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o scoperto Kathy Acker ne La cronologia dell’acqua di Lidia Yuknavitch, che in un capitolo dal titolo La mia demonologia materna – è il titolo di un romanzo di Acker – racconta la sua narrativa in poche righe densissime.
Se non avete mai letto i libri di Kathy Acker, non sapete quanto spesso i padri stuprano le figlie. Senza artificio o affettazione. Senza nessuna strategia letteraria per liricizzare o simboleggiare o altrimenti celare. Un padre compare su pagina e stupra la figlia, ed è la figlia a narrarlo, senza ricoprire in alcun modo il ruolo di vittima. Leggerete, pensando madonna santa è terrificante, ma la figlia no. La figlia narrerà lo stupro del padre nei minimi dettagli, per quanto crudi, e la sua narrazione sarà il trampolino di lancio per le avventure radicali di una ragazza bambina o di una donna robot o di una piratessa. Sarà la rabbia a guidarla. La trasgressione scriverà il suo corpo.
Come spesso accade quando scopro una nuova autrice così estrema e sperimentale, la prima voce italiana che trovo è quella di Tiziana Lo Porto, che nella prefazione al primo libro di Acker che ho letto, Sangue e Viscere al Liceo (LiberAria, 2023), racchiude alcuni dei fatti più incredibili sulla sua vita e sulle sue opere, partendo prima di tutto dal momento in cui la lesse per la prima volta. Raccontare per quali vie si è scoperta una certa autrice non è un dato così cruciale o così frequentemente riportato, ma nel caso di Acker diventa rilevante perché citazioni esplicite alla sua opera si trovano impigliate tra le pagine di moltissime autrici che scrivono in vario modo di corpo, memoria, immaginazione, trauma. Tra le loro pagine, dopo averla letta, ci si accorge che Acker è disseminata ovunque, e che per la loro scrittura è esistito un prima e un dopo di lei, impossibile da nascondere e altrettanto impossibile da non omaggiare in maniera esplicita.
Forse succede qualcosa di simile anche alla nostra storia di lettrici, per cui ricostruire il momento della sua scoperta, il dove, il quando, il tramite chi e attraverso quale specifico testo siamo arrivate a lei ci serve per tenere traccia di quando abbiamo varcato la soglia. Del mio dopo fa parte una coincidenza: scoprire dopo mesi di ossessione e di ricerca spasmodica dei suoi testi, introvabili in Italia, che NERO stava per ripubblicare L’impero dei non sensi, uscito a maggio 2024 con la traduzione aggiornata di Katia Bagnoli, già voce italiana di Acker per Sugarco Edizioni nel 1991. Penso che scrivere soltanto di Acker autrice sia impossibile perché la sua vita è stata a suo modo letteratura, fantascienza e utopia; inscindibile dalla sua arte, alla quale in effetti si somma, rendendosi protagonista anche delle sue narrazioni più finzionali. Questo è soltanto un breve tentativo di sospendere momentaneamente la curiosità su di lei e sulla sua vita: mettere da parte la biografia per addentrarsi nella narrativa, attraverso i mondi che ha costruito e le considerazioni puramente letterarie che ha consegnato a dialoghi e interviste con alcune delle figure più rilevanti del suo tempo.
Definirlo una vera e propria distopia, o un testo di speculative fiction “tradizionale” è ardito, perché leggere Acker resta un’esperienza di lettura impossibile da incasellare in definizioni o regole di alcun genere.
L’impero dei non sensi è il testo che Acker stessa descrive come il punto di svolta nella sua produzione, essendo un’opera dall’impianto spiccatamente epico. I suoi personaggi per la prima volta acquisiscono personalità definite e meno frammentate, cessando di essere soltanto voci, allusioni e accenni funzionali a tenere insieme sperimentazioni e trame; come succede invece in Sangue e viscere al liceo, in cui la protagonista Janey funziona come elemento che lega i diversi capitoli pur essendo priva di un’identità vera e propria. In una conversazione con Dean Kuipers, l’autrice definisce L’impero dei non sensi il suo romanzo più accessibile, più tradizionale in un certo senso, tant’è che viene spesso descritto come un romanzo distopico vero e proprio.
Il romanzo ha indubbiamente una forma più finita di tanti altri suoi libri, c’è una scrittura che sa rispettare i binari strutturali del testo, un’alternanza di voci di capitolo in capitolo segnalata esplicitamente, una suddivisione in sezioni articolata. Definirlo una vera e propria distopia, o un testo di speculative fiction “tradizionale”, è invece ardito perché leggere Acker resta un’esperienza di lettura impossibile da incasellare in definizioni o regole di alcun genere. Anche nel caso di questo romanzo la scrittura segue un flusso che si sposta continuamente tra un piano più o meno definibile come reale e uno esplicitamente onirico, in cui si descrivono sogni e flussi di eventi possibili; ci sono pagine di scrittura delicate, metaforiche, e in quelle subito successive le parole squarciano con violenza, lacerando le trame dei rapporti e lo stile del linguaggio, che torna a farsi scuro, sporco, aggressivo come nella maggior parte della sua produzione. L’inglese si alterna a pagine in persiano, la prosa lascia spazio a brevi paragrafi di poesia, a dialoghi, a schemi, a elenchi puntati, a disegni. Si può dire che ci sia una struttura più stabile che in altri suoi testi ma la sperimentazione resta dominante, e tanto nella forma quanto nel contenuto – che lei stessa reputa inscindibili nel caso della sua opera – leggere Acker è un’esperienza insieme di meraviglia, dolore e smarrimento.
Sfogliando L’impero dei non sensi salta subito all’occhio l’alternanza tra le voci di due personaggi, due amanti, uno maschile e uno femminile: Abhor, una robot nera, e Thivai, un pirata. Le descrizioni, i caratteri e i rapporti tra i due svelano nel corso della narrazione una natura a tratti profondamente androgina e in diversi passaggi la patina onirica ricopre il flusso narrativo rendendo confusi i fili dei pensieri e le identità delle voci riportate. Nel frattempo, si consuma una sorta di guerra aperta tra il maschile e il femminile, e sebbene Acker abbia dichiarato di aver desiderato per la prima volta che al centro di uno suo testo ci fosse anche una controparte maschile, è ancora una volta Abhor l’eroina che scatena l’evento. È anello di congiunzione tra i tasselli spazio-temporali, è azione e spinta propulsiva che spalanca sempre oltre il ventaglio del possibile. Sono suoi i sogni in cui ci addentriamo, suoi i desideri e le speranze che plasmano la narrazione, e la violenza con cui la controparte maschile agisce su di lei può configurarsi soltanto come un pallido tentativo di contenimento di una forza che non è possibile arginare. Scrive Abhor in una lettera sul finale del romanzo:
Entrambi fareste meglio ad ammettere che pensate che le donne non sono esseri umani e gli uomini sì. Credete che le donne siano stracci che potete usare per togliere il sudiciume da diverse parti del vostro corpo e da scagliare sulla faccia di un’altra persona (un maschio). (…) Il mondo è una maledetta fantasia degli uomini. (…) Ecco cosa sto dicendo: state sempre decidendo cos’è la realtà, cazzo, e collaborate in queste decisioni.
Thivai poco dopo le domanda come mai perda tempo a protestare riguardo a cosa possa o non possa fare se, di fatto, è già libera e Abhor anziché rispondere salta in sella a una moto e si getta nell’ultimo viaggio attraverso la realtà a tutta velocità verso il finale della storia. È lei che chiude il romanzo, ed è la sua storia che lo apre, anche se è per bocca di Thivai che arriva il racconto dello stupro subito da Abhor da parte del padre in un capitolo dal titolo “Elegia dei padri” – che mette al centro l’ossessione per il complesso edipico all’interno della società patriarcale. Il resoconto della violenza è crudo, dettagliato ma sintetico nel registrare i fatti e le sensazioni; l’abuso è sempre riportato da Acker – come scrive Yuknavitch nel suo memoir – “senza artificio o affettazione” perché non esistono vere vittime, ma soltanto eroine che combattono l’oscurità. Il momento immediatamente successivo, come tipico di altri suoi testi, è seguito dal sogno che traghetta la protagonista verso l’altrove, consentendole di immaginare e desiderare qualcosa di diverso e di non essere inghiottita dal dolore: “Così restai nel loro appartamento e quella notte sognai che il sangue sulla distesa oceanica davanti ai miei occhi era luce. La luce grazie alla quale io potevo vedere.”
I fatti del romanzo si svolgono in una Parigi distopica dove i terroristi rivoluzionari algerini conquistano la città e cercano di mantenere il suo controllo mentre le autorità francesi cercano di sterminarli e di sterilizzare le loro donne.
Questo movimento configura un dispositivo utopico che emerge in risposta alle violenze di natura sessuale: non genera soltanto una deriva immaginativa che traghetta verso un altrove pacificatore, ma alimenta risposte da usare come carburante per reagire alla violenza subita. Il sesso da cui era passato il male si ribalta, diventando potere nelle mani delle protagoniste. Prostuzione e rapporti sessuali spasmodici ed estremi si sbloccano come azioni possibili, come strumenti da impugnare per rimodulare la realtà, per plasmare intere città secondo le loro regole: “Forse, prima della rivoluzione, gli uomini dovevano avere successo. Comunque adesso perlopiù gli esseri umani di successo sono donne. In questa città le donne sono esattamente quello che sono sempre state, prostitute: vivono insieme e fanno tutto quello che vogliono.”
Gli spazi immaginati da Acker non sono quelli di un futuro remoto da fantascienza classica, l’ispirazione arriva dall’intreccio tra la critica sociale e politica degli equilibri del presente e della storia. I fatti del romanzo si svolgono in una Parigi distopica dove i terroristi rivoluzionari algerini conquistano la città e cercano di mantenere il suo controllo mentre le autorità francesi cercano di sterminarli e di sterilizzare le loro donne. Parigi è continuamente in fiamme, le rivolte sono frequenti, intere aree della città vengono devastate, la polizia e le jeep della Nuova Polizia Araba Rivoluzionaria pattugliano freneticamente ogni strada. Gli edifici sono vuoti, le finestre rotte, la città ha la forma di un luogo anarchico disabitato in cui tutto è possibile: “La vera città dei sogni. Parigi, una città in cui chiunque poteva fare quello che voleva. Essere un pirata. Farsi tatuare la punta delle orecchie”. Chi resta vivo in questo spazio post-apocalittico si nasconde tra i margini di un mondo che si sta consumando dall’interno, tra le macerie della disputa tra Oriente e Occidente che apre una crepa al centro dell’Europa. Al conflitto prende parte anche la CIA, giunta dagli Stati Uniti per approfittare della situazione e testare un nuovo superacido in grado di lobotomizzare il cervello umano.
Il plagio, di sé stessa e di altri autori è infatti uno dei metodi di scrittura più impiegati dall’autrice, che sosteneva di aver bisogno di altri testi per riuscire a scrivere, mettendo insieme suggestioni e interi frammenti rubati.
Acker plasma gli equilibri finzionali dell’occupazione rimandando simbolicamente alla conquista francese dell’Algeria, all’occupazione degli Stati Uniti e al governo francese di Haiti, servendosi anche di alcuni suoi precedenti testi, Kathy Goes to Haiti (1978) e Algeria: A Series of Invocations Because Nothing Else Works (1984). Il plagio, di sé stessa e di altri autori è infatti uno dei metodi di scrittura più impiegati dall’autrice, che sosteneva di aver bisogno di altri testi per riuscire a scrivere, mettendo insieme suggestioni e interi frammenti rubati; nel caso dell’Impero dei non sensi soprattutto sottratti al manifesto della fantascienza cyberpunk Neuromante, di William Gibson (1984). L’occupazione algerina di Parigi si configura in questo caso come una lotta metaforica al colonialismo e come un inno alla libertà e all’indipendenza, che mette al centro anche tutta una serie di considerazioni riguardanti l’opposizione tra società, cultura e religione orientale e occidentale. Nel capitolo “Del diventare algerino” appare una figura che fornisce una descrizione piuttosto eloquente degli Stati Uniti:
Gli Stati Uniti sono una nazione morta. Priva di sogni. Gli Stati Uniti hanno distrutto tutto quello che chiamiamo vita e l’hanno sostituito con la religione. La nuova religione è l’adorazione del denaro e una fede cieca nella stupidità. Gli Stati Uniti hanno distrutto terra e cielo. Gli Stati Uniti hanno scambiato un’educazione a vivere con l’apprendimento di una tecnica per farsi controllare e memorizzare meccanicamente fatti. Ogni aspetto della vita negli Stati Uniti è oggi pronto per morire. Scopare porta soltanto malattie. Gli Stati Uniti sono un cancro nel corpo della realtà. Tutti gli americani sono nati ammalati e vivono contorcendosi nella sofferenza.
L’unico tassello di assoluta continuità tra tutti i diversi Stati-Nazione, gruppi sociali, politici e religiosi presenti è la reiterazione del sistema patriarcale. Persino nella relazione tra i due protagonisti – pirati e quindi simboli della forma più anarchica di esistenza – si configurano rapporti di potere che vedono squalificare Abhor in quanto donna non in grado di comprendere dinamiche politiche, incapace di diventare una vera pirata. Thivai la appella come crudele per natura, come una strega pericolosa per gli uomini, e Abhor rivendica tale appellativo con orgoglio:
Sono una strega, sono malvagia e sono inumana perché mescolo il mio sangue. Ecco perché sono frigida. […] Poiché sono frigida, mi si ferisce solo penetrandomi sessualmente. La freddezza del mio sangue, il mio cavallo di battaglia, prova che il ricordo degli eventi passati mi ha formato e mi forma ancora. Autistica e stupida, ghiaccio insensibile, vorrei che l’intero apparato – famiglia e memoria – andasse all’inferno. Sarò furiosa.
Anche nel passaggio che dà voce per lo più ai personaggi algerini si ritrovano meccanismi simili, e uno dei narratori del capitolo in assoluto più corale e collettivo racconta di come l’origine del patriarcato si possa far risalire al momento in cui si è compresa la natura da maniache sessuali delle donne. All’interno della narrazione appare Shahrazad, come simbolo dell’abbattimento del sistema patriarcale, che chiusa in una prigione-mondo, scrive una storia lunga mille e una notte in grado di superare il patriarcato e la morte. La sua presenza rimanda all’ispirazione mitica degli scritti di Acker, che si guarda alle spalle pescando a piene mani dalle narrazioni ancestrali per costruire nuovi miti applicabili alla sua generazione, fornendo spunti e credenze che sospendano la decostruzione e forniscano strumenti per ricostruire senza dimenticare.
Tra Shahrazad e Abhor Acker traccia una linea di congiunzione silenziosa che rimanda al segreto centrale di tutta la sua narrativa, riguardante la scrittura. Anche Abhor, infatti, verso la fine del romanzo finisce in prigione e inizia a scrivere, e la scrittura si tramuta rapidamente in potente strumento di verbalizzazione della sua ribellione. Perché non basta la vita vissuta, quella da eroina-punk sempre al limite, in bilico tra disinibizioni e motociclette dai motori scoppiettanti, serve anche raccontare e dare voce a dichiarazioni di guerra e di odio nei confronti degli uomini che tentano di dominarla e opprimerla: “Non sapevo che farmene dell’inutile, della più che inutile, virulenta e distruttiva malattia chiamata amore fisico eterosessuale. Non l’ho mai capita.”
Acker ci mostra come ci si relaziona con il trauma, con l’ossessione, con il tormento e con la violenza, senza raccontarcelo a parole. Come si sogna, come si desidera, come si trasforma tutto e come lo si distrugge. Come si racconta l’impossibile, come si articola ciò che non è possibile narrare.
Come per tutte le eroine di Acker, la scoperta della scrittura illumina un punto di svolta nella narrazione: la possibilità di sottrarsi a una prigionia fisica e simbolica che le intrappola in un reiterato meccanismo di violenza. Scrivendo, si gettano ponti con il passato e impulsi verso il futuro, attraversando le nubi offuscate della memoria e del ricordo – come dice Abhor durante il più bel flusso di coscienza presente nel romanzo “ricordare significa sconfiggere la guerra” – per creare altre storie, e altri modi di raccontarle. Acker segue la loro stessa via, scava nella memoria ma si lascia trasportare altrove, non narra di ciò che già sa, di come le cose sono state, segue le onde dell’immaginazione, di ciò che forse in altre trame potrà essere e forse sarà. La scrittura crea un movimento continuo, affannoso, frenetico, rende impossibile ricordare i fatti, cancella gli eventi e lascia addosso soltanto sensazioni, visioni. Porta sempre da qualche parte se si è disposte a seguire il suo flusso, ma non è mai il posto che si pensava, è sempre oltre, ancora più lontano. Acker ci mostra come si fa, senza raccontarcelo a parole: come ci si relaziona con il trauma, con l’ossessione, con il tormento e con la violenza. Ma soprattutto: come si sogna, come si desidera, come si trasforma tutto e come lo si distrugge. Come si racconta l’impossibile, come si articola ciò che non è possibile narrare.
Moltiplicando le storie, correndo affannosamente tra i meandri del tempo, Acker depone i suoi segreti come uova e li dissemina dappertutto nella narrazione. I fili a disposizione sono infiniti, basta scegliere il proprio.
In questo spazio sospeso d’incomunicabilità che diventa articolabile attraverso vie tortuose e strade alternative si situa quel potere che rende Acker uno spartiacque in grado di segnare un prima e un dopo nelle nostre storie. Le sue parole, i suoi disegni, le sue lingue-altre, i suoi schemi, le sue mappe oniriche sono crisalidi di luce in potenza. Le sue protagoniste non sono mai sole ma sempre moltiplicate all’infinito, come nel finale di Sangue e viscere al liceo quando Janey muore e resuscitano mille altre Janey che ricoprono il pianeta. Sono simboli di una scrittura che funziona prima di tutto come un atto di resurrezione collettiva, in grado di plasmare il passato e di forgiare il futuro, non solo di chi scrive, ma anche di chi legge e sceglierà di rispecchiarsi, di rubare delle parti, di unire la sua storia e trasformarla in un’altra.
Moltiplicando le storie, correndo affannosamente tra i meandri del tempo, Acker depone i suoi segreti come uova e li dissemina dappertutto nella narrazione. I fili a disposizione sono infiniti, basta scegliere il proprio. Quante cose convivono nella Parigi algerina di cui parla? Quante sopravvivono alla fine del romanzo? Quante invece devono necessariamente andare in frantumi? Yuknavitch prende la larva della demonologia materna, ci mostra un possibile sviluppo, un’esplosione a partire da un frammento; Olivia Laing fa lo stesso con il corpo, con la malattia, con il trauma. E se anche fosse che la scrittura funziona sempre così qui c’è qualcosa di diverso, perchè l’originale – un’autrice che del plagio e del furto non dichiarato ha fatto la sua cifra stilistica – è sempre svelato. Le si riconosce il segreto che le si è strappato, la traccia che ha consentito di costruire il nucleo della storia, perché lo scheletro della narrazione è troppo determinante, e perché va tramandato.
In questo gioco della matassa Acker ci consegna delle trame attorcigliate che è quasi impossibile sbrogliare: è costretta a sacrificare la linearità per poter fornire un brulicare di antidoti possibili, un’infinita cornucopia di utopie. Non può sviluppare tutti i fili, può districarne soltanto alcuni frammenti perché non dispone delle mille notti di Shahrazād, e allora sono tutte le altre, siamo noi, a dover raccogliere i suoi germogli e farli crescere, a doverli alimentare abbastanza perchè il gioco continui. Così fanno le sue eroine-piratesse-robot, che sopravvivono alla sofferenza e combattono, anche mentre vanno in pezzi e fanno andare in frantumi tutta la realtà e i rapporti che le circondano, mostrandoci un’utopia che resta. Non nascosta in un tassello segreto nel testo, ma disseminata ovunque in piccoli barlumi, impulsi potenti che indicano una direzione precisa da percorrere. Acker ci lascia storie che sono sono corpi vivi, in cui materia e significato diventano inscindibili, in cui l’interazione con il testo non può che metterci in una posizione attiva, che ci chiede di urlare, di scrivere, di creare, di immaginare e di combattere, come fa Abhor nelle ultime righe del suo più bel romanzo: “E poi pensai che un giorno, forse, ci sarebbe stata una società umana in un mondo bello, una società che non fosse soltanto disgusto”.