commettono errori”. Durante la nostra intervista avevamo avuto modo di parlare dello scisma fra le cosiddette “due culture”, di come paesi diversi si rapportano alla cultura scientifica, del modo in cui matematica, filosofia, letteratura si intrecciano nella sua visione interdisciplinare. Di come la matematica sia un’attività molto umana, fatta di comunità e confronto con gli altri, piena di conflitti, di buchi e di meraviglia. E dei nostri interessi comuni, a partire da Jorge Luis Borges.
Borges è stato il motivo per cui anche io ho fatto matematica. C’è una frase in Metempsicosi della tartaruga, dove afferma che avrebbe voluto scrivere una “biografia dell’infinito”. Dice: “cinque, sette anni di apprendistato metafisico teologico matematico mi metterebbero in grado forse di pianificare decorosamente questo libro”. Con la grande ingenuità e ambizione dei diciottenni, avevo deciso che sarebbe stato un ottimo percorso di studi, pensavo che in nove anni ce l’avrei fatta. Il mio proposito è fallito miseramente poco dopo, ma Borges, Benoît Mandelbrot (il fondatore della geometria frattale) e Kurt Gödel sono stati i motivi per cui volevo studiare matematica. E uno dei primi shock è stato poi rendermi conto che la matematica che fai all’università non c’entra niente con quelle cose lì. Non le tocchi mai. O almeno a me non è mai capitato.
A Roma, nel 2004! C’ero anche io: Hofstadter ha influenzato moltissime giovani menti. C’era anche John Nash in quell’occasione, e c’era Mandelbrot.
Al primo anno di università, con un mio collega che adesso è professore, Giovanni Mongardi, abbiamo fatto un piccolo generatore di frattali con il software Mathematica: era lentissimo, funzionava malissimo, ma era una soddisfazione enorme vedere queste creazioni prendere forma. C’è un lato estetico nella matematica innegabile: non solo visuale, intendo, ma filosofico: che cosa vuol dire “bellezza” in matematica? Quando ho scoperto – sempre al primo anno di università – che la sezione aurea si poteva scrivere anche in forma di frazioni continue, la cosa mi ha scioccata, mi ero fatta anche il poster da appendere in camera.
È una cosa innegabilmente bella, di cui non si capisce il perché.
Qual è stato il tuo percorso di formazione?
Al momento dell’iscrizione all’università sono stata indecisa dunque fra matematica e filosofia: se fossi stata negli Stati Uniti avrei fatto entrambe le cose, dato che si può. In Italia purtroppo si deve scegliere. E quindi dopo un po’ di incertezza ho deciso per matematica prima, perché rompere il ghiaccio è più difficile. Ho coltivato la filosofia con alcune letture da autodidatta, qualche corso facoltativo, come Storia del pensiero scientifico. A Bologna ho fatto un corso su alcune opere filosofiche di Poincaré – La scienza e l’ipotesi, Il metodo della scienza – e mi sono appassionata.
Poincaré è uno dei tuoi riferimenti, lo citi spesso.
Dato che mi è sempre piaciuto viaggiare, ho seguito il secondo anno di università in Canada. Là ho fatto matematica in maniera un pò diversa: in Italia è ultra teorica, mentre là anche più pratica, con molti esercizi. Durante la specialistica ho fatto l’erasmus a Parigi, dove ho fatto questo corso di topologia algebrica con il professore Patrick Popescu-Pampu, a cui sicuramente devo molto del mio amore per Poincaré: lui ci faceva studiare sugli articoli originali, in un corso tecnico, a Matematica. È qualcosa che non si fa mai.
In quel momento sono stata indecisa se intraprendere studi più filosofici, tipo filosofia della scienza o logica, ma alla fine ho continuato con un dottorato in topologia algebrica, questa volta alla Berlin Mathematical School. Lì ho studiato teoria dei nodi, e quando il mio livello di tedesco è diventato sufficiente, anche qualche corso filosofico per dottorandi.
In uno di questi, vennero due professori norvegesi Dagfinn Føllesdall e Øystein Linnebo a farci un seminario di una settimana proprio su filosofia della matematica, ed è stata un’epifania. Ho capito che era la mia direzione. Uno dei due professori mi ha consigliato, dopo il dottorato in matematica, di provare a ottenere un nuovo dottorato negli Stati Uniti – dove è pagato, e dove avrei potuto avere una formazione più solida in filosofia, che mi mancava. Sono riuscita a farlo a Stanford. Dopo altri viaggi ed esperienze di studio, lavoro a Princeton.
Hai fatto anche qualcosa su letteratura e matematica?
Ma non sono riuscita ad approfondire a livello filosofico neanche il tema della bellezza matematica. Non troppo, almeno, mi piacerebbe dedicarmici più seriamente. Sono già stati fatti un po’ di lavori ma non li trovo esaustivi, quindi mi piacerebbe analizzare meglio la questione.
Immagino sia difficile trovare qualcuno che abbia solide basi sia in matematica che in filosofia, per studiare la questione in maniera “seria”, accademica, sufficientemente competente per entrambe le comunità. Non ce ne sono molte di persone “bilingue” come te. Un filosofo della matematica spesso non sa davvero fare matematica.
C’è un libro che ha recentemente avuto un buon successo fra i lettori italiani: Quando abbiamo smesso di capire il mondo, dello scrittore cileno Benjamin Labatut. È un esperimento interessante di commistione fra narrativa e non fiction. Racconta, romanzandole, diverse storie di scienza tra cui quella di Shinichi Mochizuki, matematico giapponese che dice di aver risolto la congettura abc, considerata uno dei nodi più difficili da sciogliere, in matematica.
Sia le storie di finzione di Labatut che le storie reali sono enormemente affascinanti, e ci pongono vari interrogativi. Uno degli aspetti, per esempio, di cui ancora non mi capacito, è il fatto che in matematica puoi risolvere teoremi molto importanti, ma può non esserci letteralmente che tre-quattro persone al mondo che capiscono la teoria e la dimostrazione. Non credo ci sia una situazione analoga in altre scienze.
E ha speso gli ultimi anni della sua vita a promuovere l’uso di software chiamati interactive proof assistant, che praticamente permettono di costruire una prova formalizzata, che può essere controllata nei suoi singoli passaggi. Anche Scholze sta andando in questa direzione. A volte però non è un discorso di tecnica, ma di specializzazione: magari la branca della matematica di cui ti occupi non interessa a nessuno. Il caso di Mochizuki è emblematico in questo senso, perché qui si tratta di una persona che ha apparentemente inventato strumenti nuovi per risolvere una congettura famosa, ma non riesce e non vuole spiegarsi con nessun’altro, se non la sua comunità ristretta di matematici giapponesi. Sicuramente anche il suo carattere “chiuso” non aiuta: lo stesso Scholze è andato qualche settimana in Giappone e discutere della sua dimostrazione, cercando di capire tutti i dettagli della dimostrazione, ma si è arrivati ad un punto morto. Secondo Scholze c’era un passaggio che era problematico e necessitava di essere chiarito meglio. Secondo Mochizuki no, ed è rimasto inamovibile. Scholze alla fine è dovuto tornare in Germania e il problema è ancora lì, dopo anni.
Questo è un ostacolo enorme, ci segnala che c’è una comunità matematica disfunzionale: quando c’è un problema, una comunità che funziona ha le risorse e le procedure per risolverlo, in qualche modo. Legato a questo c’è un progetto che sto scrivendo proprio adesso in collaborazione con Claudio Fontanari, che fa geometria algebrica all’Università di Trento. Proprio su un caso di una controversia che è durata decenni in matematica tra Severi ed Enriques, che sono due degli esponenti principali della scuola italiana della geometria algebrica a cavallo tra il Diciannovesimo e il Ventesimo secolo. Anche qui si tratta di un caso di discordia “recalcitrante”, cioè insoluta, che continua nel tempo: il segno che è la comunità stessa ad avere un problema con i suoi processi e procedure.
Stiamo praticamente parlando di sociologia della scienza.
E le discussioni non sono solo sugli assiomi! La poca letteratura sul disaccordo in matematica infatti è sempre stata concentrata sugli assiomi. Penso per esempio al dibattito su l’intuizionismo di Brouwer, sui metodi costruttivi, sui grandi cardinali, sull’assioma della scelta nella teoria degli insiemi, sul quinto postulato di Euclide…
Invece anche nella vita “pratica” di un matematico si possono trovare delle controversie su alcune inferenze, cioè il processo di affermare “da questo fatto deriva questo altro fatto”. Ci possiamo chiedere se una “inferenza” sia valida o meno: e una comunità matematica “sana” dovrebbe avere procedure e strumenti per rispondere sempre a questa domanda. Non dico che sia una cosa facile, ma, in teoria, a forza di affrontare insieme tutti i dettagli, si dovrebbe riuscire a trovare un accordo.
Nelle tue conferenze ti ho sentita citare spesso varie scuole di pensiero matematico, tra cui l’intuizionismo di Brouwer. Luitzen Brouwer è stato un personaggio interessante: fra i più restrittivi e “conservatori”, se così si può dire, in matematica, ma anche capace di scrivere un trattato mistico-filosofico come Vita, arte, mistica.
Quindi chi ha “vinto”, come scuola filosofica?
Ci sono poche storie scientifiche eccitanti e incredibili come la storia della matematica nei primi decenni del Novecento. Mi ha sempre stupito come, anche a scuola, si studi il Novecento con le sue “crisi” delle forme e le sue rivoluzioni – nell’arte, nella letteratura, nella musica, in fisica – ma si sia sempre tralasciata la matematica. Faccio fatica a decidere se sia più profonda una crisi della nostra visione della realtà come quella portata dalla meccanica quantistica, o una crisi di quello che ritenevamo un universo ordinato e indubitabile, il paradiso del pensiero razionale, come la crisi che abbiamo vissuto in campo matematico, appunto.
Nel 1930 Hilbert aveva pronunciato un famoso discorso ad una conferenza di matematici e fisici, in cui disse “Wir müssen wissen, wir werden wissen”, Noi dobbiamo sapere, noi sapremo! Per ironia della sorte Gödel aveva presentato il suo teorema di incompletezza proprio il giorno prima, di fatto rispondendo: no, non sapremo mai. Le parole di Hilbert sono incise anche sulla sua tomba.
Mi rendo conto che stiamo anche noi, senza volere, riproponendo il topos del matematico genio, isolato, a volte pazzo.
Come vedi tu, dall’alto del tuo punto di vista di una persona che da vent’anni studia e cammina avanti e indietro sul confine, la narrazione delle “due culture”, umanistica e scientifica?
Immagino che il contesto accademico non aiuti il sapere non puramente specialistico: sei obbligato a produrre, a pubblicare o perire come si dice in gergo.
Durante uno dei tuoi seminari hai parlato dei folk theorems, in matematica. Cosa sono?
Il problema è che quando qualcuno si mette di impegno e a pazientemente scrivere tutti i dettagli e i passaggi di questi teoremi, il suo paper non viene accettato, perché il risultato è già conosciuto da tutti… Però non è scritto da nessuna parte! Quindi c’è un paradosso. C’è un problema di assegnazione del merito: merito che, come sappiamo, in accademia è moneta corrente per ottenere borse di ricerca, cattedre, ecc.
Prima accennavi all’uso di computer per aiutare i matematici. Può essere davvero questa la giusta via per affrontare alcuni dei problemi di cui soffre la matematica oggi? Quante tecniche di “assistenza software” esistono?
Cioè a creare una prova formale, verificata dallo stesso computer. Questi programmi sono interattivi perché ci aiutano a dividere la dimostrazione in tante piccole parti, che possiamo formalizzare passo dopo passo. Alla fine quindi ci permettono di ottenere una dimostrazione che è diventata una sorta di codice e che viene automaticamente verificata dal software. Quello che si ottiene è un teorema matematico (un’affermazione con una sua dimostrazione) in un linguaggio informatico, che il computer stesso ti valida. Questo significa praticamente costruire piano piano un archivio di teoremi matematici scritti in codice: più ce ne sono, meglio potranno funzionare questi strumenti in futuro, perché potranno attingere a più risultati.
Quindi tutto sommato forse lo costruiremo davvero quel famoso “edificio della matematica”.
Ma tutto ciò non risolve il problema alla base: se i matematici stanno litigando su qualcosa, non sarà certo un software a risolvere la questione. Perché dovresti comunque trovare un consenso su come formalizzare le cose per scriverle in codice… Il software, in sè, è un matematico stupido. Ma con una memoria eccezionale.