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n una intervista a Isaac Singer, reperibile online su Rai Letteratura, Enzo Biagi incalza lo scrittore polacco con domande sul suo rapporto con l’ebraismo e i suoi sentimenti di appartenenza verso un popolo che aveva visto soffrire le incommensurabili pene della Seconda guerra mondiale. Il quasi ottantenne scrittore procede a ruota libera tra i suoi ricordi e racconta di come il ruolo di rabbino del padre abbia rivestito un ruolo decisivo – in quanto la religione rappresentava l’aria che veniva respirata in casa, ma racconta anche di un suo temporaneo rifiuto della religione a favore di una posa da «libero pensatore». Ma nel momento dell’intervista, con gli anni che avanzano e una maturità intellettuale certo differente dalla giovinezza, Singer spiega a Biagi di come ormai sia certo che l’universo non possa essere nato da un accidentale incidente chimico o fisico e di come invece debba necessariamente rispondere al volere di un «essere», così si pronuncia il traduttore, che abbia voluto dare inizio a tutto.
Uno dei passaggi più interessanti dell’intervista, perché illumina alcune delle zone maggiormente importanti della sua opera, risiede nel momento in cui lo scrittore si sofferma sulla storia del rapporto tra ebrei e polacchi: Singer nacque in Polonia nel 1901 ma nel 1935, a causa dei pericoli che correva allora chi apparteneva al popolo ebraico, decise di abbandonare l’Europa, e con lei anche la moglie e il figlio, per trasferirsi negli Stati Uniti, dove poter vivere più libero e portare avanti il suo lavoro di scrittore senza distrazioni o, ancora peggio, preoccupazioni per la propria sopravvivenza. Singer insiste sulle differenze insanabili che correvano tra i polacchi e gli ebrei, fatto abbastanza paradossale se si pensa che si trattava di una frequentazione antica di circa sette o otto secoli, una mancata assimilazione che portava così gli ebrei ad essere dei veri e propri stranieri in una terra che abitavano da lungo tempo.
Una delle lacune maggiormente profonde che scinde senza possibilità di unione le due culture risiede secondo lo scrittore nella differenza della lingua, con il polacco che non riusciva a trovare vie di comunicazione con l’yiddish, una lingua che nel suo amalgama unisce rotte e percorsi di uomini che portarono a creare un modo di esprimersi che rispecchiasse le molteplici identità, con una commistione tra la lingua ebraica, la stessa lingua polacca e quella tedesca. Sembra che allora risieda quasi in uno strenuo tentativo di resistenza la scelta di Singer che, nonostante i dubbi circa l’appartenenza alla cultura e alla religione ebraica, ha però costruito la sua grande ed estesa opera proprio utilizzando quella lingua scomparsa, l’yiddish, la lingua dell’esilio, la lingua dei villaggi dell’Europa orientale che lui, a migliaia di chilometri di distanza, continuò per tutta la vita ad adoperare.
Esce adesso per Adelphi, sempre con la cura di Elisabetta Zevi come per il precedente Keyla la Rossa e all’interno del progetto editoriale di pubblicazione delle opere di Singer, Satana a Goraj, nella traduzione di Adriana Dell’Orto, romanzo ambientato proprio in uno di questi villaggi che facevano uso della lingua yiddish, Goraj appunto: «nascosta fra le colline in capo al mondo […] un tempo celebre per i suoi studiosi e i suoi uomini d’ingegno», shtetl della provincia di Lublino, abitato quasi esclusivamente da ebrei. Il romanzo, che attraverso l’utilizzo della lingua yiddish vuole ricreare le condizioni di un popolo in perpetuo esilio e trasferire nel linguaggio quotidiano la lingua colta dei rabbini che interpellavano e disquisivano tra loro su Dio e la religione, racconta di un episodio storico realmente accaduto nel XVII secolo, più precisamente tra il 1665 e il 1666, anni che secondo i calcoli dei cabalisti rappresentavano il momento realmente propizio per l’avvento del Messia. Avvenne infatti in quelle terre e in quegli anni uno degli eventi rivoluzionari più noti della storia ebraica moderna, quando uno strano e sospetto profeta, Sabbetai Zevi, proclamò l’avvento dell’era messianica.
Come in molte delle sue opere, Singer si serve del passato per studiare e riflettere sul presente.
Mentre imperversavano i pogrom («uccidere innocenti» è per Singer il significato più profondo di questa parola, come dice a Biagi durante l’intervista aggiungendo anche che tutta la storia dell’umanità è ammantata dall’uccisione e dalla violenza: «Non riesco ad abituarmi all’idea che la nostra occupazione sia questa»), gli ebrei, affinché si compisse la profezia annunciata da Sabbetai Zevi, dovevano però abbandonarsi ad ogni tipo di trasgressione delle leggi, rifiutando i precetti del Talmud, rigettando i testi sacri, sciogliendo le famiglie e, più in generale, abbandonando tutto ciò che la religione ebraica aveva insegnato sino a quel momento. Solo attraverso un’immersione nel buio più oscuro e profondo sarebbe stato possibile risalire verso un mondo nuovo, perfetto e in cui si sarebbe compiuta la promessa dell’Antico Testamento. Ma la grandezza di questo libro, al quale non è possibile pensare se non come a un capolavoro, non sta tanto nel racconto storico dell’eresia e delle sue emanazioni, con i desideri di rivolta instillati nella comunità dal messia Zevi che presto scivolarono nella farsa e nella bugia, con lo stesso sobillatore che messo alle strette dal sultano per evitare la morte sceglierà di convertirsi alla religione islamica, quanto nella sua capacità grandiosa di costruire una rappresentazione corale degli animi degli uomini decisi e fiduciosi nel cambiamento, stanchi di anni di soprusi e violenze.
Circa dieci anni prima, in quelle stesse terre che vedranno germogliare la rivolta, l’atamano dei cosacchi, Bogdan Chemelnesky, massacrò gli ebrei di tutta la regione, con una violenza rivoltante e una ferocia spropositata che segnò indelebilmente l’immaginario del popolo ebraico di quelle zone, e che certo contribuì alla creazione di un nuovo e radicale sogno di cambiamento. Satana a Goraj si distacca dalla narrazione storica, che resta in ogni caso sullo sfondo e mai viene persa, per assumere compiutamente i toni di un poema epico capace di narrare i turbamenti e le aspettative che agitano gli esseri umani stanchi e abbandonati a se stessi, che oramai vagano come fantasmi in uno scenario deserto. Il romanzo è allora il racconto di un «un impulso rivoluzionario che tende verso l’Impossibile» scrive Jacob Sloan, traduttore in inglese del romanzo, nella Nota al testo che riporta Adelphi, nel momento in cui la struttura familiare e rassicurante della loro società viene frantumata.
Come però in molte delle sue opere, Singer si serve del passato per studiare e riflettere sul presente: non sembra così pretestuoso rintracciare nelle tragiche vicende che segnano gli abitanti di Goraj l’ombra lunga delle violenze che già negli anni Trenta cominciavano ad imperversare per l’Europa. Attraverso quindi una storia seicentesca, Singer si interroga su questioni quantomai fondamentali e insolute, come la sopravvivenza di una minoranza indebolita da continue catastrofi, il difficile statuto della spiritualità ebraica in Europa, nonché le radicali questioni che legano la rivoluzione con la speranza di cambiamento e l’utopia di un mondo perfetto, prodotto che si preannuncia attraverso un complicato rapporto che lega religione, potere politico e forza. Proprio su questo intricato nodo risulta interessante il libro di Micah Goodman, studioso del pensiero ebraico, recentemente proposto dalla casa editrice Giuntina e che porta il titolo L’ultimo discorso di Mosè.
Gli uomini di Goraj smarriscono il nucleo della loro fede, ciò che li unisce e li rende una comunità, seppur malconcia, e a trionfare sono allora le forze del male.
In queste pagine è infatti possibile, seppur si tratti di mondi molto lontani, rintracciare alcune chiavi di lettura per comprendere sia una questione fondamentale del pensiero ebraico, ma anche, in chiave ridotta, uno dei noccioli più importanti del romanzo di Singer. In un libro che si concentra su Mosè e la sua eredità nei confronti del popolo ebraico, Goodman pone la sua attenzione principalmente sul libro del Deuteronomio, che raccoglie i tre discorsi che Mosè offre al popolo di Israele affinché prenda coscienza degli strumenti morali e politici per muoversi compiutamente dalla debolezza della schiavitù alla forza di un popolo libero. Il discorso però più interessante in un’ottica di integrazione con il romanzo di Singer, sta in realtà nell’analisi del percorso del popolo ebraico che, dopo la fuga dall’Egitto, l’ingresso nella terra con Giosuè e l’apice della potenza con il re Salomone, si ritrova a fare i conti con una parabola discendente che finisce con l’obbligato spostamento verso Babilonia e poi ancora verso l’Egitto.
Ciò su cui insiste Goodman, oltre alla decisiva e fondamentale divisione tra potere e religione fatta da Mosè, è sul perpetuarsi del patto con Dio, mai cessato o revocato, con il Deuteronomio che diviene lo strumento «per immaginare una società ricca ma non materialistica, una società potente ma non ebbra di potere», che è poi, in fondo, quello di cui vanno in cerca gli abitanti di Goraj, ovvero, molto semplicemente, di un mondo in cui, attraverso la guida di Dio, poter vivere in maniera compiuta e tranquilla. Anche l’esperienza legata al messia Zevi è destinata dunque a fallire sin dal principio, perché il culto religioso, come nel caso del vitello d’oro nell’Esodo, sconfina in momenti quasi magici e dunque non può che risolversi in rovina.
Il tema di Satana a Goraj è, anche sotto la luce del libro di Goodman, quello della tragedia della civiltà, conseguenza insita nella stessa natura fallibile dell’uomo, natura di cui spesso si dimentica divenendo nello stesso tempo propagatore e vittima di violenza. Seguendo l’eresia sabbatiana, gli uomini di Goraj smarriscono il nucleo della loro fede, ciò che li unisce e li rende una comunità, seppur malconcia, e a trionfare sono allora le forze del male, quella del Satana che campeggia nel titolo del romanzo: troppo facile, sembra suggerire tra le righe Singer, è fare affidamento a parole che rendono tangibile un’astratta rigenerazione definitiva, tutti movimenti semplicistici che finiscono per guidare le comunità verso un’effimera ebbrezza collettiva (ed è difficile che questo concetto non risuoni in ogni tempo, compreso quello presente).
György Lukacs, scrivendo del romanzo storico, dice che la sua natura non risiede solamente nell’illustrare gli eventi, ma nel ricreare, in chiave poetica, le personalità degli uomini che ne presero parte e far rivivere al lettore le tensioni sociali in cui sono coinvolti: è questa la natura più profonda del romanzo di Singer, che porta il suo racconto a farsi universale nel denunciare le storture dei meccanismi che regolano le società degli uomini e, nello stesso momento, a raccontare la sparizione di un mondo antico, quello degli shtetl, e quindi di un intero periodo della storia ebraica (e su questo si segnalano anche le meravigliose pagine de I fratelli Ashkenazi, opera capitale di Israel Singer, fratello minore di Isaac, capace di raccontare con grande poesia l’incrocio tra ebrei, polacchi, russi e tedeschi). Un romanzo ricco di chiavi di lettura e strati interpretativi Satana a Goraj, «un oggetto di desiderio per il critico» che non può quindi che inseguire i fantasmi della ricerca senza mai riuscire a coglierne pienamente l’essenza, mutuando le parole di Deleuze sulla Recherche, e per questo sempre da leggere e studiare.