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nquinamento e consumo di suolo attraverso l’edificazione di opere inutili e infrastrutture sempre più imponenti, sfollamento di residenti e attività commerciali, spopolamento e desertificazione dei centri storici, aumento delle disuguaglianze socio-economiche e spaziali, alterazione del mercato immobiliare e creazione di spazio a uso e consumo di utenti progressivamente più ricchi: sono soltanto alcuni degli effetti collaterali che il turismo di massa produce sull’ambiente e gli spazi urbani che attraversiamo quotidianamente.
Eppure, al netto di queste conseguenze disastrose sempre più evidenti, slogan come “il turismo genera ricchezza e lavoro” e il sempreverde “il turismo è il petrolio d’Italia” continuano a trovare ampio spazio nel dibattito pubblico, utilizzando in modo strumentale metafore che mettono in mostra una vera e propria spoliazione di risorse. Si tratta di artifici retorici funzionali ad assecondare una narrazione ben precisa, volta a giustificare senza riserve tutti i tic e i malcostumi di una filiera reputata strategica per le sorti dell’economia italiana. Oltre il turismo. Esiste un turismo sostenibile?, l’ultimo saggio di Sarah Gainsforth, pubblicato nel novembre del 2020 nella collana BookBloc di Eris Edizioni, decodifica il reale significato di queste metafore, passando al setaccio le tappe che hanno scandito la crisi da sovraccarico che ha travolto il Terzo Settore negli ultimi decenni.
Dopo aver scandagliato in profondità le crescenti disuguaglianze dovute alla proliferazione incontrollata dei servizi di home sharing in Airbnb: città merce. Storie di ordinaria resistenza alla gentrificazione digitale (DeriveApprodi, 2019), l’autrice allarga lo sguardo, ponendo l’accento sulle logiche predatorie poste alle base del modello di sostentamento dell’economia turistica e provando a mettere in discussione le liturgie proprie di un’industria che, da sola, genera circa il 13% del PIL italiano.
L’ambizioso pamphlet di Gainsforth inizia con una serie di dati che mettono immediatamente a fuoco le criticità generate dalla consolidazione del paradigma dell’overtourism: dal 1950 al 2000, il numero di viaggiatori internazionali è aumentato vertiginosamente, passando da 25 a 674 milioni. I turisti, però, non si distribuiscono in maniera uniforme su tutto il pianeta: i primi dieci paesi per numero di arrivi internazionali assorbono il 46% dei visitatori mondiali, e i dieci successivi un altro 21%. Non dovesse bastare, la distribuzione è diseguale anche all’interno delle città più visitate nei paesi in cima alla classifica: ad esempio, i 20 milioni di visitatori che arrivano ogni anno a Roma – e che si traducono in 46 milioni di “presenze”, ossia numero di pernottamenti – si addensano in sole quattro delle 155 zone urbanistiche della città.
Quando il rapporto tra turisti e residenti risulta sbilanciato in favore dei primi, le città si trasformano in attrazioni turistiche invivibili, finendo per imboccare la via del collasso da sovraffollamento: in cima alla classifica mondiale delle destinazioni perite per “troppo turismo” troviamo la cittadella croata di Dubrovnik, la King’s Landing di Game of Thrones, travolta da un processo di gentrificazione irreversibile, con soli 1.500 residenti rimasti nel centro storico a fronte di oltre 10.000 turisti che, di giorno in giorno, prendono d’assalto i ristoranti e le decine di negozi di souvenir dedicati alla serie tv HBO. Nel giugno del 2017, il sindaco Mato Frankovic ha imposto nuovi orari alle decine di navi che stazionano quotidianamente presso il porto di Gruž per dilazionare i flussi turistici all’interno del borgo; tuttavia, le accortezze dell’amministrazione non sono sembrate sufficienti: l’Unesco ha decretato che lo status di patrimonio dell’umanità di Dubrovnik è a rischio a causa dell’esacerbare della turistificazione di massa.
Nel panorama italiano, il caso più eclatante è invece rappresentato da Venezia, dipendente in toto dalla monocoltura turistica, esempio perfetto dell’esasperazione del paradigma della città-merce: la popolazione della Serenissima è crollata del 46% tra il 1976 e il 2018, passando da 175.000 a 56.000 residenti; gli artigiani sono pressoché scomparsi, ricacciati ai margini della città dalla deregolamentazione che ha consentito ad Airbnb, l’attore più ingombrante del capitalismo ricettivo digitale, di fagocitare il centro storico (a confermarlo sono i dati di Inside Airbnb, il sito fondato da Murray Cox che misura l’impatto degli affitti brevi sulle città di tutto il mondo, secondo i quali il 12% delle case nella città storica è affittato a turisti per tutta la durata dell’anno). La città dei Dogi è, inoltre, la prima destinazione delle crociere nel Mediterraneo: nel 2018 ha ospitato ben 594 navi, una media vertiginosa di quasi due al giorno, che hanno minacciato costantemente gli equilibri ambientali e demografici veneziani.
Anche se l’overtourism e la turistificazione dei centri storici sono fenomeni relativamente recenti, queste pratiche affondano le radici in alcuni processi in atto già da tempo in molte città. In particolare, Gainsforth evidenzia come il turismo sia diventato un settore trainante per le economie urbane a partire dalla fine degli anni Settanta, quando il legame tra industrializzazione e urbanizzazione è entrato in crisi, agevolando una trasformazione profonda da parte delle città che, da luoghi di produzione, si sono trasformate in centri di servizi:
In questo contesto, il ruolo dello Stato muta profondamente: da erogatore di servizi il settore pubblico diventa facilitatore, committente di servizi erogati da privati.
Il geografo urbano David Harvey ha descritto questa metamorfosi come una transizione da un modello “manageriale” delle amministrazioni locali a uno “imprenditoriale”, facilitata dalla recessione del 1973. In questo contesto, le città sono state costrette a ripensare i propri modelli di sviluppo in un’ottica di self-serving: venuta meno la sinergia con i pubblici poteri, le amministrazioni locali hanno dovuto imparare a camminare sulle proprie gambe, preoccupandosi di trovare da sole le risorse economiche utili per il loro sviluppo. Come spiega Gainsforth:
Semplificando, possiamo dire che il mutamento dell’economia su scala globale, promosso dall’ideologia neoliberista che mira a rendere lo Stato un alleato del mercato (per esempio attraverso politiche fiscali regressive), ha impoverito le città, privandole di risorse economiche trasferite dallo Stato.
Il passaggio da un’economia industriale a una del terziario ha preparato il terreno per la stagione della riqualificazione: edifici vuoti, fabbriche abbandonate e porti in declino sono stati riconvertiti per venire destinati a nuovi settori economici diventati primari, come la produzione culturale, la formazione, la ricerca e, per l’appunto, il turismo. Complessi residenziali, commerciali e ricettivi si sono moltiplicati a macchia d’olio, e l’esponenziale “centro-commercializzazione” dello spazio urbano ha fatto da anticamera all’epoca d’oro dei “grandi eventi”, dalle varie Expo alle Colombiadi, fino alle ricadute disastrose generate dai mondiali del 1990, con annessi fenomeni di gentrificazione e trasformazioni che hanno livellato verso l’alto la composizione sociale di quartieri che, in precedenza, erano abitati da ceti operai e altre collettività a basso reddito.
Venuta meno la stagione del dirigismo pubblico, il turismo è diventato la principale strategia di promozione dei quartieri, concepiti come brand per attrarre capitali privati, risorse da cui ricavare plusvalore attraverso il ricorso a pratiche proprie del capitalismo estrattivo:
La contraddizione è questa: se le politiche urbane contemporanee sarebbero chiamate a sanare le diseguaglianze e ridurre le dinamiche di esclusione sociale prodotte da un’economia finanziaria, della rendita, i progetti di rigenerazione urbana sono inscritti nello stesso sistema economico che dovrebbero correggere.
Pur se caratterizzata da un’offerta di beni e servizi dall’alto contenuto di significati simbolici e culturali, quella turistica, rimane pur sempre un’industria connotata da dinamiche fortemente predatorie, sottolinea Gainsforth: una vera e propria economia dell’estrazione, che tuttavia si distingue per la particolare natura del giacimento da cui ricava i propri profitti, costituito da musei, monumenti, siti archeologici, paesaggi, beni naturali e, più in generale, tutte quelle risorse che contribuiscono a comporre il patrimonio collettivo.
Già parlare di beni culturali come di un “patrimonio” e di una “risorsa” significa imporre un’accezione economicista a questi beni, e schiacciare il ruolo della cultura al servizio del turismo come strumento per la sua valorizzazione economica […] Da questa visione deriva un uso del patrimonio culturale improntato a fare cassa.
In un prezioso scritto contenuto nella raccolta City Killers. A critique of tourism (Campo, 2020), citato da Gainsforth, Samuel Stein ha sottolineato come il turismo non possa essere considerato una semplice pratica, poiché rappresenterebbe un vero e proprio ismo, un’ideologia:
Oltre a essere lo strumento con cui le città riorganizzano spazi, politiche ed economie urbane attorno alle istanze di viaggiatori con una disponibilità economica e alla ricerca di esperienze, l’ideologia del turismo è anche la convinzione che lo spazio urbano debba essere trasformato secondo questi fini e che le esigenze dei turisti debbano essere prioritarie rispetto a quelle di qualsiasi altro utente presente o potenziale della città.
Coerentemente a questa visione, l’autrice evidenzia come l’aggressiva colonizzazione degli spazi pubblici e dei luoghi della cultura da parte del capitale privato abbia prodotto, come esito più tangibile, una radicale ridefinizione del ruolo delle città, sempre più simili a beni di consumo da posizionare sul mercato allo scopo di solleticare le velleità d’investimento delle grandi holding globali, beneficiare delle loro iniezioni di liquidità e scacciare, per questa via, lo spauracchio del default.
A questo proposito, il sociologo Giovanni Semi ha impiegato l’espressione “omologazione globale” per descrivere quei meccanismi di uniformazione e appiattimento che conducono alla creazione di ecosistemi urbani sostanzialmente indistinguibili tra loro.
Le città turistiche si assomigliano sempre di più, perché perdono i tratti locali che le rendono uniche e particolari […] un fenomeno che avviene perché l’economia si specializza in unico settore, quello del turismo, a discapito delle varietà di funzioni urbane e di un commercio che serve in residenti. Sono le città ad adattarsi ai turisti, e non viceversa.
Le città entrano in competizione tra loro, adottano strategie di marketing territoriale identiche perché identico è il fine che perseguono, ossia quello di attirare turisti dotati di un’elevata capacità di spesa, conformandosi ai dettami della teoria neoliberista del trickle-down, secondo la quale i vantaggi garantiti ai ceti più abbienti, in modo graduale, dovrebbero tradursi in un beneficio per l’intera collettività. In realtà, l’esperienza quotidiana ha dimostrato come queste scelte finiscano puntualmente per produrre effetti antitetici rispetto ai risultati redistributivi che intenderebbero raggiungere: non solo la ricchezza non si redistribuisce verso il basso, ma chi abita i piani più infimi della piramide sociale viene fisicamente espulso. Come rimarcato dalla studiosa di politiche urbane Lucia Tozzi – autrice di un altro prezioso testo sui controsensi dell’industria turistica, scaricabile gratuitamente qui – in un articolo incentrato sulla decostruzione del modello Milano, Per ogni punto che guadagna nelle classifiche internazionali, Milano respinge fuori, nei comuni dell’hinterland, i suoi abitanti poveri. Ma l’espulsione non è solo un movimento centrifugo sulla mappa, agisce anche e soprattutto sul fronte sociale, scava un abisso tra proprietari e non proprietari, e tra i proprietari nelle zone centrali in crescita e quelli delle periferie che assistono a un calo costante del valore delle loro proprietà.
Nell’ultima parte del saggio, Gainsforth presenta una serie di considerazioni relative all’incerto destino cui l’industria turistica andrà incontro dopo la stasi e la desertificazione degli spazi urbani portate in dote dalla pandemia, che ha reso evidenti tutte le contraddizioni insite in quel modello di sviluppo irragionevole legato all’organizzazione dei grandi eventi, al richiamo di grandi masse di visitatori “mordi e fuggi” e alla costante messa in discussione del diritto all’abitare che, per troppo tempo, si è imposto come insindacabile leitmotiv nelle pratiche di governo locale.
L’auspicio di Gainsforth è che il crollo del terziario non finisca per giustificare l’ennesimo “rilancio del turismo” all’insegna della mercificazione dei territori, l’ulteriore pretesto per “ripartire come prima e meglio di prima”; di contro, il blocco potrebbe costituire il punto di partenza ideale per una riconsiderazione critica delle nostre coordinate economiche, sociali e ambientali, l’occasione giusta per riconoscere i limiti di un modello insostenibile e dannoso e, finalmente, proporre alternative di segno politico opposto, che possano ripopolare i centri storici e modificare gli squilibri prodotti dall’overtourism.
È necessario, insomma, superare il falso mito secondo il quale la tanto sbandierata transizione ecologica potrà dispiegarsi senza intoppi in un orizzonte di libero mercato, semplicemente seguendo le direttrici della domanda e dell’offerta, adeguandosi agli obiettivi dell’accumulazione capitalistica in una logica win win win (buona per l’ambiente, per l’economia e per la società). Bisogna abbandonare questa visione per abbracciare una prospettiva radicalmente nuova, che ponga al centro i valori umani e ambientali e li contrapponga alle disuguaglianze sociali e a tutte le contraddizioni tipiche del modello di sviluppo dominante. Se è vero che il capitalismo verde costituisce poco più di una contraddizione in termini allora, come scrive Gainsforth,
Contro la distruzione dei nostri ambienti di vita, contro un turismo predatorio e autodistruttivo, occorre non un “turismo sostenibile” all’interno di un’economia della crescita insostenibile, ma una nuova ecologia popolare.