I l nuovo romanzo di Alessandro Piperno, Dove la storia finisce, racconta di un padre che torna da un lungo esilio e ritrova il figlio, la figlia e la ex moglie per scoprire se e quanto è mancato loro. Si nota subito uno stile meno barocco rispetto ai romanzi precedenti: nonostante Matteo Zevi, l’esiliato, sia simile a quelle figure esagerate intorno alle quali finora Piperno ha fatto ruotare i suoi romanzi, nei fatti in questo libro Piperno si diverte a trattenere il suo personaggio, che di fronte all’accoglienza molto ambivalente dei familiari si limita a farlo percolare nelle loro vite.
Il passaggio dal barocco al rastremato non dovrebbe distrarre da un’altra questione stilistica, che in questa lingua rinnovata mi è diventata finalmente chiara: lo stile di Piperno gioca con dei registri che noi colleghi preferiamo evitare, perché è al servizio di un obiettivo fondamentale – farsi leggere dal tipo di persone a cui assomigliano i suoi personaggi. Come disse una volta il grande Valentino Zeichen a una presentazione di Le peggiori intenzioni una decina d’anni fa ai Parioli, a Roma, i lettori di Piperno esistono e sono come i suoi personaggi – vado a memoria, quel che mi interessa è lo stupore del poeta di fronte a questa scoperta.
Pur venendo considerato istintivamente significativo dai critici e dai suoi colleghi (che a volte sono quasi disturbati a doverlo tenere così istintivamente in considerazione), Piperno è il raro caso di scrittore italiano che fa conto di avere un pubblico vasto, e scrive come parla quel pubblico, o come vorrebbe parlare.
Ciò che è sempre stato messo in ombra dal suo “barocco” di avverbi e giri di frase, e che qui riluce, è il lessico. Questo professore universitario di letteratura francese, una persona con cui non si farebbe altro che stare a parlare di grandi romanzi, usa un lessico deliberatamente borghese. Direi di più: borghese in quella maniera classica del borghese, che in inglese si definisce aspirational. Pensandoci bene, non può esserci lingua più romanzesca di una lingua che serve a raccontare le aspirazioni sociali di un borghese. Quella di Piperno è la lingua di chi aspira a elevarsi e cerca di imparare gli aggettivi, le frasi. Un registro insomma non raffinato ma che aspira a esserlo, usato da uno scrittore raffinatissimo.
Le parole sono importanti
Dove la storia finisce utilizza costantemente un lessico per lettori che non seguono spettacoli di teatro sperimentale ma leggono Dickens (il grassetto, ovviamente, è mio):
Chissà come faceva Matteo Zevi a uscire sempre dai discorsi degli altri come il grand’uomo che non era e non sarebbe mai stato. Da quando era tornato, poi, aveva preso a indossare i panni umili del penitente e della vittima sacrificale. Giorgio riceveva pressioni quotidiane, tutti lì a chiedergli conto, in modo più o meno capzioso, della sua inflessibilità. Evidentemente il padre non perdeva occasione di lamentarsi di quel Torquemada del figlio. Uno stravolgimento della verità tanto subdolo quanto contagioso. Escludere Matteo dalla sua vita era stato il gesto più assennato che avesse mai compiuto, e il biasimo degli altri non faceva che confermarglielo.
Le parole, frasi e modi di dire che utilizza sono insolite per un romanziere “letterario” contemporaneo: senza cercare il volutamente basso, Piperno non cerca l’alatissimo, ma neppure la famosa “lingua media”. Usa una lingua molto precisa, deliberata, che gli permette di affrontare certe psicologie borghesi in modo sottile senza snaturare i personaggi, trasformandoli in qualcosa di più di ciò che sono – clan di romani con i soldi. Chi è capace come lui di trovare quel raggio verde che sta tra i romani cafoni e i romani borghesi un minimo “ripuliti”?
Nel passaggio che ho citato, ciò che importa è il rapporto padre e figlio: il figlio abbandonato dal padre ora non vuole riconciliarsi. Chiamiamoli temi del mito, biblici, da saga familiare: l’importante è che si sappia che quel lessico è ciò che serve a quel tema. Perché rendere più raffinato il linguaggio che deve dire di padri e figli significherebbe fare pornografia (di questo parlerò più avanti, ed è un termine usato da Piperno)
Se devo immaginare il suo pubblico, Piperno utilizza la lingua adatta a questo personaggio: una piacente signora quasi attempata che passa il tempo a
rileggere i suoi romanzi preferiti. Brulicanti di arrivisti in marsina, orfanelli scapestrati, adultere in balia di avventurieri, quei libroni erano la porta d’accesso a un mondo remoto e implausibile in cui i cavalli non la smettevano di nitrire e i piroscafi di sputare fumo. C’era sempre un boudoir parigino in cui ordire trame, le viuzze di Londra erano più adatte agli inseguimenti, le topaie pietroburghesi agli scontri filosofici. Federica aveva un debole per i manieri di campagna e le eredità contese.
In questo riassunto del fascino che emanò la letteratura tra l’Ottocento e la prima esplosione modernista all’inizio del Novecento, troviamo l’anelito di Piperno. Se un Jonathan Franzen, per rifare Dickens in Purity, cerca la lingua normale della persona inglese o americana che legge il New Yorker e guarda i late show; Piperno, per rifare Dickens, cerca la lingua dei proprietari di ristoranti, degli avvocati, e non finge mai che sia una lingua ideale, la conosce perfettamente e la tratta per ciò che è: uno strumento per creare atmosfera, raccontare una storia familiare, amori e disastri.
Stendhal secondo Piperno e secondo Balzac: ha senso dire che uno scrittore scrive male?
Non mi sarebbe mai venuta voglia di sedermi a scrivere una difesa di questa intuizione letteraria e delle implicazioni che ha per noi suoi colleghi, se non avessi visto Piperno fare una lezione su Stendhal. In un incontro al Maxxi con Stefano Petrocchi della Fondazione Bellonci, Alessandro Piperno, invece di pubblicizzare il suo libro appena uscito, ha parlato dello stile cialtrone dell’autore della Certosa di Parma e Il rosso e il nero. Come premessa, ha prima tirato fuori Flaubert e il suo stile impeccabile. Quell’ideale altissimo di scrittura perfetta
ha contagiato grandi scrittori. Nabokov aveva una media di ottanta pagine l’anno… Salinger, che aveva una devozione per Flaubert… l’orrore della pubblicazione e il mito del lavoro monastico in Salinger è parossistico, patologico, al punto di voler smettere di pubblicare…
Non è il solo modo di concepire il lavoro di scrittore “e non è detto che sia il migliore”. Flaubert aveva un odio profondo per l’umanità (ed era ricco e poteva dedicarsi solo alla scrittura, perché “il padre aveva avuto il buon gusto di morire presto – sto scherzando papà eh” – tutta la poetica familiare di Piperno in una battuta). Nonostante l’amore per Flaubert, conclude: “D’altra parte il metodo flaubertiano ha anche dei problemi sul piano compositivo. Prendersi troppo cura di quello che stai facendo – dell’opera, di un figlio, di qualsiasi cosa che tu ami – può far male all’oggetto delle tue cure. Se Flaubert ha un problema, e io chiedo scusa a Dio per quello che sto dicendo, probabilmente c’è qualcosa di eccessivamente leccato, di eccessivamente togato nelle sue frasi. Sono troppo perfette, sono troppo linde, non c’è niente di sbagliato”.
E qui entra in gioco Stendhal:
Stendhal invece era un vero cialtrone. Scrive il suo capolavoro, La certosa di Parma, da scrittore sconosciuto. Nessuno se ne accorge. Però a un certo punto esce una recensione di Balzac. Balzac dice delle cose straordinariamente elogiative, dice questo è un libro meraviglioso, questo signor Stendhal ha fatto un meraviglioso libro sull’animo degli italiani… sul desiderio, sulla tirannia (si facevano recensioni queste molto pompose nell’ottocento)… Però questo signore scrive veramente male … Stendhal reagisce da par suo e dice per lettera: La ringrazio per i suoi consigli ma io non rimetterò mai mano al mio libro. Flaubert a scrivere Madame Bovary ci ha messo cinque-sei anni. Stendhal a scrivere La certosa di Parma ci ha messo 53 giorni. E dice: Quello che c’è mi piace, non cambierò una virgola.
Il concetto di Scrivere Male è un buon grimaldello per affrontare gli aspetti più ambigui della questione dello stile: “Da cosa deriva questo atteggiamento di Stendhal, questo rivendicare l’importanza di scrivere male? … Scrive di voler usare uno stile che assomigli al codice civile napoleonico, non usare belle immagini… Non cancella le cacofonie… Stendhal capisce che è importante per lui farlo”.
E qui stiamo per arrivare al punto decisivo: perché quella sera al Maxxi Piperno, usando Stendhal, ha detto una cosa che può essere presa in due modi. O come un’apologia del proprio stile; oppure come la sfida ai romanzieri contemporanei a caccia della lingua italiana perfetta. Per me è la seconda, anche se non uso i suoi registri. “Una questione che mi sta particolarmente a cuore: ho detto, scrive male. Ha senso dire che uno scrittore scrive male?” Quando i suoi studenti di scrittura creativa gli portavano cose da leggere, Piperno non rispondeva “lei scrive male ma lei non sa scrivere. Ogni stile ha una sua funzionalità. Anche lo stile più raffinato è uno stile funzionale”.
Se Lolita e Se questo è un uomo si scambiassero lo stile.
Come esempio prende Lolita e Se questo è un uomo: se prendi lo stile asciutto del libro di Primo Levi e lo usi per scrivere Lolita, la storia dell’uomo innamorato di una preadolescente diventa pornografica. Se prendi il barocco nabokoviano per raccontare i campi di concentramento, Se questo è un uomo diventa anch’esso un libro pornografico. “Quindi in realtà non ha senso dire che una scrittura è una buona o cattiva scrittura. Ha senso invece dire se una scrittura sia appropriata”. Il che sembrerebbe una cosa ovvia, non fosse che invece non ci si domanda spesso a quale fine e per chi uno scrittore stia usando un certo stile. In questo siamo del tutto romantici, pensiamo che la lingua che usiamo non abbia a che fare con le nostre aspirazioni profonde e con il nostro amore per il lettore, ma sia invece il frutto di un rovello tra lo psichico e il politico, che niente ha a che fare con le nostre debolezze e pure con la nostra voglia di farci sentire.
Uno stile corrivo, per niente pretenzioso: quando parliamo di ciò che ci sta a cuore non siamo forbiti.
Perché Stendhal si rende conto che correggendo quel che ha già fatto rischia di stravolgerlo? Ha capito che il suo stile corrivo, per niente pretenzioso, è al servizio di qualcosa che gli sta molto più a cuore della bella frase, cioè la storia. Ora mettiamo che a noi capiti qualcosa di importante. Le cose importanti sono l’amore, un lutto, un derby perso… un romanzo pubblicato… Quando parliamo di queste cose, le poche cose serie che ci stanno a cuore, noi non parliamo mai in modo forbito. Stendhal provava un tale piacere per le cose che raccontava, che sentiva di doverla raccontare in modo semplice. Il fatto paradossale – e che però ci dà il senso di quanto la letteratura sia ricca e meravigliosa – è che Stendhal scrive delle storie splendidamente avventurose (c’è infatti chi lo paragona ad Ariosto) con uno stile da bottegaio. Flaubert scrive storie spaventosamente tristi, squallide, con uno stile assolutamente sublime. Vedete come i due stili sono consustanziali alle loro esigenze creative.
Piperno conclude dicendo che a Stendhal interessava l’atmosfera, e lo stesso vale per l’autore romano. In mezzo a quel lessico per famiglie romane con i soldi, infila dei segni di raffinatezza che fanno capire che se volesse potrebbe scrivere tutto un romanzo di lingua e immagini altissime. Ho avuto questa sensazione quando ho letto la breve e generosa descrizione di una cheese cake prodotta dal ristorante del figlio di Matteo Zevi: “…e le ragazzine di Roma Nord non osavano presentarsi a una festa senza la cheese cake al tè verde nella confezione color crema chantilly; insomma, ora che il carro dei vincitori era in overbooking, era facile magnificare la sua impresa”. Insieme a quel lessico lì, “ora che il carro dei vincitori era in overbooking”, c’è la delicatissima – proustiana, nabokoviana – immagine che combina l’acido della cheese cake, la perfezione diafana e giapponese del tè verde, e il color crema chantilly dall’Europa del nord. Quando ho ricomposto questa immagine nella mia testa, il bianco, il verde slavato e il giallo chiaro, ho visto un autore di una finezza sensoriale che sembra non entrarci nulla con “carro dei vincitori” e “overbooking”.
Mescolare i registri, senza forzare.
Il tutto si mescola in un modo che non può essere casuale, e visto che il romanzo è l’arte di mescolare registri, le strategie di un autore rispetto ai registri sono uno degli elementi fondamentali per giudicare un romanzo. Piperno potrebbe scrivere un libro intero di colori e sfumature, ma finora non l’ha fatto, perché non è stato necessario. Allo stesso modo, nell’ultimo romanzo c’è un breve paragrafo che ci fa immaginare che sia in grado di raccontare situazioni completamente diverse e che non abbiamo ancora avuto bisogno di farlo. È un passaggio in cui le due persone meno conformiste (o meno a proprio agio con il proprio conformismo) dell’intero clan si scambiano messaggi d’amore segretissimi.
La cosa che più odio al mondo è aspettarti. L’ho fatto troppe volte e sono stanca. Lo so, ciò che desidero è impossibile. Non posso chiederti niente. Ma considero un diritto rivederti, parlarti, sentire il suono della tua voce. Ti scongiuro, non privarmi del poco ossigeno che mi serve per vivere.
All’improvviso, la lingua crassa di professionisti e imprenditori sembra scomparire. A questi personaggi, e solo a questi due, Piperno concede una lingua con una sola frase fatta (l’ossigeno per vivere); una lingua più arrendevole, tutta sentimento e paratassi. Potrebbe anche scrivere un intero romanzo a partire da questo registro, e forse risulterebbe meno fastidioso a quelli tra i suoi colleghi che non sopportano di porsi le domande imbarazzanti che si pone lui sul romanzo e dunque sui registri. Potrebbe, e magari lo farà quando passerà sei mesi lontano dal suo mondo e avrà voglia di trovare la lingua adatta a un mondo nuovo. Per ora, sulle sue scelte stilistiche non c’è niente di forzato, ed è questa la sua forza.