M entre leggevo La parte sbagliata (Edizioni e/o), ho pensato che prima o poi sarei dovuto tornare a visitare il civico museo archeologico di corso Magenta, a Milano. È lì che si trova un reperto citato nel romanzo: la mummia di un uccellino risalente a cinquemila anni fa.
La parte sbagliata è il libro di esordio di Davide Coppo, giornalista culturale noto al pubblico delle riviste online (Coppo lavora da sempre a Rivista Studio, magazine di “attualità, cultura e stili di vita” fondato nel 2011, sia online che in edicola, Ndr). La parte sbagliata è un romanzo che presenta grandi qualità, e mi ha convinto per diverse ragioni. Proverò a spiegarle. La prima, procedendo in ordine sparso, non ha che fare con la vicenda d’iniziazione alla destra estrema, che sarebbe poi il cuore, l’oggetto e il dato più notiziabile di un prodotto editoriale esposto sugli scaffali mentre Fratelli d’Italia veleggia intorno al 30%.
La peculiarità, la sostanza del libro, ha a che fare anche con la geografia dei luoghi che lo compone, fra i quali, appunto, il civico museo archeologico, un’istituzione milanese alquanto schiva. Non è la Triennale e non è il Museo del Novecento. A me era capitato di entrarci molti anni fa, per caso. Sembra uno di quei musei fatti apposta per le scolaresche e in effetti il protagonista del libro, Ettore, quindici anni, è un timido studente di IV ginnasio, quando un mattino si trova al cospetto di quell’animaletto mummificato (“la cosa aveva la forma di un piccolo pupazzo o di un’ocarina”), che gli provoca un istante di vertigine. E da dove arriva questa vertigine? Dal fatto che Ettore è un adolescente emotivo e ricettivo? O dal fatto che sotto sotto è naturalmente incline alla destra e alla reazione, in quanto sensibile al richiamo e all’incanto di tutto ciò che è remoto e ci parla dalle profondità del passato?
Nelle prime cinquanta pagine del libro vengono individuati con precisione e narrati con altrettanta esattezza una serie di ambienti minori, come l’interno degli autobus usati dagli studenti per andare e tornare da scuola, e una gamma di oggetti anodini, di un genere che si trovava, fino a qualche anno fa, nelle aule scolastiche: “il televisore, di quelli grandi e pesanti, era appoggiato su carrello con le rotelle sul cui ripiano inferiore stava il registratore”. Però attenzione, non si tratta di d’insistere sulla corda della nostalgia o di “sbloccare ricordi” nel cervello del lettore millennial, si tratta di un’abilità che Coppo possiede nella ricostruzione coerente di un mondo, collocato fra il centro-centro di Milano e un hinterland placido e medio-borghese, all’inizio degli anni Zero. E attenzione, di nuovo: ciò che vediamo non sono spazi liminali, rotonde, capannoni, gli edifici dei cinema multisala o i superstore sparpagliati nello sprawl lombardo, censiti in vecchie pagine Facebook come Padania Classics e per i quali andava pazzo lo scrittore di Pantigliate Tommaso Labranca, ma è un arcipelago, in fondo poco fotografato e raccontato, formato da condomini silenziosi, campi di granturco, fossi, solitari campanili e una natura, un ecosistema, tutto sommato ancora pulsanti. Al di là degli aspetti più in evidenza del libro, Coppo è autore di una ricerca originale sul paesaggio, di una ricerca sull’anima del mondo e su un certo nocciolo della Lombardia.
L’apparizione sulla pagina degli spazi e dei simboli più ordinari e trascurabili della pubertà, quelli che crescendo abbiamo rimosso, avvolge il lettore in un mondo credibile di memorie, dove può tornare con la mente e ritrovare qualcosa del proprio sé adolescente. C’è la cucina dei nonni, c’è il volto del nonno addormentato in poltrona con gli angoli della bocca all’ingiù, come la maschera del teatro greco, c’è la casa di un compagno di classe, dove Ettore si aggira, meravigliato dall’ampiezza e dal silenzio che pervade le stanze; e poi c’è la casa di una ragazza con cui Ettore prova ad avere la sua prima esperienza sessuale:
Quando siamo saliti, la casa era calda e disordinata in un modo che mi è venuto da invidiare, come se in pochi sguardi avessi trovato in quegli spazi saturi un’affinità maggiore di quanto ne avessi mai avuta con la mia casa, la mia famiglia.
Chi non ha vissuto questa aurora, questo inizio, questi trasalimenti, fra stupore e perdita dell’equilibrio, quando finalmente a quattordici, quindici anni, si esce di casa, dal proprio nucleo, si esplora il mondo e si entra in altri nuclei, dentro volumi e ambienti che non ci sono famigliari?
Ettore si nutre di una zuppa ideologica fatta di “idee senza parole”, sempre secondo una definizione di Jesi, cioè fatta di simboli e totem ereditati da un passato mitologico.
Il libro è diviso in sezioni. Ogni sezione reca in esergo l’anno scolastico in cui l’azione si svolge: Anno scolastico 2000\01; Anno scolastico 2001\02, etc. Ettore frequenta un liceo di Milano, ma vive fuori, in provincia. Arriva nella grande città con gli occhi spalancati di chi deve ancora capire come sono fatti lo spazio e il tempo. La titubanza di Ettore mi ricorda un personaggio: l’ingenuo Domenico Cantoni protagonista de Il posto, il film del 1961 di Ermanno Olmi, dove si racconta il viaggio da Meda a Milano di un ragazzo in cerca di lavoro. Ettore e Domenico sono accomunati da una timidezza simile, da uno stesso filo d’ansia, da un rapporto ancora larvale con la città. Sono due emo, in un certo senso. Milano non incute particolari timori, ma è comunque un grande e complesso organismo con il quale bisogna prendere le misure, specie se sei un adolescente che arriva da fuori. Ma non siamo ancora nel cuore del libro, cioè all’incontro di Ettore con l’estrema destra.
Come inizia questa trasformazione? L’innesco è acceso dal rapporto con un coetaneo, un certo Giulio, un tizio non simpatico (ma sfumato), che milita in un’organizzazione giovanile, non meglio specificata, di quelle che si ritrovano ogni anno in via Paladini, a Milano, per il saluto del Presente a Sergio Ramelli. In corteo scandiscono lo slogan “Europa\Nazione\Rivo-luzione”. Al contrario di Giulio, che è un tipo dal sangue freddo, un tattico, un carrierista e sa quando conviene fermarsi, Ettore s’immerge senza difese, poco a poco ma inesorabilmente, nel percorso di formazione culturale di un neofascista (anche se la parola “fascista” lo spaventa e lo turba).
Pensavo alle braccia degli altri, di quelli che camminavano liberi davanti e intorno a me, che a volte si alzavano per accompagnare i cori, si tendevano a fare il saluto romano, un gesto che ancora m’imbarazzava. Mi spaventava, mi pareva violento, quasi volgare.
È affascinato dalla Tradizione con la T maiuscola (quella che fu interpretata e in un certo senso rivelata dallo storico Furio Jesi, tra gli anni Sessanta e Settanta). Ettore si nutre di una zuppa ideologica fatta di “idee senza parole”, sempre secondo una definizione di Jesi, cioè fatta di simboli e totem ereditati da un passato mitologico. S’inebria mentre guida lo scooter in mezzo alla campagna lombarda e, tutto solo, leva il braccio al cielo nel saluto romano. Quest’ultima è un’immagine che non solo esprime una solitudine ebbra di sé e fanatica, ma è capace di lasciare un segno nella memoria del lettore; un’immagine inedita, potente, considerando quanto il tipico soggetto neofascista sia convenzionalmente romano e fondamentalmente collocato su sfondi urbani e cementizi, non certo in piena campagna.
Coppo ci porta dentro il percorso di formazione intellettuale di un giovane neofascista, ma senza sfoggiare una conoscenza meticolosa della materia, senza eccedere in erudizione. Lo scrittore non vuole avere più conoscenze del proprio personaggio, che in fondo è solo un quindicenne (e poi sedicenne e diciassettenne). Vuole restare fedele allo sguardo e all’inesperienza di Ettore, rendendolo perciò più intero e credibile, mentre lo vede appassionarsi alla storia del militante dell’IRA Bobby Sands o emozionarsi per un like ricevuto da un camerata su un Forum. Ettore diventa fascista perché nella destra trova qualcosa di puro a cui aderire. Come biasimarlo? O meglio: è così che funziona quando hai sedici anni. Si ha sete di purezza e si è un po’ fanatici. O no? La famiglia di Ettore non è né di destra né di sinistra. Di politica in casa non si è mai parlato, non è perciò munito di quegli anticorpi che proteggono i suoi coetanei dal virus, ma il suo primo “fascista di merda” se lo prende dentro casa, dalla madre.
Di politica in casa non si è mai parlato, non è perciò munito di quegli anticorpi che proteggono i suoi coetanei dal virus, ma il suo primo “fascista di merda” se lo prende dentro casa, dalla madre.
Ettore è di destra ma non è un misogino, è piuttosto un aristocratico dello spirito e quando sente i suoi coetanei vantarsi di una scopata, si volta dall’altra parte, “cringia”, avendo repulsione per quel genere di pettegolezzi e di repertorio. Non è un dettaglio utile a rendercelo più simpatico, ma più unico e complesso. Gli avversari con cui si scontra a scuola o su internet, gli antifascisti, invece ricordano un po’ gli studenti della giovinezza di Nanni Moretti, quando il regista li ripudia in Palombella Rossa, nella scena del flashback con il picchiatore messo alla gogna, costretto a scendere le scale della scuola con un cartello al collo.
Lo stile di Coppo è piano, ordinato, forse uniforme e abbottonato, ma indubbiamente maturo, pur essendo un esordio, ed è una scrittura che non si mette mai in posa, ma resta attenta, esatta, in controllo, tanto che viene da pensare a quanto Raffaele La Capria scriveva nel saggio Lo stile dell’anatra, quando paragonava una buona scrittura al nuoto dell’anatra, così semplice e lineare, in apparenza, ma frutto di un vigoroso e incessante lavoro di zampe sotto il pelo dell’acqua.
La parte sbagliata esce in libreria con “i fascisti al governo”, come si dice nelle discussioni tra amici. L’altra sincronia, se così vogliamo definirla, è curiosa ed è data dalla recente pubblicazione di un altro romanzo, Dalla stessa parte mi troverai di Valentina Mira, che si svolge su uno sfondo simile a quello di Coppo, ed è, addirittura, assonante nel titolo. Che strano. In entrambi i titoli troviamo quella parola, “parte”, da cui deriva la parola “partigiano”. Entrambi i titoli ci tengono a non spaventare il lettore, a rassicurarlo e a lasciar intendere fin dalla copertina da che parte si sta e si scrive. Mentre del romanzo di Coppo sono già stati venduti i diritti in Germania, Francia, Olanda e Grecia, il romanzo di Mira è entrato nella dozzina per il Premio Strega ed è salito nelle prime posizioni delle classifiche di vendita, anche grazie al traino delle polemiche scatenate da alcuni pezzi grossi di Fratelli d’Italia. Se il libro di Mira affronta la questione del neofascismo con un’impostazione militante e molto spesso puerile (ne avevo scritto qui), quello di Coppo sceglie una strada decisamente più rigorosa, rispettosa dei personaggi e dei contesti.
Il primo è ambientato a Roma, l’altro a Milano, due pianeti diversi, che forse hanno condizionato la scrittrice e lo scrittore. Il neofascismo a Roma si vede, è aggressivo, fa paura (e perciò, magari?, Mira si è sentita chiamata a un libro più impegnato, militante, funzionale al contrasto e alla lotta politica); anche a Milano il neofascismo esiste, ma si vede meno per strada, e forse è perché il nero non si sposa con la fotogenia di una città per ricchi e molto instagrammata (e perciò Coppo ha potuto immergersi in sentieri più sfumati, senza preoccuparsi di schiarire il tono di voce e pedagogizzare il pubblico). Però dato che il gioco, a quanto pare, appassiona ancora, è interessante chiedersi chi sono gli scrittori e le scrittrici che portano nel lavoro della scrittura la visione, la moralità, la cultura di fondo, di uno spirito antifascista. Io non ho dubbi. Sono gli scrittori e le scrittrici che considerano i propri personaggi liberi di essere e fare ciò che desiderano, è chi siede loro accanto, come un angelo, e li ascolta parlare.