N el folto del bosco in Val di Sole domina il silenzio. Si sente solo il lontano gorgogliare di un ruscello e il ronzio sparuto di pochi insetti. Il bosco ci sembra immobile, immutabile, semideserto. Eppure, nel loro silenzio operoso, milioni e milioni di Ips typographus stanno colonizzando gli abeti rossi intorno a noi. Se siamo vicini all’approssimarsi dell’autunno, potremmo pensare che gli aghi color ruggine che ricoprono sempre più piante siano legati alla stagione, ma l’abete rosso è un sempreverde, e deriva il suo nome dalla tinta della corteccia e non delle foglie. La verità è che gli alberi con chiome di questa sfumatura stanno morendo, finiranno per perdere tutti gli aghi e diventare grigi: a ucciderli è proprio l’Ips typographus, un coleottero che abbiamo imparato a conoscere col nome di bostrico e a considerare il flagello dei boschi italiani.
Non si tratta, come per molti esseri viventi di cui si sente parlare ultimamente perché dannosi per l’ambiente, di una specie invasiva: in Europa il bostrico è endemico, è un naturale abitante dei nostri boschi ed è fondamentale per la perpetuazione della foresta come ecosistema. Il suo obiettivo abituale, infatti, sono gli alberi indeboliti, troppo vecchi o in situazioni di difficoltà fisiologica, sotto la cui corteccia scava intricate gallerie, interrompendo il flusso della linfa e avviando così il processo di decomposizione del legno morto. Per capire come e perché il bostrico sia diventato d’un tratto il problema dei italiani ho parlato con Andrea Battisti, entomologo dell’Università di Padova, e Cristina Salvadori, per diversi anni ricercatrice in entomologia forestale, ora funzionaria del Servizio Fitosanitario della Provincia autonoma di Trento.
Quello che in genere è il normale ciclo di vita che avviene nei boschi, in maniera equilibrata, è stato stravolto da una serie di eventi che hanno favorito il proliferare del bostrico con numeri che, sottolinea Salvadori, “non si erano mai visti prima sull’arco alpino”. L’eccezionalità è data proprio dall’entità del fenomeno: la soglia epidemica è riconosciuta a livello europeo a 8.000 individui catturati per trappola per anno, il valore medio per trappola nel 2020 era di tre volte superiore, quello massimo era più di 24 volte oltre il limite. I valori sono leggermente calati nel 2021, per poi tornare a livelli preoccupanti nel 2022. Per quelli del 2023 sarà necessario attendere la fine delle rilevazioni. Ma come ha fatto, quindi, un insetto che popola da sempre i nostri boschi a causare tanti danni al suo ambiente?
Il bosco ci sembra immobile eppure, nel loro silenzio operoso, milioni e milioni di bostrichi stanno colonizzando gli abeti rossi intorno a noi.
L’epidemia di bostrico ha avuto come causa principale la tempesta Vaia e come concausa la siccità della stagione estiva del 2022. A questo si sono aggiunti i danni da neve che si erano verificati soprattutto in Alto Adige, e in parte anche in Trentino e in Veneto, nella stagione invernale 2019-2020. Il 28 ottobre 2018 Vaia ha provocato la caduta di milioni di alberi in diverse regioni: si è trattato di un evento senza precedenti, provocato da condizioni particolarmente avverse per gli abeti rossi, che hanno un sistema radicale superficiale, particolarmente vulnerabile alla combinazione di piogge abbondanti seguite da venti straordinariamente potenti. Conseguenza della catastrofe di Vaia è stato il diffondersi del bostrico, che ha trovato un’abbondante fonte di cibo nei tronchi degli alberi abbattuti.
Nel corso di due o tre anni la sua popolazione è aumentata esponenzialmente, ma una volta esaurite le risorse a terra – gli alberi sradicati dopo qualche tempo non sono più graditi al bostrico, che ricerca i tessuti vivi del floema tra il legno e la corteccia – gli insetti ormai numerosissimi si sono riversati negli abeti rimasti in piedi, risparmiati dalla tempesta. Questi ultimi all’inizio hanno resistito all’invasione dell’insetto, ma la prolungata siccità e le temperature più elevate del normale nel 2022 – giugno e luglio senza pioggia hanno provocato un terribile stress idrico – hanno causato il crollo delle loro difese, lasciando campo libero al coleottero in vaste aree del Trentino, Alto Adige, Veneto e Friuli-Venezia Giulia.
Anche l’etologia di questo animale, in ogni caso, ha avuto un ruolo importante nella sua rapida proliferazione. Il bostrico nasce, si alimenta e cresce all’interno dei tronchi colonizzati, rimanendovi finché non raggiunge la maturità sessuale. A quel punto, in condizioni normali di presenza endemica, il bostrico può allontanarsi anche di un paio di chilometri o più per andare alla ricerca di nuove piante sofferenti da colonizzare. Quando invece siamo di fronte a un’epidemia, il suo istinto cambia sensibilmente: per riprodursi, il bostrico non compie più grandi tragitti alla ricerca di piante sofferenti, ma colpisce direttamente quelle sane.
Di solito i pionieri sono maschi, mi spiega Salvadori: “cercano un albero da attaccare, entrano, scavano una camera nuziale – quello è il foro d’ingresso che può essere identificato – e poi richiamano le femmine attraverso un feromone di aggregazione, che nel frattempo attira anche altri maschi sulle piante vicine. Il maschio si accoppia in media con due femmine, che a quel punto iniziano a scavare le loro gallerie e a deporre le uova. In questa fase la pianta aumenta la resinazione nel tentativo di difendersi e da sana passa a uno stato di sofferenza”.
Dopo il periodo di incubazione nascono le larve, che sviluppano gallerie perpendicolari al tronco, attraverso il floema, e in questo modo tagliano i vasi che trasportano la linfa, facendo deperire l’albero fino alla morte. In seguito, le larve di bostrico evolvono in pupe, e di lì a poco raggiungono la maturazione. La durata di un intero ciclo di sviluppo è di solito di 6-8 settimane a seconda delle temperature, quindi al massimo in un paio di mesi la pianta attaccata è morta: questa è anche la finestra entro cui si può intervenire per rimuovere gli alberi che contengono ancora gli insetti – farlo più tardi, quando si sono già involati, non avrebbe senso.
A quote elevate il bostrico si riproduce una sola volta l’anno, mentre a quote più basse arrivano di solito a compiersi due generazioni, che possono diventare tre in annate particolarmente calde. Ogni femmina depone in media un’ottantina di uova: non tutte arriveranno a fine sviluppo, ma in ogni caso la numerosità della prole dà un’idea della dimensione del problema. Al termine del ciclo riproduttivo annuale gli adulti cercano un posto in cui svernare, che può essere all’interno delle loro gallerie o più spesso nelle scaglie della corteccia. Negli inverni molto freddi la sopravvivenza si attesta intorno al 20-30%, mentre in quelli miti o caldi può arrivare dell’80% o più. Quando le temperature esterne, in primavera, raggiungono i 18°C circa, il bostrico esce e ricomincia un nuovo ciclo.
La diffusione del bostrico è stata subito inquadrata come una piaga da estirpare con ogni mezzo e ad ogni costo.
Nella straordinaria diffusione del bostrico non c’è nulla di intrinsecamente malvagio, e anche se ci fosse la natura si è evoluta senza tener conto dei nostri principi etici. Eppure il fatto che il proliferare di questo insetto stia distruggendo un tipo di paesaggio a cui siamo abituati e affezionati ha suscitato una ferma reazione di disprezzo e disgusto nei confronti di questo animale, declassato a entità non vivente, una piaga da estirpare con ogni mezzo e ad ogni costo. Come scritto da Massimo Sandal a proposito di altri esseri che consideriamo poco desiderabili se non addirittura inferiori: “così come in guerra togliamo l’umanità ai nostri nemici umani, noi togliamo ai nostri nemici biologici la dignità di viventi. Ben di rado ci soffermiamo sul fatto che quei parassiti, benché causino sofferenze, sono esempi dell’evoluzione tanto quanto un brontosauro o una sequoia”. Lo stesso Sandal cita come rara eccezione il necrologio poetico di un nematode a rischio estinzione scritto da Carl Zimmer su National Geographic:
Se faremo estinguere Dracunculus medinensis nei prossimi anni, avremo eliminato una malattia che un tempo era spaventosamente diffusa. Ma avremo anche spazzato via una creatura notevole, di cui sappiamo in realtà molto poco. Quando ho fatto ricerche recenti sulla storia naturale del verme, non ho trovato quasi nulla. Quasi tutto quello che abbiamo scoperto sul verme, lo abbiamo scoperto tempo fa. Nessuno ne ha sequenziato il genoma. Nessuno ha usato nuove tecnologie di colorazione per illuminare i suoi neuroni. Non sappiamo da quanto tempo infettasse l’umanità, o da dove venisse prima di allora. Quel poco che sappiamo dovrebbe incuriosirci su quanto non sappiamo – e che potremmo non sapere mai più.
Dovremmo in sostanza riflettere sulla prospettiva antropocentrica, e capire che il nostro modo di guardare e plasmare la natura a nostro piacimento può portare a volte a problemi o danni che non avremmo immaginato. “Giocare a fare Dio”, quando non si conoscono tutti i collegamenti e le dinamiche che esistono negli ecosistemi, può provocare qualche scottatura e – si spera – un buon bagno d’umiltà.
Tornando al bostrico: per riconoscere che una pianta è stata attaccata, il sintomo principale da osservare è il cambiamento di colore, di solito piuttosto repentino. La chioma, da verde, diventa rossiccia, rosso scuro, infine grigia, poi cadono gli aghi. Per determinare se la causa della morte dell’albero sia l’attività del bostrico o di un altro organismo è necessaria un’attenta ispezione della corteccia: il bostrico è detto “tipografo” perché scava un sistema di gallerie dalla forma caratteristica e riconoscibile. Sulle Alpi, l’abete rosso è il suo ospite preferito, rappresentando il 99% delle vittime. Nei boschi fortemente colpiti, si possono osservare abeti rossi morti e larici o abeti bianchi vivi intorno.
Se la pianta è sana, giovane, in buone condizioni fisiologiche, in fase di crescita e robusta, si difende bene dai tentativi di colonizzazione del bostrico. Gli alberi hanno sistemi di difesa sia fisici, come alcune caratteristiche della corteccia, sia chimici, come le sostanze che servono proprio a respingere gli attacchi infestanti. La pianta è ben protetta se non è molto indebolita, o caduta a terra per vento o neve, almeno quando l’insetto è in fase endemica. Quando però si manifesta una fase epidemica, con diverse centinaia o addirittura migliaia di individui per metro quadro di corteccia, il bostrico può attaccare anche piante sane e portarle a morire, perché tutte le difese, seppur efficaci, hanno un limite.
Dal punto di vista della gestione forestale, il danno si misura in metri cubi di legname o in superficie, ovvero in ettari di bosco. Un abete rosso, quand’è maturo, può costituirsi di 1,5-2,5 metri cubi di legno, a seconda del suo diametro. Il danno di Vaia su tutto l’arco alpino meridionale, per intenderci, è stato di circa sedici milioni di metri cubi, anche se probabilmente si tratta di un dato sottostimato, in cui rientrano le aree molto grandi, mentre le microaree non sono state conteggiate. “Per il bostrico esiste una stima aggiornata alla primavera del 2023”, mi dice Battisti, “cioè a prima del danno di quest’anno: si parla di circa 16 milioni di metri cubi, come per Vaia. Le province più colpite sono Udine, Belluno, Trento, Bolzano, e poi in Lombardia Brescia e Sondrio”.
Si è scelto di piantare boschi di abete rosso perché ha un grande valore economico, cresce velocemente e conferisce un particolare aspetto al paesaggio.
L’aspetto forse più interessante che gli esperti hanno osservato nel corso del 2022 e del 2023 è che l’attacco si è spostato in alto: anche i boschi che sembravano meno suscettibili, situati a quote medio-alte, quindi fino al limite del bosco a 1.900-2.000 metri, sono stati colpiti. Questo è stato il risultato della calda estate del 2022, che ha spinto gli insetti più in alto, consentendo loro di avere due generazioni annuali fino al limite del bosco. Nel 2023 questo fenomeno sembra essersi un po’ contenuto, almeno dai dati preliminari.
Si potrebbe pensare che la morte di tanti alberi stia causando grandi danni alla biodiversità: in realtà quest’ultima sta aumentando, perché le zone di pecceta – ovvero di bosco di abete rosso puro – sono relativamente povere da questo punto di vista. È curioso come sia per noi automatico pensare che anche altre forme di vita siano in sofferenza per quanto sta succedendo ai nostri luoghi da cartolina. Aprire superfici nel bosco, invece, ha permesso a molti gruppi di piante e animali di colonizzare queste zone, prima precluse. Ora sono arrivate le piante, gli insetti associati, gli impollinatori, gli erbivori, c’è stata una fortissima ripresa della biodiversità vegetale e animale, che sarà però temporanea, fino a quando la copertura forestale non verrà ristabilita. Nel momento in cui ci si troverà a gestire eventi analoghi a quelli di Vaia e all’epidemia di bostrico, si potrebbe valutare di mantenere alcune aree aperte, in modo da creare un mosaico di situazioni.
Abbiamo sempre ritenuto resistenti i nostri boschi sulle Alpi, perché caratterizzati da selvicoltura naturalistica, dove l’abete rosso ha il suo ruolo, ma mescolato con altre specie. Questi eventi, però, ci costringono a riconsiderare le nostre scelte. Innanzitutto dobbiamo riconoscere che la nostra immagine del bosco uniforme di abete rosso è un’immagine antropica, falsa: quegli alberi sono stati piantati dagli esseri umani, non sarebbero cresciuti in quel modo se non li avessimo coltivati. È stata fatta questa scelta perché l’abete ha un grande valore economico, cresce velocemente, conferisce un particolare aspetto al paesaggio: per questo lo abbiamo spinto, introdotto e conservato anche in situazioni in cui altre specie di alberi sarebbero state più adatte.
I boschi alpini naturali, che non esistono più in nessuna zona delle Alpi, sarebbero cosa ben diversa. Quello che noi siamo abituati a vedere è il prodotto delle nostre azioni, ma non è detto che dal punto di vista ecologico, della biodiversità o della funzionalità sia quello migliore. È quello che fino ad ora abbiamo pensato rispondesse meglio alle nostre esigenze di gestione del territorio, perché l’abete rosso fornisce un prodotto e dei servizi per i quali esiste un equilibrio economico. Quello che potrebbe dare un bosco naturale avrebbe certamente dei valori diversi sia in termini di biodiversità sia in termini di produzione: la qualità e la tipologia del legname che si potrebbe estrarre sarebbe diversa rispetto a quella che si può ottenere da un bosco puro coltivato di abete rosso – se per esempio vogliamo produrre travature di ottima qualità o legno di risonanza per fare strumenti musicali. Abbiamo una visione antropocentrica del problema che spesso ci distoglie da quello che dovrebbe essere il contesto naturale.
In fondo, siamo noi che abbiamo creato le condizioni per rendere il bostrico epidemico: se non fosse per la coltivazione dell’abete rosso e per il riscaldamento globale, il bostrico rimarrebbe lì dove è sempre stato, svolgendo le sue azioni senza interferire con gli interessi umani. I boschi che abbiamo oggi sono il risultato delle piantagioni di abete rosso effettuate dopo la prima guerra mondiale, a partire dagli anni ‘20 del secolo scorso, e sia Vaia sia il bostrico sono una lezione che dobbiamo imparare e applicare per gestire meglio i boschi alpini nei prossimi 100-200 anni. “I forestali che lavorano con noi”, mi spiega Battisti, “stanno predisponendo dei piani di successione del bosco forestale verso modelli che siano più resistenti ai disturbi, sia di tipo meteorologico o abiotico, sia di tipo biologico. Si pensa di andare verso strutture miste come composizione, dove insieme all’abete rosso ci siano altre specie di alberi che possano ricostruire la copertura, ma in modo più resistente”.
Se si rimane nell’ambito delle conifere ci sono il larice e l’abete bianco, le due specie principali dell’arco alpino assieme all’abete rosso: a seconda del clima è più adatta l’una o l’altra. Se si pensa invece alle latifoglie ci sono l’acero di monte, il frassino maggiore e il faggio, dove quest’ultimo è in grado di crescere, perché ha dei limiti climatici piuttosto chiari. Poi esistono altre specie accompagnatorie, come le betulle, i sorbi, i salici, ma che comunque non vanno a comporre il bosco finale. Si tratta di specie che intervengono nelle fasi pioniere di colonizzazione, perché occupano le zone aperte, ma sono temporanee, rimangono 15-20 anni, fino a quando le specie che diventano definitive subentrano e divengono dominanti.
In fondo, siamo noi che abbiamo creato delle condizioni tali per rendere il bostrico epidemico.
In ogni scelta bisognerà poi tener conto dell’effetto dei cambiamenti climatici: l’aumento della temperatura influenza la crescita degli alberi, e l’abete rosso è una delle specie che ne risentono di più, essendo stato diffuso dagli esseri umani a quote e situazioni termiche non sempre molto positive per il suo sviluppo. Il clima sarà sempre meno favorevole per la sua sopravvivenza, mentre diventerà sempre più adatto per altre specie arboree, che dobbiamo pensare di introdurre già oggi, perché i boschi del futuro non avranno la stessa vita climatica dei boschi del passato. Questo cambiamento nella pianificazione forestale dovrà avvenire perché, anche quando l’emergenza bostrico sarà passata nel giro di qualche anno, le condizioni climatiche non miglioreranno e quindi i boschi saranno sempre suscettibili a questo tipo di minaccia, che potrebbe anche ripresentarsi ciclicamente.
Secondo Battisti, “tornare a piantare l’abete rosso adesso sarebbe un errore colossale: non è da eliminare, ma bisogna mescolarlo, avere dei boschi che siano misti, con una componente di non abete rosso che sia abbastanza importante, in modo che anche se quest’ultimo verrà colpito il bosco non scomparirà e tutti i servizi che fornisce rimarranno in piedi”. Dove Vaia o il bostrico hanno colpito più duramente, infatti, cominciano a manifestarsi fenomeni di erosione, caduta massi, crollo di alberi su strade e manufatti, con danni sempre più rilevanti. Una delle funzioni più importanti del bosco sulle Alpi è quella della tutela del territorio, ancor più di quella produttiva, che a confronto è marginale. Nessuno paga per il servizio che il bosco rende per la difesa del suolo, ma quando questo viene a mancare si verificano frane, valanghe, problemi alla circolazione.
Per quel che riguarda il bostrico, arginare un’invasione conclamata ed estesa come quella attuale non è possibile. Si può fare qualcosa nelle zone meno colpite, come il basso Trentino e alcune aree dell’altopiano di Asiago, dove un intervento oculato di sgombero del primo materiale infestato può consentire al bosco di rimanere difeso, riducendo il numero di insetti in grado di uccidere gli alberi. Dove l’epidemia è in stato avanzato, invece, come in Val di Fiemme, Primiero, Vanoi, Comelico, Agordino, Pusteria, non c’è nulla da fare. Non abbiamo strumenti per poter intervenire, possiamo solo seguire il monitoraggio, utilizzare il legno dove questo ha ancora un valore economico – dopo lo sradicamento, per un anno il tronco rimane vendibile – e pensare a ricostruire il bosco in modo che sia più resistente. Siamo abituati a vedere il mondo a nostra immagine, siamo ormai convinti che i boschi da noi costruiti siano naturali anche se così non è, e quando un piccolo insetto si rende “colpevole” di una distruzione che noi operiamo su scale molto più ampie, fatichiamo ad accettarlo. Si può dire che, per quel che riguarda la devastazione dell’ambiente, nessun altro essere può superarci.