

N el bel mezzo degli anni Sessanta, quando scorrevano in presa diretta le immagini e i volti del boom che adesso osserviamo con un misto prevalente di nostalgia e ammirazione, Giovanni Arpino iniziò a scrivere per il settimanale Tempo una serie di lettere indirizzate a intellettuali, uomini politici, attrici e artisti a lui contemporanei. Nelle intenzioni di un giornale che guardava al modello dell’americano Life, doveva essere una prestigiosa rubrica di costume e spettacolo affidata a un grande scrittore, e così fu: del resto, all’epoca Arpino era già stato tre volte finalista al premio Strega, vincendo l’edizione del 1964 con L’ombra delle colline (mentre nel 1961 era stato battuto per un solo voto da Ferito a morte, il capolavoro di Raffaele La Capria). Adesso, distanti come siamo da quel tempo, le cinquantadue lettere raccolte per la prima volta tutte insieme da minimum fax sotto il nome di Lettere scontrose mostrano qualcosa di diverso; scorrendo le pagine assistiamo a un racconto complessivo di quegli anni cruciali, in una variante purissima di quel genere epistolare che in Italia ha avuto una fortuna editoriale tutta sua, persino nelle pieghe più tragiche o imprevedibili – basta pensare alle lettere dei partigiani raccolte da Einaudi, o agli scritti dei due prigionieri per eccellenza del Novecento italiano, Antonio Gramsci e Aldo Moro.
Naturalmente, contenuti e toni delle Lettere scontrose possiedono un carattere meno drammatico rispetto agli scritti appena citati – anche se fa un certo effetto leggere la lettera indirizzata da Arpino proprio al futuro prigioniero Aldo Moro, “il presidente yoga” ritratto in tutta la sua aura già dolorosa e austera. “Interlocutori”, poi, va messo fra virgolette, perché è chiaro che l’escamotage epistolare è retorico: più che a un’autentica corrispondenza, le lettere di Arpino somigliano a “messaggi nella bottiglia”, come ammette egli stesso scrivendo a Monica Vitti (“Grazie al cielo, questa rubrica non segue gli schemi delle interviste dirette, so che lei le detesta, e quindi non v’è stretto obbligo di rispondermi”). Ecco: proprio la lettera a Vitti, tra le prime contenute nel volume, è esplicativa dell’accordatura complessiva di questi scritti, laddove Arpino ricorre a un tono sempre tagliente, privo di alcuna soggezione intellettuale, esibendo punti di vista anche impopolari rispetto a icone del suo tempo e degli anni a venire. I destinatari delle missive cambiano continuamente, ma il mittente è sempre lo stesso e omogenea è la visione, lo sguardo sulle cose del mondo, vissute da Arpino con spirito battagliero, così che vien da immaginarlo come un cavaliere, lancia in resta e all’attacco; e si tratta di un valore aggiunto, tanto per la vitalità e il carisma che queste lettere trasudano, quanto per l’assenza di adulazione che emanano, chiunque sia l’obiettivo della rubrica. Così scrive a Sofia Loren, la diva italiana per eccellenza:
Ora, guizzando da un personaggio all’altro, ‘non si ha tempo per essere tristi…’, lei dichiara. Le credo fermamente, anche se ritengo che ‘essere tristi’, almeno un poco ogni tanto, aiuti a capire, snebbi il mondo, metta in contatto con le cose reali, che la velocità di comportamento confonde senza tuttavia allontanare.
Una schiettezza, tra l’altro, che per il lettore di oggi si rivela utile a scongelare – per così dire – personaggi che nel frattempo hanno raggiunto lo status di monumento intoccabile, riportandoci alla carne e al sangue, insomma nel vivo delle beghe e delle polemiche, anche aspre, che investivano questo o quell’attore successivamente canonizzato; una modalità di ragionamento che vale per figure assurte nei rispettivi pantheon come Federico Fellini (“Uscisse di sé, si buttasse una macchina da presa sulle spalle, andasse incontro al mondo, forse noi avremmo, più tardi, un Fellini diverso, felice, liberato, un fratello finalmente maturo”) o come il gran visir del calcio di quegli anni, l’allenatore dell’Inter Helenio Herrera (“I suoi meriti, signor Herrera, sono indubbi, i risultati che ha raggiunto parlano da soli […] Ma a lei, ovviamente, non bastano: dopo tanto di coppe e scudetti, lei mira a una statua eroe di Olimpia, forse lei sogna un’investitura di responsabile mondiale unico di tutti gli addetti al calcio”).
Quanto alla varietà di interlocutori scelti, che già si può intuire – e se ne incontrano davvero dei più diversi, da Tommaso Landolfi a Charles De Gaulle o ai Beatles –, questa deriva dalla curiosità intellettuale di Arpino, dalla materia stessa dei suoi interessi. Come autore, del resto, si cimentò con una gamma di generi che incontra pochi eguali, perlomeno in Italia: scrisse romanzi d’impronta picaresca-neorealista, tentò la strada del racconto fantastico, pubblicò poesie, libri per ragazzi, fu anche autore teatrale e fu tra i migliori cronisti sportivi che abbiamo mai avuto; al racconto del calcio è ispirato anche il romanzo Azzurro tenebra, del 1977. Per ciascuno dei destinatari scelti, dunque, Arpino sa scegliere la meccanica esatta, individuando l’argomento che gli interessa, servendosi del dialogo immaginario per esporre punti di vista ogni volta originali, affilati. Degli uomini politici più potenti e in vista del suo tempo intuisce debolezze e ambizioni, come emerge dalle lettere ai leader democristiani Mariano Rumor e Amintore Fanfani; mentre non mancano momenti che ai nostri occhi assumono la forma di sinistri deja-vu, come in questo passaggio diretto proprio a Fanfani:
Stiamo scivolando un po’ tutti in una nuova forma di qualunquismo, pericoloso proprio perché ha i panni della decenza, con accessori e lustrini: una febbriciattola maligna che si vale di mille focolai d’infenzione. A lei non pare giusto spingere perché si esca da questo limbo, fatto di menzogne, reticenze, contraddizioni?
Critiche o sferzanti che fossero, le parole di Arpino poggiano su fondamenta solide, frutto di uno spirito d’osservazione non comune. Rispetto alle star del tempo non gli interessa distruggere o esibire ferocia, bensì ispirare nuove strade; sferzare, appunto, e si veda la lettera diretta a Alberto Sordi, a cui consiglia di spostarsi da Roma a Milano, avendo ormai spremuto fino in fondo i tic della città d’origine, potendo così acquistare una dimensione altra, più europea. A volte, ricorrendo a un’ironia, questa sì, decisamente puntuta (scrive a Brigitte Bardot: “Come prima cosa può, da oggi, cominciare un mestiere nuovo, sempreché l’interessi: far l’attrice”). Notevole è poi il caso di Vittorio Gassman, a cui Arpino dedica una lettera, questa sì, durissima, da rileggere con gusto aggiungendo la circostanza ulteriore che fu proprio Gassman, anni dopo, a interpretare ben due film tratti da romanzi di Arpino, entrambi diretti da Dino Risi: Anima persa e soprattutto Profumo di donna, quest’ultimo tratto da Il buio e il miele.
E così in ognuna di queste lettere troviamo lo spirito originale della rubrica, ispirata, come scrisse lo stesso Arpino, a “una sana curiosità, un normale buonsenso; un’elementare esigenza di giustizia; un minimo di civile indignazione”. Proprio queste caratteristiche, unite al talento di scrittore, fanno sì che le Lettere scontrose di Arpino, in uno scaffale ideale, possano essere collocate accanto all’esplosiva corrispondenza tenuta da Luciano Bianciardi con i lettori del Guerin sportivo. I due condividevano vis polemica e carattere ostico, poco addomesticabile, personalità che immaginiamo generose e passionali, non esenti da lampi di furia, come testimoniano le loro opere. Se sul Guerin sportivo Bianciardi rispondeva, anche a personaggi illustri, talvolta inventando da sé le lettere, Arpino invece indirizzava, costruendo una rassegna che adesso possiamo apprezzare in tutta la sua interezza; ricorrendo, entrambi, a una lingua ricchissima, e a fulminanti intuizioni in grado di inquadrare un carattere in poche righe. È a Maria Callas che Arpino rivolge queste parole, tra le più intense della raccolta:
Forse anche lei ha idea di quali tempi tristi viviamo. Sono tempi che convogliano per le strade e per miliardi di appartamenti tutti uguali persone senza volto, senza sogni, senza traccia che le distingua l’uno dall’altra. A questa umanità pigra, stanca, superstiziosa, sono necessari gli dei, sono indispensabili le incarnazioni viventi di un destino umano realizzatosi su un gradino più alto, e che sfiora la perfezione, il sublime, la felicità vittoriosa.