N el marzo del 1924 Max Brod, assieme allo zio Siegfried, accorre a Berlino per portare Franz Kafka a Praga: la tubercolosi aveva infatti già raggiunto la trachea e la guarigione era impossibile. Nelle poche settimane che lo dividono dalla morte, mentre le forze in maniera inesorabile si affievoliscono, Kafka dice al giovane amico medico Robert Klopstock un frase enigmatica: “Credo di aver cominciato in tempo a studiare lo squittio degli animali”. Sono in effetti i giorni in cui Kafka sta scrivendo uno dei suoi ultimi racconti, “Josefine la cantante, ossia il popolo dei sorci”, che ruota quasi interamente intorno al problema della parola e della comunicazione.
La nostra cantante si chiama Josefine. Chi non l’ha udita ignora la potenza del canto. Non c’è nessuno che il suo canto non trascini, cosa tanto più apprezzabile in quanto che la nostra razza, tutto sommato, non ama la musica.
La frase che Kafka rivolge all’amico Klopstock ha il sapore sfocato delle ultime parole e si tinge per questo di un significato ulteriore: da un lato per il valore della voce animale del racconto che stava scrivendo in quei giorni, dall’altro perché diventa sintomo definitivo di quanto le presenze animali avessero invaso (o forse avessero da sempre infestato) l’opera dello scrittore. “Josefine la cantante” è uno degli ultimi racconti che Kafka portò a termine ed è incentrato su un popolo di topi, generalmente estraneo alla musica, troppo poco vicina alle angustie di ogni giorno, che si innamora però della voce di una cantante, Josefine, “sola eccezione” che “ama la musica e sa interpretarla”: cometa straordinaria ed effimera perché “morta lei la musica scomparirà dalla nostra vita”, annota la voce protagonista. La scrittura di Kafka si sofferma qui sulla materia inafferrabile della voce di Josefine, sulle sue esibizioni in cui il canto si fa sostanza scenica. Rimangono solo alcuni “avversari” che non credono al canto di Josefine e che non le prestano quella “devozione incondizionata” che lei, da diva consumata, desidera. Eppure, racconta Kafka, tra i topi c’è la credenza che la voce di Josefine protegga l’intero popolo e che questa serva a smussare e addolcire le numerose sofferenze e i continui orrori che ne scandiscono la vita: “il sottile fischio di Josefine nell’ora delle grandi risoluzioni è come la misera esistenza del nostro popolo fra il tumulto di un mondo ostile”. Fa dunque “bene pensarci”.
Nelle poche settimane che lo dividono dalla morte, mentre le forze in maniera inesorabile si affievoliscono, Kafka dice all’amico medic’ Klopstock un frase enigmatica: “Credo di aver cominciato in tempo a studiare lo squittio degli animali’.
A un certo punto del racconto Josefine però scompare, sceglie di andarsene (“ella si allontana rifiutando l’aiuto dei suoi partigiani, e misurando con freddo sguardo la folla che le fa largo rispettosamente”) e il popolo dei topi farà così a meno di lei che “si perderà serenamente nell’enorme folla degli eroi del popolo nostro” e “sublimata e liberata verrà dimenticata anche lei come tutti i suoi fratelli”. “Lo squittio degli animali” che Kafka, malato, racconta di aver appreso giusto in tempo, poco prima di morire, sembra rivelare qualcosa di più della sua stranezza di scrittore: come se fosse la faticosa conquista di un linguaggio, quello animale appunto, che rappresenta nelle sue opere un continuum a cui prestare ascolto. Nel suo L’animale della foresta (Adelphi, 2023) Roberto Calasso identifica proprio questo racconto come il più disperato di Kafka. “Josefine” è una plastica confessione dell’insufficienza dell’arte e dell’inadeguatezza insanabile della scrittura e, quindi, probabilmente, sigillo del fallimento di una vita intera (basti pensare, per esempio, al desiderio di Kafka di distruggere tutte le sue carte dopo la morte, richiesta che l’amico ed esecutore testamentario Max Brod ha provvidenzialmente disatteso). “Josefine”, scrive Calasso, racconta “l’insufficienza non del canto, non della musica, ma dell’arte, di qualsiasi arte. Anche dello scrivere. Racconta la loro inadeguatezza insanabile. Di conseguenza, la loro fondamentale inutilità. Attraverso ‘Josefine’, il popolo dei topi scopre la meraviglia del canto, ma finisce per considerarlo molesto. Senza fatica, può farne a meno”.
Nell’Animale della foresta Calasso concentra la sua attenzione su tre racconti di Kafka: “Josefine la cantante” appunto, “Ricerche di un cane” e “La tana”, accomunati dall’essere scritti tutti negli ultimi mesi di vita, ma soprattutto segnati dalla totale assenza di un’umanità della quale Kafka sembra non sentire più la necessità dopo le narrazioni, mai concluse, dei romanzi. Se Il processo e Il castello trattavano infatti di questioni puramente umane, in questi ultimi racconti Kafka sembra scendere in un mondo più profondo, non slegato da quello umano ma che lo oltrepassa, rarefancedosi e divenendo universale. Proprio a questo scavo continuo fa riferimento il suo ultimo racconto, “La tana”, tra i suoi più lunghi, non concluso, e che si interrompe improvvisamente, proprio nel mezzo di una frase. “Der Bau” è il titolo originale. Ha per protagonista un animale, forse un topo o una talpa, che costruisce una tana (ma poco importa, anche Benjamin ha scritto che le storie di animali di Kafka si possono leggere “per un buon tratto senza avvertire che non si tratta di uomini; quando si imbatte nel nome della creatura – la scimmia, il cane, la talpa –, il lettore alza gli occhi spaventato e si accorge di essere già lontanissimo dal continente dell’uomo”). L’approssimazione sulla natura dell’animale inoltre fa capire bene da un lato come la scelta di Kafka sia quella di immergersi definitivamente in un mondo più profondo dove le etichette umane non hanno più tutta questa importanza e, dall’altro, come l’attenzione del lettore debba essere indirizzata solo su ciò che suggerisce il titolo, la tana che viene edificata. “Il rapporto”, ha scritto Calasso, “fra ciò che si costruisce nel visibile e ciò che si costruisce nell’invisibile. E l’accento cade sull’invisibile”.
Cavalli, uccelli, animali della realtà quotidiana come cani, gatti e topi, lupi e anche insetti, sono solo alcune delle apparizioni che costellano l’opera di Kafka. Ognuna, con declinazioni diverse, rappresenta l’alterità misteriosa che porta con sé, segno tangibile di estraneità.
Nella narrazione delirante del protagonista animale che scava e che allestisce la tana, c’è un pungolo continuo, quello di edificare qualcosa che possa tenere lontano un nemico misterioso e senza nome (“Io vivo in pace nella profondità della mia tana e nel frattempo il nemico mi si avvicina da un qualche punto, scavando lento e silenzioso”). Il costruttore, che non possiede altro se non la sua fronte per scavare, finisce però per realizzare di essere in trappola e di essere lui stesso, forse, il nemico da cui difendersi: “sembra quasi che io stesso sia il nemico in attesa della buona occasione di irrompere”. I continui riferimenti al nemico prendono consistenza quando il protagonista comincia ad avvertire un sibilo che non cesserà più, suono che incarnerà fisicamente questo essere da cui fuggire, sé stesso, o meglio, la sua stessa natura tendente, per definizione, al fallimento (“io e la tana siamo talmente uniti” dice l’animale protagonista).
Sempre riferendosi allo “squittio” di cui parla Kafka poco prima di morire, anche questo racconto, se immerso dentro l’architettura animale della sua opera, parla di una mutazione metamorfica che comunica con molte altre sue narrazioni. Kafka non descrive quasi mai metamorfosi vere e proprie, né, tranne rari casi, animali fantastici (l’esempio più noto è l’odradek del “Cruccio del padre di famiglia”, che appare “come un rocchetto piatto, a forma di stella” con “una piccola stanghetta”). Preferisce mostrare piuttosto esseri in cui la metamorfosi è già avvenuta. È il caso, esplicito, della scimmia che parla all’uditorio in “Una relazione accademica” e ovviamente di Gregor Samsa nella “Metamorfosi”. Ma anche nella “Tana” la metamorfosi sembra già compiuta: lo scrittore è rappresentato nel suo definitivo e ultimo rifugio, quello della tana, appunto, nome finale del nemico invisibile che ha ossessionato da sempre la sua mente e che nelle sue opere ha preso le consistenze più varie. Adesso però non ci si trova più davanti al tribunale del Processo, né all’autorità incomprensibile del Castello, nelle pagine di commiato della “Tana” Kafka non parla più agli esseri umani né parla più il loro linguaggio: qui Kafka si rivolge agli animali che abitano sotto la superficie della terra, sotto il suo mondo.
Cavalli, uccelli, animali della realtà quotidiana come cani, gatti e topi, lupi e anche insetti, sono solo alcune delle apparizioni animali nell’opera di Kafka. Ognuna, con declinazioni diverse, rappresenta l’alterità misteriosa che porta con sé, segno tangibile di estraneità. E così quella frase definitiva pronunciata da Kafka in punto di morte richiama alla mente ciò che ha scritto Jacques Derrida in L’animale che dunque sono. Derrida, provando a immaginare non solo lo sguardo umano sull’animale, ma anche la direzione opposta di questo sguardo, annota: “In questo esser là-davanti-a-me, l’animale può lasciarsi guardare, ma può anche, lui, guardarmi. Ha un suo punto di vista su di me. Il punto di vista dell’assolutamente altro, e nulla mi ha mai così avvicinato a pensare questa alterità assoluta del vicino o del prossimo, quanto i momenti in cui mi vedo visto nudo sotto lo sguardo di un gatto”. Questa alterità dello sguardo emerge in Kafka come possibile strumento di scoperta proprio nelle sue creazioni relative al mondo animale perché, come ha annotato Gaspare Giudice nella sua introduzione a Storie di animali (Sellerio, 2005), in Kafka “l’uomo è l’animale ed è anche l’altro dell’animale”.
Se si rintracciano nelle storie animali kafkiane i risvolti autobiografici dello scrittore, gli animali diventano “vittime metafisiche”, simboli di punizioni senza spiegazioni, il loro linguaggio e le loro parole diventano specchi di ciò che accade nel mondo umano. Ma non si deve correre il rischio di appiattire l’interpretazione di questi racconti nella chiave di una lettura allegorica, favolistica. Italo Calvino in un suo saggio su Plinio il Vecchio ha scritto che “l’animale, vero o fantastico che sia, ha un posto privilegiato nella dimensione dell’immaginario” e che, appena si nomina, “lo s’investe d’un potere fantasmale; diventa allegoria, simbolo, emblema”. Allora le “storie di animali” di Kafka (così lo scrittore volle che fosse intitolato, nel 1917, il dittico di racconti “Sciacalli e arabi” e “Relazioni per un’Accademia” pubblicato sulla rivista di Der Jude) sembrano sfuggire, pur nella loro continua e persistente allusività, i modelli allegorici favolistici o quelli moralistici delle parabole. Queste storie si nutrono invece dell’indecifribilità che è specifica della sua scrittura e che rifugge da qualsiasi riduzione.
Queste creature sono l’agente distruttore di ogni ordine, esseri situati sulla soglia, campanelli di allarme rispetto alla percezione di vivere dentro una gigantesca trappola, pronti, in ogni momento, alla detonazione.
È il caso del cavallo, uno degli animali più ricorrenti nell’opera di Kafka, soggetto anche di numerosi suoi disegni, simbolo della possibilità della fuga ma anche, quando nel disegno compare una frusta, simbolo originario di violenza e sopruso. In “Un medico condotto” Kafka racconta di un medico che deve recarsi con un urgenza da un paziente lontano ma non ha a disposizione un mezzo. Incontrando uno strano stalliere dietro la porta di un porcile, trova due cavalli, “forti animali dai fianchi poderosi, le gambe raccolte sotto il corpo”, che lo potrebbero condurre dal malato. Ma questi due cavalli guideranno il medico in un viaggio che presto lo separa dalla sua realtà (quella del paese, della famiglia e degli affetti) come una forza inarrestabile e misteriosa: “Nudo, esposto al gelo di questo secolo sciagurato, su una carrozza reale, con cavalli reali, vado vagando pel mondo, io povero vecchio”.
Come ha notato uno dei più acuti lettori di Franz Kafka, Ferruccio Masini, nella “Metamorfosi”, Gregor Samsa che si trasforma “in un enorme insetto immondo” diviene l’oggettivarsi della sua condizione di uomo “che ha perduto se stesso e con se stesso la propria umanità”. In “Un medico condotto”, invece, questi cavalli, impossibili da fermare, distruttori di ogni vita precedente, sembrano piuttosto incarnare un “potere misterioso che irrompe improvvisamente nella vita di un uomo, vita tranquilla ma senza significato, un potere che dormiva nell’intimo medesimo di quell’uomo e che ora appare come terribile e fosca affermazione di un ondo abbandonato e sotterraneo non sopraterreno”. Se le cose stanno così, queste creature sono l’agente distruttore di ogni ordine, esseri situati sulla soglia, campanelli di allarme rispetto alla percezione – sentita da Kafka per tutta la sua esistenza – di vivere dentro una gigantesca trappola, pronti, in ogni momento, alla detonazione.