H o avuto l’occasione di leggere l’ultimo libro di Fatima Ouassak, Per un’ecologia pirata… e saremo liberi! (tradotto da Valeria Gennari, con la prefazione di Valeria Cirillo e Nina Ferrante, Tamu 2024), durante un viaggio in Palestina quest’estate. Avevo scelto con cura i pochi libri da portare con me, cercando di evitare problemi all’aeroporto di Tel Aviv, senza sapere che Ouassak avrebbe aperto e chiuso il suo libro proprio parlando della Palestina e di tutte quelle terre ancora martoriate dall’ingordigia dei poteri imperiali.
Ho letto questo libro mentre ero in fila ai checkpoint, attraversando muri visibili e invisibili che separano colline aride da quelle verdeggianti. Visitavo comunità di giovani agricoltori palestinesi – ragazzi e ragazze tornati a coltivare la terra per contrastare l’avanzata dei coloni nella West Bank. Nel frattempo, si diffondevano le notizie di migliaia di israeliani in fuga dal paese, e riflettevo sulla differenza tra chi possiede due passaporti, uno solo o nessuno. Pensavo anche a come, storicamente, coloni e colonizzati abbiano sempre concepito in modo diverso il concetto di casa e il modo di convivere sulla terra che abitano.
Partendo da queste terre martoriate, Ouassak risale la rotta che conduce verso le periferie interne delle grandi città occidentali, con particolare attenzione a Parigi, tra le strade dissestate dei ghetti dove vivono i figli e le figlie di chi ha attraversato le frontiere per fuggire da fame, cambiamenti climatici e guerre. Tra i quartieri popolari definiti da nuovi muri – tutt’altro che simbolici – dove si respira poco ossigeno e molto odio, e dove la lotta per la sopravvivenza non ha ancora trovato tregua. In questo tragitto, le domande di Ouassak sono taglienti, concrete e politicamente urgenti: perché i movimenti per la giustizia ambientale parlano delle periferie ma non con esse? Come è possibile non interpellare quei soggetti tra i più colpiti dalle catastrofi ambientali, che siano esse la causa della migrazione dai paesi d’origine o la condizione precaria dei quartieri dormitorio in cui, guarda caso, qualcuno ha deciso di costruire un inceneritore? E, d’altra parte, come possono i “quartieri” prendere sul serio un movimento che non li coinvolge? Infine, è davvero vero che nelle periferie non si presta attenzione all’ambiente, alla tossicità e alla salute?
La scrittura di Ouassak non lascia scampo, eppure il libro apre crepe di possibilità, allargandole per reclamare con forza il diritto di tutt* a respirare. Il suo posizionamento è fortemente situato: parla come ricercatrice e attivista, come madre e come donna di origine marocchina che attraversa gli svincoli autostradali, le palazzine e le scuole dimenticate del quartiere di Bagnolet a Parigi. Questa molteplicità di prospettive si traduce in una scrittura densa, capace di pensare per immagini, di muoversi tra draghi, pirati e storie per bambini, intrecciando il saggio, il pamphlet politico e la narrazione autobiografica.
Davvero nelle periferie non si presta attenzione all’ambiente, alla tossicità e alla salute?
Al centro del suo discorso, Ouassak ripensa i quartieri popolari e il Mediterraneo come spazi politici, non vuoti o marginali, ma pieni di vita e agentività. Immagina che il mare e i quartieri popolari possano tornare a essere luoghi di scambio e incontro, anziché di morte e separazione. Sfidando luoghi comuni, perbenismi e retoriche green, tanto della sinistra storica e liberale quanto delle destre estreme, il libro prende le mosse dalla condizione esistenziale del “senza-terra”, che Saidiya Hartman aveva già descritto in Perdi la madre (Tamu, 2021) come essenza della schiavitù. Quando il legame con una terra è negato con ogni mezzo, il senso di estraneità e di non appartenenza diventa la cifra di un’esistenza in perenne precarietà, tra rifugi temporanei che non conducono mai a un radicamento.
Essere privati delle proprie radici e, al contempo, della possibilità di metterne di nuove è una condizione di impotenza e mancanza di potere, che Ouassak definisce come un “disancoraggio” imposto dal razzismo strutturale, dalle varie forme di attualizzazione coloniale, dalla repressione letale della migrazione e dalle frontiere: tutte espressioni di politiche di controllo sui corpi destinati a un’estrazione continua, allo sfruttamento e allo spossessamento. Essere disancorati significa vivere in un corpo il cui destino è quello di restare ai margini delle città, preferibilmente in silenzio e confinato in pochi metri quadrati. Tuttavia, significa abitare un sottosuolo necessario al funzionamento delle città: dalla pulizia delle case e delle strade, alla manutenzione delle infrastrutture e al supporto delle istituzioni a beneficio della classe media e ricca. In questo senso, il disancoraggio rappresenta una condizione di invisibilità, un’esistenza ai margini che è indispensabile per il mantenimento del tenore di vita di una parte della popolazione.
Contro un’ecologia difensiva, che si limita a denunciare ciò che non funziona senza offrire una visione chiara della società che desideriamo per noi e per i bambin*, Ouassak propone di ripartire dalla terra e dalla lotta contro l’alienazione e il disancoraggio forzato che milioni di persone vivono quotidianamente. Se il movimento per la giustizia ambientale non affronta questo nodo cruciale — nonostante le buone intenzioni e i suoi nobili obiettivi — rischia di perpetuare un rapporto coloniale con i quartieri e le classi popolari. In tal modo, rischia di affermarsi come un progetto compatibile con il sistema coloniale capitalista e con il mantenimento dell’ordine stabilito. Per essere all’altezza delle sfide del presente, dobbiamo allora saper interrogare i sistemi di oppressione e dominio che contribuiscono alla distruzione del vivente, ovvero i rapporti di subordinazione tra nord e sud del mondo, tra quartieri ricchi e poveri, e tra classi dominanti e popolari.
In questo esercizio di autocritica interna al movimento per la giustizia climatica, Ouassak riporta al centro la questione della terra partendo dai quartieri popolari, anche se sono tra i più cementificati, inquinati e artificiali. È in questi luoghi, infatti, che molt* di noi vivono e cercano di crescere i propri figl*. Da questa prospettiva, il problema principale dei quartieri popolari non è solo la tossicità, ma il fatto che chi vi abita non ne è considerato parte integrante, bensì semplicemente di passaggio e accolt* solo in funzione della propria utilità: ovvero, essere dispost* a lavorare nei settori che i ricchi non vogliono occupare e che i robot non potranno mai sostituire. Altrimenti, “tornatevene a casa vostra”.
In questo esercizio di autocritica interna al movimento per la giustizia climatica, Ouassak riporta al centro la questione della terra partendo dai quartieri popolari.
Riappropriarsi di un ancoraggio territoriale negato, rappresenta allora per Ouassak il primo passo verso la protezione della terra, che dai quartieri popolari è percepita innanzitutto come una questione di liberazione. Questo passo è fondamentale per ampliare il fronte climatico, affrontando battaglie che, sebbene possano sembrare distanti, sono in realtà profondamente interconnesse. La liberazione della terra — e, di conseguenza, l’attaccamento e l’amore per essa — diventa il modo più diretto per discutere di giustizia ambientale, senza trascurare l’importanza di praticare forme di contro-immaginazione capaci di dare voce ai pensieri e agli affetti di coloro che solitamente non vengono ascoltat*.
Leggo le ultime pagine del libro di Ouassak poco prima di incontrare Tamer Nafar, un rapper palestinese. In una piazza segnata da decenni di violenza coloniale israeliana, le sue parole colpiscono con la stessa intensità: “Il posto in cui vivono i palestinesi non è considerato dei palestinesi. Per questo motivo, con le mie canzoni trasmetto l’amore per questa terra, per dare voce alle lotte che la difendono”.