M ostrare cose mai viste è il compito primordiale del cinema, dalle “vedute” dei fratelli Lumière a De Humana Corporis Fabrica. L’ultimo film della coppia di antropologi visuali Lucien Castaing-Taylor e Véréna Paravel racconta il mondo degli ospedali parigini. Non c’è uno specifico tema, una situazione di emergenza particolare che necessita immediata denuncia o dietrologie da svelare, se non il mistero stesso dell’ospedale come tecnica culturale, la sua ordinaria eccezionalità ed emergenzialità. Dopo essere stato presentato alla Quinzaine des Cinéastes, a Cannes, lo si è visto solo in qualche festival italiano, come il Festival dei popoli a Firenze e al Filmmaker Festival di Milano.
Qui non si tratta tanto di fare una recensione del film ma di capirne la poetica e di intravedere il senso e le potenzialità del cinema documentario. Cos’è il cinema documentario, cos’è il cinema? La mancanza di parole nei loro film, la mancanza di esplicite prese di posizione, avevano attirato delle critiche. Ma il cinema non è un articolo di attualità, ha scritto già Castaing-Taylor. È piuttosto qualcosa di vicino a una pratica sociale, a una scienza che si interroga sui modi in cui entrare in relazione con il mondo: un’etnografia che si esprime con l’uso artistico dei media e non solo con la parola scritta. Proprio a metà tra accademia e mondo dell’arte sta il Sensory Ethnography Lab di Harvard, di cui questo è solo l’ultimo progetto realizzato.
Nonostante l’aspetto di bassa definizione, l’uso di action camera, lipstick camera, e diversi dispositivi di endoscopia, il film si inserisce nella tradizione del cinema etnografico di Robert Gardner (e altri, come David e Judith MacDougall), di cui gli autori sono allievi. L’osservazione filmica, per fare emergere realmente qualcosa di nuovo, necessita che gli autori lascino spazio ai protagonisti del film – che non sono solo i soggetti umani.
Proprio Gardner, con i suoi film d’osservazione, aveva indicato la strada. Un video-saggio di Kevin B. Lee sul regista-antropologo statunitense mostra come l’invenzione dei dispositivi portatili di registrazione sonora in sincrono abbia liberato il cinema documentario dalla voce narrante e onnisciente per restituirla ai protagonisti. L’etnografia ha il compito di lasciare parlare, letteralmente, i propri soggetti.
Il cinema non è un articolo di attualità: è piuttosto qualcosa di vicino a una pratica sociale, a una scienza che si interroga sui modi in cui entrare in relazione con il mondo.
Il cinema di Paravel e Castaing-Taylor fa un passo in avanti, se non due. Il primo riguarda la natura della voce stessa. La parola è messa complessivamente in secondo piano: sia perché c’è il rischio che, tramite il montaggio, la “voce” del regista riporti surrettiziamente il film verso una tesi precostituita; sia perché non ci si può fidare fino in fondo delle rappresentazioni che i soggetti danno di sé. Il secondo passo in avanti riguarda il fatto che, tra i vari protagonisti, se ne annida un altro: la mediazione tecnica. Il processo di raccolta delle immagini (sia da parte dei due antropologi che dei medici) è al centro dello schermo. Questa forma di autoriflessività parrebbe far rientrare dalla finestra la “voce” dell’autore. E indubbiamente lo rende più autoriale. Eppure, protagonista del film non è la tecnica del cinema, ma quella dell’ospedale. L’etnologo non può cedere a manie di protagonismo.
Il tema dev’essere qualcosa di non ancora conosciuto. Quello che l’attore sociale racconta esplicitamente di sé, però, non basta più al documentarista, che sa che la pratica potrebbe differire significativamente dal modo in cui viene concettualizzata. Specialmente quando l’oggetto indagato, la scienza, è qualcosa di profondamente idealizzato.
Qui bisogna parlare di Bruno Latour, probabilmente il più importante filosofo epistemologo della contemporaneità, l’antropologo della “scienza in pratica”, che ha rivoluzionato la teoria sociale ed è scomparso l’anno scorso. Spesso evocato a proposito dei film di Castaing-Taylor e Paravel, ma non abbastanza. E non solo perché fu professore di Paravel: il loro cinema è un’applicazione esemplare e consapevole della sua teoria.
Nel suo saggio di “antropologia simmetrica”, Non siamo mai stati moderni (1991), Latour sosteneva che politica e scienza siano state separate dalla società occidentale moderna, ovvero a partire dal XVII secolo, dall’esemplare opera da un lato di Thomas Hobbes e dall’altro di Robert Boyle. Una separazione idealistica, necessaria al suo esatto opposto, ovvero alla proliferazione degli ibridi politico-sperimentali e al sempre più ampio impatto della scienza moderna sulla società.
Secondo i nuovi antropologi visuali, l’idealismo, dunque la separazione, sarebbe evidente in un classico documentario a interviste, che in questo caso potrebbe spiegare come funziona un ospedale. Al contrario, se entriamo nel laboratorio, l’idealismo cede il passo al materialismo, la spiegazione alla descrizione (Latour sosteneva che per spiegare basta solo descrivere un po’ di più), la voce intelligibile al suono ovattato delle action camera, le inquadrature “totali” a situazioni un po’ astratte (la situazione di un medico che sta cercando di rimuovere una prostata aiutandosi con le immagini che arrivano dall’endoscopio). Così, all’ideale costellazione della modernità, i due aggiungono un altro nome, Andrea Vesalio, l’anatomista autore dell’opera che porta appunto il nome di De Humana Corporis Fabrica (1542).
Latour individuava il corpo politico, continuo e separato dalla scienza, nell’idea del Leviatano di Hobbes. Leviathan (2012) è il più famoso film dei due antropologi “simmetrici”, così chiamato in onore al filosofo britannico più che al mostro marino che rappresenterebbe la nave peschereccio del film. Tuttavia, il corpo del Leviatano, il “sociale”, viene letteralmente costruito in ospedale con trapano e martello e dato alla luce strappando la pelle della donna partoriente, come si vede in alcune crude scene di De Humana Corporis Fabrica. Sono queste mediazioni laboratoriali che separano e allo stesso tempo tengono insieme la società e la scienza.
Recenti teorizzazioni pensano ai “media” non tanto come i singoli strumenti, ma più come pratiche, saperi, competenze che si tramandano, alla maniera delle “tecniche del corpo” di cui parlava un altro etnografo, Marcel Mauss. L’intento è ancora una volta quello di riconoscere il sapere anche al di là del discorso verbale. La mancanza di una “voce” riconducibile agli autori favorisce il moltiplicarsi dei punti di vista: attori umani e non umani, con diverse prospettive, compresa quella del film stesso, della macchina da presa, della mediazione. È per questo che per Leviathan si è parlato di cinema “animista” (lo ha scritto la teorica del cinema Teresa Castro), alla maniera degli entusiasti delle prime immagini cinematografiche. Il cinema è la tecnica che permette di smontare e rimontare le immagini. Jean Epstein, uno di quegli entusiasti, la chiamava la capacità di produrre continuità dove c’è una discontinuità, mentre Latour parlerebbe di riassemblaggio.
Questo non vuol dire che la parola scompare, ma si riassembla in maniere realmente sorprendenti. Quello che colpisce lo spettatore (sempre che nel frattempo sia riuscito a digerire le immagini, realmente forti) sono i medici di De Humana Corporis Fabrica che parlano di argomenti più che ordinari, dai prezzi degli affitti parigini alle condizioni pietose della propria vita, durante operazioni chirurgiche che una persona normale non ha mai visto. Ancor più delle iniezioni oculari, dei parti cesarei, della neurochirurgia, spaventa il distacco di persone apparentemente distratte dai propri problemi mentre affrontano i problemi vitali degli altri. Ancora una volta, sociale e scienza insieme ma distaccati.
A coronare l’unione della banalità della voce con la pesantezza del corpo, una delle ultime scene combina il rivestimento dei cadaveri alla pubblicità radiofonica dei saldi sull’abbigliamento. Se Edison, all’origine di molti dei dispositivi mediali del Novecento, aveva provato a registrare la voce dei morti, ora il flusso radiofonico scorre distrattamente nelle orecchie dei morti.
Tra l’altro, questo uso della voce apre nuove possibilità, come l’“etnografia sonica” di un altro dei film prodotti dal Sensory Ethnography Lab, Expedition Content (2020), che indaga le registrazioni sonore fatte durante una spedizione etnografica organizzata dalla stessa Harvard e da Robert Gardner. Un film quasi senza immagini, che il New York Times ha inserito tra i migliori film dell’anno.
Non c’è uno specifico tema, se non il mistero stesso dell’ospedale come tecnica culturale, la sua ordinaria eccezionalità ed emergenzialità.
Dire e fare non sono separati – afferma Castaing-Taylor – avvengono nello stesso momento audiovisivo. In questo caso, più che spiegare, la parola fa: si lamenta, insulta, dà ordini, prova a vendere vestiti. Allo stesso modo – ha scritto Latour – l’arte del discorso (la retorica) non è realmente separata dalla dimostrazione scientifica. È possibile un’arte che scopra qualcosa di nuovo. C’è un legame profondo tra l’etnografia e la sperimentalità del cinema e dei suoi dispositivi.
Questa è un’altra dimostrazione che la tecnologia, inclusa la parola, non prescrive un suo uso determinato. Sono tecniche culturali che invece si tramandano, facendo coesistere la scienza moderna con pratiche antichissime. La medicina stessa, la meno scientifica delle scienze (forse proprio perché più imbricata con il corpo), insieme ad altre tecniche del corpo, affonda le sue origini nella notte dei tempi. Sembra andare in questa direzione il potente finale: con lo sguardo si segue una gigantesca illustrazione orgiastica che parodizza i medici dell’ospedale. Un’altra tecnica del corpo, il sesso, che viene demistificata di riflesso, forse, dalla rappresentazione in qualche modo cinica del corpo in ospedale. Debolmente illuminato durante una festa, il disegno assomiglia a un’arcaica pittura rupestre. Intanto suona “Blue Monday”, le cui parole sulle sensazioni e la cura assumono un significato concreto molto disturbante:
How does it feel
When you treat me like you do
And you’ve laid your hands upon me
And told me who you are?