R icordo perfettamente come i miei nonni paterni, entrambi contadini, reagivano alle improvvise grandinate estive che infuriavano sulla campagna. La nonna sfilava da sotto il letto un rametto d’ulivo consacrato che si era procurata in chiesa, la domenica delle palme. Spiluccava le foglie rinsecchite una a una, le affastellava sul lastricato sotto al portico di casa e le incendiava con un fiammifero. Con solennità salmodiava i tridui, che assieme al fumo balsamico liberato dal minuscolo falò avrebbero dovuto acquietare l’ira divina e placare, così, la tempesta. Il nonno invece, aspettava in silenzio che lo scroscio sgonfiasse, dopodiché smurava impavido il crocifisso che tenevamo in cucina e lo legava alla sella della bicicletta con un lungo spago bianco. Me lo vedo ancora, sghembo sulla sua bici arrugginita, spedalare tra i filari con il Cristo di legno sballottato alle sue spalle. Il nonno faceva così per mostrare a Dio i danni che l’imprevedibilità climatica aveva causato al suo raccolto, al suo lavoro, alla sua stirpe.
I riti paleocattolici dei mei progenitori appartenevano al lembo terminale di quello stadio mitico della storia durante il quale gli esseri umani attribuivano agli dèi la stabilità e la mutevolezza del clima. Come ebbe a dimostrare James Frazer ne Il ramo d’oro (1915), avveniva a ogni latitudine culturale che alle calamità naturali si tributasse un’origine metafisica: ovunque si credeva che il mondo visibile non fosse altro che la rappresentazione di quello invisibile, regolato dalle potenze insondabili del numinoso. Per migliaia, forse decine di migliaia di anni l’apparato rituale delle religioni è stato l’unico dispositivo utile a propiziarsi quelle forze arcane, a interferire con il regime delle piogge, a piegare la volubilità climatica in favore della vita umana. In una parola, a preservare la systasis, l’armonia fra il divino e il naturale.
Rispetto al tempo in cui i miei nonni praticavano il loro sciamanesimo naturale, la comprensione fisica del mondo è diventata molto più profonda e diffusa, la natura si è completamente dissolta nelle mani degli scienziati, e quei riti dimenticati sono stati rimpiazzati dalle più moderne tecniche di geoingegneria che cominciano a essere sperimentate per la manipolazione artificiale del clima. Nonostante di fondo vi sia lo stesso fine – intervenire sull’ordine o sul disordine naturale – e la stessa promessa di salvezza, il passaggio dalla teologia naturale all’ambientalismo scientifico è irreversibile: nessuno più si metterebbe a pregare di fronte a una grandinata anomala, o a un ghiacciaio che si scioglie. Oggi quel ghiacciaio possiamo provare a ricongelarlo.
Il pianeta nuovo
Di geoingegneria si comincia a parlare in termini non più fantascientifici solo nel 2011, dopo la COP17 sul clima che si tenne a Durban, in Sudafrica. Da allora il termine designa la scienza applicata che ingloba tutte le tecniche di manipolazione antropica e consapevole degli equilibri climatici e ambientali. Il libro-guida per gli appassionati avidi di approfondire la dottrina arriva nel 2017: Il pianeta nuovo. Come la tecnologia cambierà il mondo di Oliver Morton (il Saggiatore), filosofo della scienza e caporedattore dell’Economist.
Secondo Morton, il presupposto teorico su cui si fonda l’intera disciplina è che un taglio alle emissioni di CO₂, benché necessario e inevitabile, non darà effetti abbastanza immediati e dirimenti da mantenere il riscaldamento globale al di sotto del limite soglia di due gradi entro la fine del secolo, come stabilito dagli accordi di Parigi del 2015. Non c’è abbastanza tempo, in sostanza, per una conversione ambientale “dolce”, per organizzarci collettivamente e abbandonare in blocco l’energia fossile. Servono misure più radicali, proprie di una “scienza prometeica” che sfidi gli dèi della natura e rimetta in asse il piano inclinato della storia lungo cui sta scivolando l’umanità. In fondo, spiega Morton, “è da secoli che gli esseri umani interferiscono più o meno involontariamente con gli equilibri del pianeta che li ospita: le trasformazioni subite dai mari, dai venti, dai suoli, dai grandi cicli dell’azoto e del carbonio sono molto maggiori di quanto si pensi”. La geoingegneria è solo lo sviluppo prossimo e necessario di un processo che affonda nella storia radici antiche.
Il libro di Morton si configura dunque come un breviario al tempo stesso eccitante e spaventevole di molte delle possibili soluzioni alla crisi ambientale che la geoingegneria ha proposto negli ultimi anni:
una flotta di aerei che raggiunge la stratosfera per formare un “velo” di solfati intorno al mondo e riflettere la luce del sole. Navi fabbrica-nubi che seminano nuclei di condensazione sopra gli oceani per ispessire e imbiancare le nuvole, rendendole più riflettenti. Fertilizzanti a base di ferro sparsi nei mari per rinfoltire la presenza di alghe avide di anidride carbonica. Speciali “lenzuola” plastiche che ricoprono i ghiacciai a rischio di scioglimento e i deserti troppo caldi. Tecniche per catturare l’anidride carbonica emessa dagli impianti a energia fossile e immagazzinarla sotto terra.
In particolare, a solleticare la fantasia di Morton è soprattutto l’idea “che così come immettiamo nell’atmosfera i gas serra che riscaldano il pianeta, potremmo immettere nella stratosfera anche le particelle che lo raffreddano”. L’intuizione non nasce dal nulla, ma da uno studio pionieristico condotto da un team di venticinque scienziati coordinati dal fisico dell’Università di Washington Rob Wood, che già nel 2012 proponeva di liberare nell’atmosfera aerosol di acqua marina per favorire la condensazione di nuvole “artificiali” e schermare così il pianeta dall’irraggiamento solare.
A distanza di sette anni, il gruppo di ricerca dell’Università di Harvard diretto da Frank Keutsch, Zhen Dai e David Keith è ormai pronto a testare il progetto SCoPEx, il primo esperimento di perturbazione climatica attraverso un’iniezione controllata di aerosol stratosferico, che permetterà di studiare i rischi e le opportunità di un’applicazione su larga scala. “Se tutto andrà secondo i piani”, ha scritto Jeff Tollefson in un lungo articolo di presentazione dell’esperimento apparso su Science, “il team di Harvard porterà per la prima volta la geoingegneria solare fuori dai laboratori”. Gli scienziati hanno già assaporato un’anticipazione dei possibili effetti sul clima nel 1991, quando un’eruzione del Monte Pinatubo nelle Filippine “liberò nella stratosfera circa 20 milioni di tonnellate di diossido di zolfo”, spiega lo stesso Tollerson. La nube generata “raffreddò il pianeta di circa mezzo grado centigrado” per i successivi diciotto mesi, riportando la temperatura media della Terra ai valori precedenti all’introduzione del motore a vapore.
Ricongelare i ghiacciai
Da quando il libro di Morton è stato pubblicato, la geoingegneria ha continuato a mobilitare la comunità scientifica internazionale e a trovare ambiti di applicazione inediti, alimentandosi dell’attenzione e degli investimenti privati di plurimiliardari del calibro di Niklas Zennstrom, Richard Branson e Bill Gates – come nel caso del progetto SCoPEx. Sguinzagliata la creatività immaginifica degli scienziati, sono moltissime le ipotesi geoignegneristiche circolate negli ultimi anni. Alcune rimangono fedeli all’idea di schermare le radiazioni solari, magari con enormi parasoli posizionati sulla superficie terrestre o direttamente lanciati in orbita. Altre guardano invece agli oceani, come la costruzione di metropoli galleggianti o l’introduzione di microrobot natanti che ripuliscano l’acqua da batteri o da altre sostanze inquinanti, già allo studio di un gruppo di scienziati del Max Planck Institute for Intelligent Systems. Nel 2013, l’oggi venticinquenne Boyan Slat ha invece messo a punto The Ocean Cleanup, un sistema galleggiante per la rimozione passiva e su vasta scala dei frammenti di plastica in sospensione negli oceani.
Tra le possibili applicazioni della geoingegneria rientrano anche tutte le misure tecnoscientifiche per fronteggiare lo scioglimento dei ghiacciai e il conseguente innalzamento del livello dei mari. Nel settembre del 2018, un gruppo di ricercatori coordinati da Michael Wolovick del Geophysical Fluid Dynamics Laboratory dell’Università di Princeton, ha progettato due diversi piani ingegneristici per frenare l’ice shelf del ghiacciaio di Thwaites, in Antartide, che con una velocità di due chilometri all’anno sta scivolando sul mare di Amundsen. Il primo piano di Wolovick e colleghi prevede di puntellare quasi 120.000 chilometri quadrati del Thwaites con degli enormi pilastri sottomarini, così da sostenere lo scivolamento del ghiacciaio senza però proteggerlo dalle correnti calde sottostanti. La seconda proposta, invece, suggerisce l’impiego di una barriera isolante che scorra sotto la piattaforma di ghiaccio in modo da impedire all’acqua oceanica più calda di eroderla dal fondo.
La geoingegneria è lo sviluppo di un processo che affonda nella storia radici antiche.
Ancor più radicale è il progetto avanzato nel dicembre del 2016 dal team di Steven Desch dell’Arizona State University, che prevede di ricongelare l’Artide mediante pompe azionate a vento che spruzzino l’acqua marina al di sopra della calotta di ghiaccio. L’acqua vaporizzata dovrebbe congelarsi al contatto con lo strato superficiale del ghiacciaio, e aumentarne così lo spessore di circa un metro nel corso di un intero inverno. “Al momento la sola strategia che abbiamo [per frenare il riscaldamento globale] sembra essere quella di chiedere alle persone di smettere di utilizzare combustibili fossili”, ha dichiarato Desch in un’intervista al Guardian. “È un’ottima idea, ma avremo bisogno di molto di più per impedire la scomparsa del ghiaccio dal Mar Glaciale Artico”.
Incredibilmente, per salvare le comunità costiere dall’innalzamento di mari causato dallo scioglimento dei ghiacciai, anche progetti avveniristici pensati con altre finalità sono di recente rientrati nella sfera d’interesse della geoingegneria. È il caso del progetto Atlantropa, l’enorme diga sullo Stretto di Gibilterra che l’architetto tedesco Herman Sörgel progettò nel 1928. Secondo Sörgel, l’opera avrebbe non solo rifornito d’energia idroelettrica l’intero continente europeo, ma avrebbe anche abbassato il livello del Mare Mediterraneo di 200 metri, facendo così emergere nuove lingue di terra per l’agricoltura e per il collegamento diretto tra Europa e Africa. L’idea del progetto, accantonata per quasi un secolo, è stata recuperata in anni recenti per la realizzazione del ben più modesto MOSE, la diga che una volta in azione dovrebbe sigillare la laguna di Venezia e proteggere così la pianura padana dall’innalzamento dell’Adriatico.
Rifaunare l’Antropocene
Come mostrano i progetti di protezione dall’aumento del livello dei mari o di ricongelamento dei ghiacciai, la geoingegneria non mira soltanto a contenere il cambiamento climatico, ma cerca anche di intervenire direttamente sul suo ampio spettro di conseguenze. Tra queste, la meglio documentata e forse in più rapido svolgimento è quella che un team dell’Università di Stanford guidato dal biologo Rodolfo Dirzo ha definito “defaunazione dell’Antropocene”. Le attività antropiche, infatti, non stanno soltanto deforestando il pianeta, ma anche defaunandolo al ritmo vertiginoso di più di un terzo delle specie animali portate a estinzione entro la fine del secolo, molte delle quali non ancora classificate dagli scienziati. Cambiamento climatico, degrado degli habitat, agricoltura intensiva e riduzione delle aree verdi compongono il groviglio di concause all’origine di quella che Philip Hoare chiama la “Grande Accelerazione” dell’estinzione, la rarefazione della biodiversità animale che sta già cambiando in maniera irreversibile gli ecosistemi naturali di ogni latitudine.
Mentre i conservazionisti tendono a concentrarsi principalmente sulla perdita della megafauna, la geoingegneria si è da tempo interessata all’estinzione funzionale di molte specie di insetti: questi sono ancora presenti negli ambienti di riferimento, ma talvolta in numero insufficiente per svolgere i cosiddetti servizi “ecosistemici”. Come ha scritto Brooke Jarvis in un lungo reportage per il New York Times, gli insetti non sono semplicemente degli indispensabili impollinatori, ma sono anche alla base della catena alimentare e sono infaticabili riciclatori degli ecosistemi, poiché concorrono alla decomposizione di escrementi, carcasse e di ogni altra sostanza organica. “Le piccole cose che fanno funzionare il mondo naturale”, direbbe Edward O. Wilson.
Negli ultimi anni, ai dati frammentari raccolti dai naturalisti amatoriali si sono aggiunte le evidenze degli scienziati ad attestare l’apocalisse degli insetti: questi stanno estinguendosi a una velocità otto volte maggiore rispetto a mammiferi, rettili e uccelli. “Un intero mondo di insetti [sta] scomparendo”, commenta Brooke Jarvis, “e questa perdita [può] influire sulla vita del pianeta in modi imprevedibili”, con conseguenze drammatiche anche per la vita umana. Basti pensare che il 75% delle colture alimentari del mondo richiede un’impollinazione entomogama, ovvero condotta attraverso il trasporto di polline da parte degli insetti.
Tra le possibili applicazioni rientrano tutte le misure tecnoscientifiche per fronteggiare lo scioglimento dei ghiacciai e il conseguente innalzamento del livello dei mari.
Ecco che dove non è possibile l’azione del vento a sostituire l’entomofilia, diviene necessario studiare soluzioni alternative. In Baviera si è da poco tenuto un referendum consultivo per salvare le api con la riduzione dei trattamenti chimici in agricoltura, ma al tempo stesso frotte di apicoltori bavaresi si stanno specializzando in servizi di impollinazione a pagamento per gli agricoltori. In Cina, nella valle di Maoxian, il declino del numero di api è stato compensato dall’impiego di impollinatori umani che, armati di cotton fioc, attraversano le coltivazioni di alberi da frutto per propagare il polline di fiore in fiore. In Giappone, invece, l’Istituto nazionale di scienze e tecnologie industriali avanzate di Tsukuba sta lavorando a una soluzione geoingegneristica: sciami di droni grandi come colibrì che, grazie al Gps e all’intelligenza artificiale, in futuro potranno volare autonomamente e sostituire gli insetti impollinatori una volta che saranno definitivamente scomparsi. Torna alla mente Teodora, la città invisibile di Calvino, “cimitero del regno animale” in cui “l’uomo [avrà] finalmente ristabilito l’ordine del mondo da lui stesso sconvolto”.
L’ipotesi di rimpiazzare gli animali a rischio di estinzione con robot meccanici non è la sola a essere stata formulata nel fertile alveo della geoigegneria. Il controverso genetista dell’Università di Harvard George Church, ad esempio, lavora da anni a una soluzione opposta e quanto mai dibattuta: riportare in vita le specie estinte. Il discusso movimento da lui fondato conta oggi una comunità di ricercatori da ogni angolo del globo e impegnati nella “de-estinzione” di animali oramai scomparsi in tempi remoti o recenti come il piccione migratore, l’uro eurasiatico, lo stambecco dei Pirenei e il banteng di Java.
Church, in particolare, è convinto di poter sfruttare congiuntamente le tecnologie del Multiplex Automated Genome Engineering, del CRISPR/Cas9 e degli uteri artificiali per riportare in vita dal genoma antico il mammut lanoso, che popolava la steppa siberiana fino a 12.000 anni fa, ai tempi dell’ultima era glaciale. Stando a quanto sostiene Church, la reintroduzione del mammut nel suo habitat originario non sarebbe un vezzo scientifico, ma aiuterebbe piuttosto a prevenire la cosiddetta “bomba degli idrati di metano”, l’improvviso e incontrollato rilascio di gas serra ora intrappolati nei ghiacciai e nel permafrost. La presenza dei mammut dovrebbe infatti limitare la proliferazione boschiva in favore della steppa, che vanta una maggiore capacità di riflettere i raggi solari e di far penetrare il congelamento stagionale più in profondità. Qualcosa di analogo si sta già testando nella Jacuzia russa al Pleistocene Park, una riserva siberiana creata nel 1996 dal geofisico Sergey Zimov per ripopolare la steppa con cavalli, renne e buoi muschiati allo stato brado.
Coltivare nello spazio
In un suo recente articolo ripreso da Internazionale, Philip Ball faceva notare come, a cinquant’anni esatti dall’allunaggio del ‘69, l’entusiasmo per la corsa spaziale sia scemato velocemente, e con esso l’illusione che l’umanità avrebbe presto colonizzato altri pianeti. “Andare nello spazio ci ha fatto capire perché la Terra è così speciale”, scrive Ball. Nello spazio “non abbiamo ancora trovato un ambiente in cui avremmo la minima possibilità di creare un’alternativa a lungo termine del nostro pianeta, e nel sistema solare non c’è sicuramente”.
Preso coscienza dell’inospitalità degli altri pianeti a un’eventuale colonizzazione umana, la geoingegneria spaziale ha invertito l’ordine del problema: non è l’umanità a dover abbandonare la Terra, ma è la produzione industriale a dover essere mandata in orbita. L’idea si è diffusa negli ultimi anni per iniziativa di Biran Cox, astrofisico dell’Università di Manchester convinto che per salvare la Terra dovremmo trasformarla in un pianeta esclusivamente “residenziale”. Entro la fine dell’anno, Cox avrà il piacere di vedere i primi esperimenti geoingegneristici per la messa in orbita delle fabbriche “extraterrestri”, ovvero piccoli satelliti comandati dalla Terra per lo studio della produzione meccanica in assenza di gravità.
Torna alla mente Teodora, la città invisibile di Calvino, cimitero del regno animale in cui l’uomo [avrà] finalmente ristabilito l’ordine del mondo da lui stesso sconvolto.
Qualora la migrazione industriale nello spazio si rivelasse impraticabile, potremmo comunque provare con la produzione agricola, come peraltro sta già avvenendo. Il 3 gennaio scorso, la missione cinese Chang’e 4 ha portato sul lato nascosto della Luna semi di cotone, patate, lievito e uova di moscerini, all’interno di una capsula sigillata con atmosfera, temperatura, umidità e quantità di luce controllate. Dodici giorni dopo, i semi di cotone sono germogliati – anche se le gemme sono presto avvizzite – in quello che è il primo esperimento di crescita sulla Luna di organismi biologici per l’alimentazione umana.
Tra il 2014 e il 2015, semi di lattuga e di orzo erano già germinati con successo in apposite nicchie illuminate a led a bordo della Stazione spaziale internazionale. Nel 2017, invece, l’International Potato Center di Lima aveva lanciato una serie di esperimenti pioneristici per capire se fosse possibile coltivare patate su Marte, mentre a inizio 2018 un gruppo di ricercatori coordinati dall’agenzia spaziale tedesca è riuscito a coltivare vegetali in Antartide grazie alla serra denominata EDEN ISS, che in futuro si ritiene possa essere impiegata per la creazione di orti marziani o lunari.
Correzioni
Anche i miei nonni coltivavano un orto, qui, sulla Terra. I periodi di semina li sceglievano in funzione dei cicli lunari: “mai piantare l’insalata con la luna che cresce”, mi insegnavano, “altrimenti va subito in semenza”. Per loro sarebbe stato inconcepibile un orto coltivato nello spazio, senza terra né letame. In parte lo è anche per me, che sono cresciuto imbevendomi del misticismo reverente con cui loro abitavano il mondo naturale.
L’idea che per salvarci dalla crisi ambientale da noi stessi generata dovremo sparare aerosol nell’atmosfera, ricongelare i ghiacciai, usare droni impollinatori, de-estinguere i mammut e coltivare orti lunari, entusiasma certo i tecnofili, ma lascia molti altri perplessi. Come nota lo stesso Morton ne Il pianeta nuovo, il pensiero ecologista contemporaneo è attraversato proprio dalla frattura irrisolvibile tra gli ambientalisti scientifici che vorrebbero intervenire sul clima per rimetterlo a posto e i teologi naturali che toccherebbero la natura meno possibile, limitandosi alla decrescita, all’agricoltura biologica, al vegetarianismo e alla riforestazione del pianeta. Le contrapposizione tra questi due atteggiamenti fondamentali di fronte alla natura – controllarne la fisica o rispettarne la metafisica – è però sviante, poiché la prospettiva scientifica sui cambiamenti climatici domina oggi clamorosamente quella teologica.
Nell’immane tentativo storico di fare ordine, la tecnoscienza ha prodotto un’interminabile scia di disordine, che ora possiamo rimediare soltanto con ulteriore ricorso tecnico.
I tecnoentusiasti riconoscono così che abbiamo riscaldato il pianeta ma possiamo ora provare a raffreddarlo, che abbiamo scongelato i ghiacciai e tuttavia c’è margine per ricongelarli, che abbiamo consumato la biodiversità ma potremo un giorno riuscire a de-estinguerla: nell’immane tentativo storico di fare ordine, la tecnoscienza ha prodotto un’interminabile scia di disordine, che ora possiamo rimediare soltanto con ulteriore ricorso tecnico. Di fronte al collasso del sistema climatico non c’è nient’altro che possa sostituirla, dunque il suo fallimento non sarebbe una confutazione definitiva, ma la sollecitazione ad auto-perfezionarsi all’infinito. Alimentandosi degli errori che genera, la tecnoscienza è eterna per sua stessa struttura. Non possiamo pensarcene al di fuori, non ci è possibile mettere in dubbio l’idea di sistemare la natura con la stessa razionalità con cui l’abbiamo devastata. Non possiamo più dubitare che come abbiamo sconvolto l’ordine climatico nella tecnica, nella tecnica lo risolveremo.
Resta tuttavia ancora da chiarire che senso abbia salvare questa umanità, tracotante e smisurata, che non ama la natura e non la rispetta, che non la prega e non la riverisce. Un’umanità forse troppo intelligente per gli standard naturali, mai dubitosa, sempre pronta a intervenire sulle geometrie del mondo pur di non correggere se stessa.