

“C hi pensa non è solo”. “Pensare è tremendo, ma indispensabile”. Con queste frasi quasi apodittiche inizia Pensare dopo Gaza. Saggio sulla ferocia e la terminazione dell’umano di Franco “Bifo” Berardi, recentemente pubblicato dalla casa editrice Timeo.
Dal 7 ottobre 2023 anche in Italia, come nel resto del mondo, si è discusso molto di ciò che i principali canali mediatici del nostro Paese chiamano “conflitto”, o “guerra” tra Israele e Palestina, ma che il rapporto Anatomia di un genocidio di Francesca Albanese – relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nei Territori Palestinesi occupati dal 1967 – mostra essere un genocidio perpetrato dal sionismo israeliano al fine di sterminare la popolazione palestinese.
“Come se tutto fosse nato il 7 ottobre”, ripetono molte persone che si schierano per la sua fine. Bifo insiste molto su questo punto, su come lo Stato di Israele sia il prodotto delle abitudini colonialiste e violente degli europei che, dopo aver tentato lo sterminio della popolazione ebraica, hanno concesso loro un luogo in cui “stabilirsi”, consapevoli di tutta la violenza che questa imposizione avrebbe generato. “Poteva uno Stato nato con un massacro e sorretto dalla minaccia armata permanente evolvere in maniera diversa?”, secondo Bifo non poteva: non poteva andare diversamente e la responsabilità è, oltre che della violenza sionista, di quella “eruzione psicotica dell’inconscio bianco senescente” che ha generato e genera gli orrori del nostro tempo, l’isterismo di una popolazione cognitivamente disastrata che ha portato Trump al dominio degli Stati Uniti e, purtroppo, del mondo. Sostiene Bifo che “quel luogo, nel quale gli europei sono riusciti a intrappolare gli ebrei dopo averli sterminati negli anni Quaranta […] lungi dall’essere un luogo sicuro, è per gli ebrei il luogo più pericoloso al mondo. È una trappola: è la continuazione della macchina di morte che il nazismo costruì per gli ebrei d’Europa”.
Come si pensa “dopo” Gaza, dopo che per più di un anno abbiamo assistito in diretta a uno sterminio sistematico, ai peggiori orrori di cui l’essere umano è capace? Come si vive, si agisce e si lotta rendendosi conto che il mondo è dominato da tecnocrati razzisti e misogini, che sono assolutamente concordi nell’eliminare qualunque popolazione (o individuo) che non si confà al mondo in cui credono che tutte e tutti dobbiamo vivere? Precisamente cento anni fa Paul Valéry descriveva in Considerazioni sull’intelligenza la società occidentale come una macchina che non può accettare in sé la presenza di individui non esattamente misurabili: «La macchina non sopporta che il suo potere non sia universale, e che vi siano esseri che rimangono estranei ai suoi meccanismi, estranei al suo funzionamento. […] Non può accettare che vi sia qualcuno il cui ruolo e le cui condizioni di vita non siano definiti con esattezza. Essa tende ad eliminare gli individui imprecisi secondo il suo punto di vista, e a classificare nuovamente gli altri, senza considerazione alcuna per il passato e anche il futuro della specie». Le nostre società tendono in effetti sempre di più ad assumere le forme di una macchina violenta, pronta a eliminare ogni eccezione alle sue regole.
Sostiene Bifo provocatoriamente che “Gaza è Auschwitz con le telecamere”. E se la massima adorniana che ci accompagna da quasi un secolo ci interroga sulla possibilità di scrivere poesia dopo Auschwitz, oggi siamo costretti a chiederci se e come possiamo vivere la nostra quotidianità, portare avanti le nostre occupazioni più banali e basilari, di fronte alla mediatizzazione di uno sterminio sistematico. In un secolo sono accadute tante cose, il passaggio dal nazismo al sionismo non è lineare, eppure osservare i fatti da una prospettiva storica, rintracciare somiglianze che dal passato ci aiutino a leggere il presente, è vitale.
Come si pensa “dopo” Gaza, dopo che per più di un anno abbiamo assistito in diretta a uno sterminio sistematico?Mentre scrivo queste parole a Berlino, dopo più di un anno di repressione ferocissima di ogni manifestazione di solidarietà nei confronti del popolo Palestinese, dopo che si sono vietati slogan e cori non in lingua tedesca, si sta adesso procedendo a espellere (deportare) dalla Germania 4 persone cittadine dell’Unione Europea, accusate – senza prove – di professare antisemitismo e sostenere Hamas.
Quella di sostenere Hamas è l’accusa che viene mossa da due anni a chiunque affermi di schierarsi contro il genocidicio. “Sei antisemita, sei pro-Hamas”: non è certo questo il punto, e anzi il sionismo sta creando enormi problemi per le persone ebree in tutto il mondo; soprattutto per chi tra loro si schiera contro le violenze sioniste. Questo è reso evidente dalle dichiarazioni e dalle esperienze di numerose persone facenti parte di organizzazioni come Jewish voice for peace, Jews for justice for Palestinians, European Jews for a just peace, che lottano per “porre fine al genocidio a Gaza e ai crimini di guerra di Israele”, e come dimostrano anche le voci di intellettuali ebrei italiani che si interrogano con dolore rispetto all’utilizzo strumentale dell’antisemitismo e si chiedono “a cosa serve oggi la memoria se non aiuta a fermare la produzione di morte a Gaza e in Cisgiordania? Se e quando alimenta una narrazione vittimistica che serve a legittimare e normalizzare crimini?”. Le persone che lottano per la liberazione della Palestina, lottano anche contro l’antisemitismo e per il rispetto e la tutela di ogni persona ebrea, di ogni essere umano.
È questione allora di comprendere l’utilizzo della violenza? Bifo scrive “Nessuno può dimenticare che il popolo ebraico è stato vittima del più spaventoso genocidio del xx secolo”, ma “Se capisco la violenza degli israeliani devo capire anche quella dei palestinesi. Capire. Cosa vuol dire capire in questo contesto? Vuol dire comprendere le cause, le origini, i motivi che non sono ragioni. Non c’è nessuna ragione nella storia − questa è la lezione che impariamo dall’Olocausto di Gaza”. “Hier ist kein warum”, scriveva Primo Levi; non c’è un perché, non c’è spiegazione possibile per l’orrore dello sterminio. Eppure delle cause, delle spiegazioni, in questo caso ci sono e andrebbero analizzate con lucidità, non lasciandosi sopraffare dal senso di colpa che ereditiamo dalle vecchie generazioni, dalla storia di colonialismo e stermini che ha permesso la costruzione e l’accrescimento degli Stati europei.
Ma quali conseguenze ha questa situazione sulla nostra psiche? Bifo cita un articolo del 24 ottobre 2024 in cui Sara Parenzo scrive su Il Manifesto: “Oltre 12 mesi di esposizione più o meno diretta a violenza, lutti, feriti, ostaggi, sfollati, manifestazioni, incertezza economica e politica e pericolo costante, manovrati da istituzioni che invece di traghettare il paese fuori dalla crisi non fanno che buttare benzina sul fuoco, hanno piegato anche il sistema nervoso dei più resilienti”. Ed è effettivamente così: viviamo nell’incertezza di fronte agli orrori del nostro tempo. Abbiamo paura, ci sentiamo isolate e vulnerabili.
Delle cause, delle spiegazioni ci sono e andrebbero analizzate con lucidità, non lasciandosi sopraffare dal senso di colpa che ereditiamo dalla storia di colonialismo e stermini che ha permesso la costruzione e l’accrescimento degli stati europei.Non c’è speranza nelle parole di Bifo, se non quella della diserzione nei confronti della riproduzione della specie se non nella presa di posizione di fronte al dualismo tra distruzione e diserzione che Bifo pare presentare come le nostre uniche due scelte.
Pensare dopo Gaza procede per salti logici, cronologici e spaziali. Cercando di confrontare ciò che accade ed è accaduto in Palestina con l’olocausto di persone ebree, sinti e rom del secolo scorso, cercando di mostrare le connessioni tra Israele e il recente assetto politico e imprenditoriale degli Stati Uniti. “La disintegrazione è all’ordine del giorno in tutto l’Occidente” dice Bifo, “Non esiste nessuna democrazia liberale, ed è riduttivo definire il potere di Putin o di Trump come tirannide autoritaria. L’una e l’altra forma sono piuttosto la manifestazione politica (cioè spettacolare) del potere sempre più ineludibile del sistema finanziario e del sistema tecnomilitare”. Secondo Bifo la “disintegrazione psichica e culturale” in cui viviamoci porterà alla disintegrazione politica, ma invece di imputare la colpa di questa situazione a chi ci governa, di collettivizzare le nostre condizioni di subalternità, cerchiamo negli strati più “bassi” della società le persone da incolpare: le persone povere, le persone migranti, le persone straniere, le donne, le persone trans.
Nella presente condizione di irrimediabile disfatta dell’umano, il compito di chi pensa è semplicemente dire la verità. “Verità” però è una parola troppo impegnativa, meglio quindi dire piuttosto: il compito di chi pensa è dire quale dramma si svolge nel teatro della sua consapevolezza. In passato, quando era possibile nutrire qualche sia pur piccola speranza, era talvolta necessario e perdonabile nascondere qualcosa della verità, rimandarla a tempi migliori. Ora sappiamo che non ci saranno mai tempi migliori, e sappiamo che non vi è più nessuna speranza. […] Occorre condividere questa verità, per poter creare dei luoghi comuni della diserzione.
È Bifo stesso a dirci che chi pensa non è solo, e allora forse è pensando insieme, ricordandoci di andare oltre alla solitudine, possiamo cominciare a percepire possibilità.Pur comprendendo le intenzioni del libro e il suo collocarsi in modo estremamente situato nella contingenza, nella necessità di prendere posizione anche come lavoratori e lavoratrici culturali rispetto alla Palestina, vorrei illuminarlo di qualche speranza in più. È Bifo stesso a dirci che chi pensa non è solo, e allora forse è pensando insieme, ricordandoci di andare oltre alla solitudine, che possiamo cominciare a vedere possibilità, a percepire possibilità. Voglio leggere Pensare dopo Gaza alla luce di un altro libro dello stesso autore – Disertate (2023) – per ricordarci che abbiamo degli strumenti potenti, e che la diserzione è uno di questi. Possiamo sottrarci alla violenza, rifiutarci di ripeterla e perpetrarla, di riprodurla. Possiamo farlo attraverso azioni di boicottaggio, scegliendo di non lavorare al servizio della produzione di armi e di guerra, che sembrano essere diventate l’unico obiettivo produttivo anche del settore culturale globale. Possiamo disertare quel processo che ha portato “il lavoro cognitivo − attività che potrebbe essere finalizzata all’utilità, alla gioia, alla cura e alla bellezza”, a essere asservito all’accumulazione di profitti, “a distruggere quel che rimane dell’ambiente, e a costruire strumenti per la guerra”.
È vero, l’essere umano può essere il peggior tumore del pianeta; gli esseri umani distruggono, uccidono, sterminano; non solo coloro che appartengono alla loro specie, ma anche e soprattutto esseri viventi di altre specie. Voglio credere però che la nostra immaginazione utopica possa aiutarci a ricordare che abbiamo grandi possibilità, che le abbiamo nelle nostre comunità, nei nostri nuclei intimi e sociali, nei quali possiamo impegnarci a immaginare e a costruire un mondo migliore. Possiamo osservare le realtà e le comunità in cui le alternative sono già presenti: comunità dal basso, fabbriche occupate e riconvertite, comunità di cura transfemminista. Le uniche forze davvero rivoluzionarie di cui possiamo servirci sono l’amore, la tenerezza, la cura. Se intendiamo l’amore come uno strumento politico possiamo generare forze potenti, possiamo ricostruire reti, legami e connessioni. Contro l’individualismo, l’identitarismo, la disgregazione che subiamo, utilizzando le parole dell’attivista e scrittrice Kai Cheng Thom, spero che in un mondo che ci insegna solo la violenza e l’odio, diserteremo l’odio e “sceglieremo l’amore”.