I n Per farla finita con la famiglia. Dall’aborto alle parentele postumane (Meltemi, 2021) Angela Balzano riporta l’esempio di un romanzo, Sul filo del tempo di Marge Piercy, dove si descrive un mondo in cui la riproduzione non spetta più alle donne. Nel mondo figurato da Piercy, gli uomini allattano come le donne perché i loro ormoni sono stati modificati e si prendono cura, come le donne, dei bambini e degli anziani, smantellando così la canonica visione della genitorialità e dei ruoli di genere.
Ho invitato Nicoletta Vallorani e Viola Di Grado a ragionare su questi temi, in un’epoca in cui letteratura e cinema stanno provando ad affermare qualcosa di diverso e alternativo, consapevoli dei cambiamenti sociali e culturali che riguardano le nozioni di identità corpo e genere quando applicati alla condizione e al compito materno.
Elvira Del Guercio: La recente produzione narrativa e saggistica italiana mi sembra segnalare un ritorno dei discorsi sulla maternità nelle pratiche estetiche, politiche, di scrittura ad opera delle donne. Se il femminismo della terza ondata aveva affrontato il tema solo trasversalmente, a partire dalle elaborazioni delle teorie queer e di genere sul corpo e sull’identità, quale credete che sia lo stato dell’arte negli ultimi anni, nei movimenti di elaborazione teorico-politica, così come nella letteratura, nel cinema? Credete che la maternità sia tornata al centro come spazio di riflessione e in che maniera?
Viola Di Grado: Secondo me la maternità non ha mai smesso di essere al centro. Forse sono cambiate le forme a seconda delle epoche ma è sempre stata al centro, non mi viene in mente un momento in cui non lo sia stata e in che forma. Poi è naturale che il cambiamento degli ultimi anni è quello di una maggiore libertà. Prima non era scontato presentare un volto più oscuro del materno, era molto più raro che una donna si sentisse di poterlo fare. Quindi questo semmai è il cambiamento. Non una questione di spazio, ma di tipologia.
Nicoletta Vallorani: Ci sono stati dei cambiamenti, ma non cambia la centralità, come diceva Viola – siamo il paese dello Stato Pontificio dove non si può prescindere da questa presentazione iconica della maternità come connessa alla verginità, per cui si esclude l’aspetto del piacere e si dà rilevanza a una necessità di conservazione della specie. Non c’è molto altro. Credo che di recente la situazione si stia facendo più pesante, producendo un impatto molto forte sul senso comune. Anche persone con una certa cultura ed educazione esprimono, ad esempio, posizioni molto pesanti e apodittiche sulla gestazione per altri, non facendo un ragionamento sulle sfumature o necessità che portano a una scelta di questo tipo. La pressione, qui in Italia, è su un femminile caratterizzato da una maternità buona, per cui la tendenza a parlare di una maternità cattiva è ancora assente e contrastato. L’unico romanzo che ho scritto sull’infanticidio è andato, non a caso, malissimo, attaccato sia dalle femministe che dai cattolici. Non è stato possibile fare un ragionamento con sfumature.
EDG: È come se non fosse più contemplata l’ambiguità nelle narrazioni.
NV: Sì. E in più questa enfasi che il governo pone sulla questione materna sta peggiorando parecchio le cose, sta determinando nell’universo culturale anche una regressione importante di cui ci si rende conto in parte perché ha effetto anche sulle persone di cultura, per non parlare delle persone che hanno l’età dei miei studenti e delle mie studentesse, schiacciate da questa pressione.
Forse sono cambiate le forme a seconda delle epoche, ma la maternità non ha mai smesso di essere al centro.
VDG: È difficile credo parlare di regressione perché purtroppo, in Italia, anche prima non eravamo messi meglio. La situazione è sempre stata drammatica, ma in generale e non solo nella visione della maternità; per quanto riguarda, cioè, i diritti di chi non si pone all’interno del nucleo della famiglia tradizionale. È sempre stato così.
NV: Tra gli anni Novanta e Duemila, fino agli anni Dieci, si è assaporato un decennio di maggiore libertà. Poi siamo tornati a come eravamo e anche un tantino peggio, tanto che sui giornali si è arrivati a scrivere: togliete i libri alle donne e vedete che torneranno a fare figli: questa mi sembra una regressione. Non era così quando ero ragazzina.
EDG: Questa sorta di regressione, o repressione, mi sembra di capire, ha portato a una reazione, anche tramite la letteratura e il cinema.
NV: È vero che la letteratura e cultura ci provano, però cadiamo in un altro problema. C’è, infatti, una distanza abissale tra le femministe e grandi intellettuali che hanno fatto la storia del femminismo e, ad esempio, le mie studentesse di mediazione linguistica e culturale. Alcune vengono da famiglie in difficoltà, non hanno una formazione culturale articolata e non sanno che farsene di questa narrazione, adottando molto più l’idea del mandato materno come missione della donna. Questo è un altro problema di spaccatura della sinistra femminista italiana che, secondo me, non abbiamo ancora risolto.
EDG: In merito a questo, scomoderei Adrienne Rich e Nato di donna (1977), la riflessione che l’autrice attribuiva all’espressione intensive mothering, che potremmo tradurre con “maternità intensiva” o “maternità ad alta intensità”. Cercando di tornare al suo giovane corpo di ventisei anni, incinta per la prima volta, Rich riconosceva di essere stata alienata dal suo vero corpo e dal suo vero spirito dall’istituzione della maternità:
questa istituzione – il fondamento della società umana così come la conosciamo – mi permetteva solo certi punti di vista, certe aspettative, sia che si incarnassero nel libretto della sala d’attesa della mia ostetrica, nei romanzi che avevo letto, nell’approvazione di mia suocera, nei ricordi di mia madre, nella Madonna Sistina o nella Pietà michelangiolesca, sia nella nozione fluttuante che una donna incinta è una donna calma nel suo compimento o, semplicemente, una donna in attesa.
Per l’autrice, dunque, l’istituzione patriarcale ed eterocentrata della maternità priva le donne della possibilità di sperimentare forme di maternità alternative, che non si rispecchino in certi modelli standardizzati. È possibile, secondo voi, sulla base di queste premesse, una contro-narrazione del materno soprattutto alle soggettività di cui ci parlavi tu, Nicoletta, e che in modo i femminismi, penso anche a Non una di meno, potrebbero adottarla per evitare che i soliti codici comportamentali si riproducano nel tempo?
NV: La questione dell’intensive mothering è legata a una maternità ad alto investimento. Si chiede al femminile un investimento totale della maternità che è molto rischioso, perché può produrre quelle forme di femminismo che poi sono le Terf; escludendo tutto ciò che è corpo femminile nella sua purezza, non si sa cosa farne dei generi intermedi e della gestazione per altri, inoltre. Per quanto riguarda i femminismi contemporanei, Non una di meno ma penso anche alla rete Jin, la maternità è vissuta più come scelta. Lì effettivamente non c’è una vocazione al materno – anche perché non si vede un orizzonte di sopravvivenza – ma le donne che decidono di avere figli lo fanno per una scelta consapevole spesso indipendente dal rapporto di coppia, sia coppie etero che omogenitoriali. Quello di cui abbiamo bisogno, e che non siamo ancora in grado di accettare come comunità, è una varietà di possibili funzioni materne e quella che mi convince di più è l’idea della famiglia non biologica e basata sulle relazioni; che sta però venendo strumentalizzata culturalmente, soprattutto dal caso Michela Murgia, con tanti malintesi.
Quello di cui abbiamo bisogno, e che non siamo ancora in grado di accettare come comunità, è una varietà di possibili funzioni materne.
EDG: Non a caso leggendo i vostri romanzi, Bambini di ferro (La nave di Teseo, 2017) e Noi siamo campo di battaglia (Zona 42, 2022), diversi per impostazione stilistica e narrativa, i corpi dei soggetti protagonisti sono dei corpi che dipendono da un’inedita modalità di concepimento e accudimento materno, che dis-incarna i corpi delle madri, rendendoli artificiali, pura tecnica e combinazione di calcoli, come nel caso del romanzo di Viola. O corpi che spezzano la catena di traumi e violenze perpetrate dagli adulti, immaginando inedite modalità di convivenza, nuove forme di genitorialità e cura reciproca.
VDG: Mi interessa molto questo discorso della maternità fuori dal legame di sangue. Nel dibattito degli ultimi tempi mi colpisce, tra l’altro, la presenza di tante donne intellettuali che si sentono attaccate dalla possibilità e libertà di trovare l’amore non per forza nella banalità della procreazione, rispondendo con violenza che sono loro le vere madri perché hanno partorito “nel sangue”, riportando tutto al discorso biologico e a delle brutte derive. A me fa abbastanza paura.
NV: Assolutamente. Questa cosa da una parte è un po’ generazionale, e va superata. Rispetto a questa questione io mi sento come un’anomalia, trovo nelle femministe della mia età un tradizionalismo in cui non mi riconosco, dovuto alla perdita delle proprie certezze e a un’autentica difficoltà nel capire. Io parlo di “kin-ship”, ma difficilmente una persona della mia età lo sperimenta se non nei termini di apertura della casa, ospitalità etc. Molte donne si chiudono e arrabbiano perché hanno paura di perdere le certezze. E non è assolutamente una giustificazione perché penso che il mondo appartenga alle persone della vostra età.
VDG: Molte di queste donne, però, sono della mia età. Mi sono domandata il motivo di questa rabbia. Cosa sentono di perdere in questa narrazione? Mi sono data varie risposte possibili. Mi è venuta in mente questa serie televisiva brasiliana, 3 %, una serie di fantascienza ambientata in un futuro non tanto lontano in cui il divario tra poveri e ricchi è più acuto e in cui i ricchi sono mandati in un’isola perfetta, i poveri lasciati a morire. Veniva deciso a tavolino chi fossero i poveri e chi i ricchi con degli step di abilità, intelligenza e forza. La serie non è straordinaria, ma mi è rimasta impressa una cosa: a chi veniva squalificato gli veniva detto di fare dei figli per stare meglio. Fare figli è una cosa che farebbe stare meglio gli sconfitti? Quindi mi sono chiesta: forse, le persone della mia generazione, che hanno tutti gli strumenti per comprendere questi cambiamenti, come la realtà talmente luminosa di concepire l’amore senza banalizzarlo nella carne e nel sangue, non avendo ottenuto obiettivi particolari o non essendosi realizzati in un modo, sentono che, quantomeno, gli tocca rivendicare il ruolo ancestrale di procreatori e procreatrici. Quando arriva qualcuno della stessa generazione e bolla intellettuale che la pensa in maniera opposta, si arrabbiano perché è come se potessero essere privati (anche) di questo ruolo.
NV: La rabbia è per una tradizione che viene sconfessata. Ma d’altra parte i cambiamenti sono necessari. È provato che la famiglia tradizionale non stia più funzionando.
VDG: Proprio perché siamo in Italia, queste persone sanno che la famiglia tradizionale è il valore assoluto e preferiscono stare lì, nella zona di confort. Magari non sono riuscite ad avere le cose che una donna può avere nel 2024, ma almeno sono esattamente tutto quello che potevano essere secondo quel determinato standard. Si sentono normali. Una normalità che ha dentro una sorta di megalomania. Altrimenti, non ci sarebbe tutta questa rabbia nel rivendicare questo legame di sangue, quasi splatter, horror.
EDG: Non a caso molto cinema contemporaneo, così come la serialità, sta facendo leva su questa dimensione orrorifica del materno, enfatizzandone gli elementi eccessivi, iperbolici. Mi sembra che il cinema – forse più della letteratura? – riesca a sollevare quest’ambiguità in maniera decisamente potente.
Molte donne si chiudono e arrabbiano perché hanno paura di perdere le certezze.
VDG: Questo perché al cinema non viene chiesto di problematizzare quanto viene chiesto alla letteratura.
EDG: La letteratura è, in effetti, piena di autrici e filosofe che hanno scritto opere eccezionali sulla propria condizione di madri e – ancora prima – di donne gestanti, attraversando in maniera coraggiosa quello spazio-tempo indefinito dove l’identità di ciascuna è definita solo dal momento dell’attesa. L’idea, che ho ritrovato anche nei vostri romanzi e soprattutto in Le madri cattive (Salani, 2011) – in filigrana, perché la storia che Nicoletta racconta è un’altra – era comunicare che quella condizione poteva essere sentita tanto come un arricchimento quanto (tornando all’horror) come una mutilazione, e che da quest’ambiguità poteva scaturire comunque una qualche forma di appagamento.
NV: Un film che mi ha turbato molto è Titane (2021) di Julia Ducournau, e penso l’abbia fatto per due ragioni: sono una donna di una generazione specifica che ha visto nella maternità una sorta di realizzazione, sono diventata madre tardi e mi sentivo come mi mancasse qualcosa. Da una parte, vengo da una tradizione che ho assimilato, ma poi sono uscita nel mondo e ho studiato cose in netto contrasto con il mondo da cui venivo. La testa ha capito cose che per il mio corpo erano poco pensabili, applicabili e accettabili emotivamente. Siamo ancora in una fase di transizione, la tradizione è molto forte e consolidata a causa di questo governo, e non solo dal punto di vista della maternità, come diceva Viola. Dall’altra, è un fatto che i giovani abbiano molti dubbi sulla realizzazione del modello di maternità e genitorialità canonici. Altri, quando gli domandi perché abbiano messo al mondo dei figli in un mondo senza futuro, non sanno rispondere. Dal punto di vista della creazione artistica, invece, ogni linguaggio dà una visione individuale; il cinema problematizza sì, ma meno rispetto alla letteratura che è obbligata a farlo. L’artista mette sul tavolo una sua visione di maternità che rimane sua finché non diventa politica.
EDG: Ma perché, secondo voi, la letteratura problematizza la maternità in maniera più radicale rispetto al cinema?
VDG: Quello che intendo io è una questione di mezzo, strumento: la letteratura è fatta di linguaggio che deve essere problematizzazione, altrimenti è sceneggiatura. Il romanzo è una riflessione sulla realtà, non solo una descrizione. Il cinema può anche solo rappresentare.
NV: Titane però problematizza molto. Può essere una scelta di campo che è più consequenziale nella letteratura e meno nel cinema, ma c’è un problema di modalità di interpellazione: il cinema nasce come forma di intrattenimento verso un pubblico più ampio possibile, la letteratura no.
VDG: Ma se Titane fosse stato un romanzo avrebbe funzionato? Secondo me no. Quel livello può funzionare solo lì. Se fosse diventato un romanzo avrebbe avuto bisogno di tutta un’altra dimensione, che nel film non c’è.
EDG: Certo, lì penso sia un discorso estetico, di immagini, di costruzione di immagini e codici visuali giustapposti. Il cinema horror degli anni Ottanta e Novanta agiva proprio sulla base di questa complessità, sia quando erano le donne a rifare i generi da sempre corteggiati dai maschi, sia quando erano i maschi a dirigere. The Brood (1980) di David Cronenberg è l’emblema del film sull’orrore materno, perché trasfigura l’inquietudine e la repulsione della madre con delle immagini violente, plastiche, rivoltanti.
La negazione della maternità, nel nostro contesto, equivale a una negazione di appartenenza a una comunità.
VDG: Visto che lo menzioni, pensa a cosa è successo a David Cronenberg. Ha smesso di fare capolavori quando ha cominciato a riflettere sui suoi capolavori. L’ultimo film, Crimes of the future (2022), più che un suo film era un film del regista che si è letto tutto quello che hanno detto dei suoi film e ha fatto un film su questo. Capisci quello che voglio dire? Molte volte il cinema funziona perché si ferma fino a un certo punto, tu pensa al ruolo dell’inconscio in David Lynch; è qualcosa che non potrebbe mai esistere in letteratura, nella forma romanzo, quel livello di associazione. Il genio non sta nella riflessione ma nel creare il sogno. Cronenberg, in questo senso, stava facendo dei capolavori senza sapere quello che stava facendo.
EDG: Poi ha cominciato a riflettere troppo sulle sue immagini.
VDG: Il suo ultimo film sembra un’immensa didascalia. La chirurgia è il nuovo sesso, si dicono i protagonisti, ma è abbastanza ridicolo. Questo lo dovrebbe dire lo spettatore, non il personaggio a dovertelo spiegare. E paradossalmente questo è il film in cui lui ha detto tutto.
EDG: Più della letteratura, però, mi sembra sia stato il cinema dell’orrore, specialmente in anni recenti, a ripensare alcuni aspetti del materno: tanto più dopo la pandemia, quando vivere l’esperienza della maternità era diventato ancora più spaventoso e infernale per le donne sottoposte a una mole di lavoro e cura triplicati. Vi chiedo quindi: l’orrore materno immaginato da scrittrici e cineaste può essere considerato fondativo di quello domestico, e come pensate sia stata tematizzata questa congiunzione?
NV: È che spesso sono la stessa cosa. Sicuramente la pandemia ha significato un cambiamento dell’idea di cura estesa oltre l’ambiente domestico, perché è stato necessario, in quella contingenza, porre enfasi sulla necessità di prendersi cura. Resta il fatto che il concetto di cura, in Italia, si applica alla famiglia e a quella di sangue, il che ha portato a una schiavizzazione del materno totalizzante, oppressiva, una violenza sul femminile. In Le madri cattive, queste due sfere si sovrappongono in modo definito: il discorso che cercavo di fare nel romanzo c’entrava con la privazione della libertà di scelta per queste madri, donne che si trovavano ad essere madri senza volerlo, trovandosi a patire questa condizione in modo solitario. La negazione della maternità, nel nostro contesto, equivale a una negazione di appartenenza a una comunità. Se rifiuti il figlio che hai messo al mondo questo rifiuto ti rende automaticamente il diavolo, facendoti entrare in un universo dell’orrore imposto da diverse convenzioni. L’orrore materno e domestico chiusi, quindi, in una maternità intesa in senso patologico. E tornando ai nuovi femminismi, spesso le giovani donne mi dicono che provano un certo disgusto nei confronti della maternità e dell’idea di una creatura che ti cresce dentro. Ed è legittimo pensarci, così come pensare che la maternità non sia solo una benedizione.
VDG: Un corpo che diventa due corpi, una creatura che si nutre di te. È orrore puro.