L’autobiografia speculativa di Oneohtrix Point Never
L’evoluzione del progetto musicale di Daniel Lopatin dai synth alle chitarre post-rock.
L’evoluzione del progetto musicale di Daniel Lopatin dai synth alle chitarre post-rock.
I l celebre incontro tra lo scienziato Alfred Einstein e il regista Charlie Chaplin avvenne il 30 gennaio 1931 alla prima di Luci della città. Il loro scambio divenne iconico, tanto da apparire con gran frequenza ancora oggi su pagine internet e social network. Einstein disse al regista: “Quello che più ammiro nella vostra arte, è la sua universalità. Non dite una parola, e nonostante ciò tutto il mondo vi comprende.” “È vero,” rispose Chaplin “ma la vostra gloria è ancora maggiore: il mondo intero vi ammira, anche se nessuno vi capisce”. Come dare torto a Chaplin? Quanti si sono mai addentrati negli scritti dello scienziato tedesco o nei suoi calcoli, che hanno permesso di rivoluzionare la storia della fisica? Probabilmente in pochi. Ma allo stesso modo: in quanti hanno davvero apprezzato la musica di alcuni maestri, come ad esempio quella di Karlheinz Stockhausen o degli esponenti della dodecafonia? Anche qui, probabilmente pochi.
Oneohtrix Point Never si è spogliato dei vestiti del nerd smanettone e ultra-cervellotico per incarnare il semplice musicista raffinato che è.
Come inquadrare invece il fenomeno Daniel Lopatin, famoso per il suo progetto principale chiamato Oneohtrix Point Never? Partito come outsider puro all’interno della scena synth revival, più conosciuta come minimal synth (dal nome datogli da un venditore eBay così da rendere i suoi prodotti immediatamente rintracciabili dagli utenti appassionati), è arrivato nel giro di neanche un decennio a comporre colonne sonore per Sofia Coppola e i fratelli Safdie, a scrivere e produrre brani per The Weeknd, a collaborare con Elisabeth Fraser, Rosalia, FKA Twigs, Iggy Pop, David Byrne, ad essere direttore musicale del Super Bowl, e banalmente a vergare una pagina importante della musica elettronica con dischi fondamentali per il genere. Probabilmente anche Daniel Lopatin, un po’ come Karlheinz Stockhausen, verrà ricordato per aver fatto qualcosa di importante nella storia della musica. Non avrà lavorato come il compositore tedesco sulla musica aleatoria e seriale, ma ha comunque contribuito alla riscoperta dei synth di inizi Duemila, ha co-inventato la vaporwave ed è stato uno dei pilastri del movimento HD. Per fare questo ha messo da parte la fruibilità della sua musica? Non esattamente. Sebbene la sua musica risulti spesso frammentata e caratterizzata da sperdute onde che oscillano nel mondo autistico della sintesi FM, quasi mai ne è venuta compromessa la sua vena melodica. Anzi, spesso emerge invece la sua infatuazione per il pop – che è il motivo vero per cui è possibile parlare del suo come di un fenomeno, alla fine, pop. Tutto questo nonostante quasi ogni suo disco si aggrappi a concept molto elaborati, tanto da renderlo quasi un “intellettuale”, al pari dei maestri già citati.
Il suo ultimo album ‘Again’ è stato annunciato come un’‘autobiografia speculativa’.
Il suo ultimo album, Again, uscito proprio in questi giorni per Warp, è l’ennesimo tassello di una carriera ormai costellata da capolavori, nella quale spiccano due album epocali come R Plus Seven e Garden of Delete. Ora però, il nostro si è spogliato dei vestiti del nerd smanettone e ultra-cervellotico per incarnare il semplice musicista raffinato che è. Lopatin non è più Einstein. Annunciato il 29 agosto e lanciato dal singolo “A Barely Lit Path”, è uno di quei dischi che ha avuto la sorte di essere stato leakato alcune settimane prima della sua uscita ufficiale. Un paio di giorni dopo aver scoperto l’accaduto, un suo neanche troppo criptico tweet recitava “just because it says 320kbps doesn’t mean it is… wait for 29th”, puntando tutto sulla fiducia dei fan e la loro voglia di provare l’esperienza HD in 320kbps reali, e allo stesso tempo rendendo l’album ancora più misterioso a quelli che avessero deciso di non ascoltarlo fino all’uscita ufficiale.
Misterioso in fondo lo è comunque. Assieme al singolo è comparso in rete un suo video di un minuto in cui chiede a persone incontrate per strada come si pronuncia l’impronunciabile Oneohtrix Point Never. Immagini un po’ sfocate, in un’America che sembra quella pre-11 settembre. Again è stato annunciato come un’”autobiografia speculativa” che percepita dall’alto della mezza età (Daniel Lopatin è nato nel 1982) indaga sulle scelte e le casualità che hanno permesso di costruire la sua identità musicale. Il singolo “A Barely Lit Path” illustra splendidamente questa cornice concettuale, col suo video emozionale corredato di dadi, carte, scacchiere e altri cimeli rappresentanti il caso, oltre a una copia del romanzo fantastico di Samuel Butler del 1872, Erewhon. Una scelta molto particolare se si considera che il romanzo è un’utopia satirica non proprio progressista e nemmeno troppo positivista, che parla di una società ormai priva di macchine perché considerate pericolose. Insomma, nulla a che vedere con le monumentali concettualizzazioni di Age Of, ma d’altronde già il precedente Magic Oneohtrix Point Never viaggiava su tematiche molto più minimali: anche perché frutto di sessioni provenienti dal lockdown pandemico.
Se il postmoderno decretava la fine delle grandi narrazioni, forse la post-conceptronica avvia una fase in cui le megalomanie politiche e sociali che avevano caratterizzato l’elettronica degli anni Dieci vanno scomparendo.
Sarà che Simon Reynolds col suo articolo-manifesto sulla Conceptronica ha un po’ aperto gli occhi a molte persone e fatto scoprire che se si è musicisti la cosa più importante alla fin fine resta la musica. Se il postmoderno decretava la fine delle grandi narrazioni, forse la post-conceptronica avvia una fase in cui le megalomanie politiche e sociali che avevano caratterizzato l’elettronica degli anni Dieci vanno scomparendo. Grande voglia di musica, principalmente (e banalmente); ma anche di musica suonata. E infatti Again si apre proprio con un brano composto da soli archi, senza alcun effetto o manipolazione. Una cosa che non sfigurerebbe nelle ultime composizioni di Steve Reich. Il minimalismo è sempre stata una delle influenze centrali nella musica di Lopatin, e questo era possibile capirlo già nel 2012 quando assieme a James Ferraro, Laurel Halo e Samuel Godin registrò FRKWYS Vol. 7 con il guru David Borden. Ma il suo rapporto con gli strumenti classici più in generale si fa presente di tanto in tanto nella sua discografia. Sempre nel 2012 firmò insieme a Rene Hell Music For Reliquary House / In 1980 I Was A Blue Square, un disco che molto aveva a che fare con la musica classica contemporanea e con l’elettroacustica, mentre nel 2019 realizza la colonna sonora di Uncut Gems. Sebbene in varie interviste abbia dichiarato che comporre colonne sonore non era la sua occupazione principale, quanto piuttosto lavoro vero e proprio da sbrigare, un buon modo per ottenere soldi continuando comunque a sperimentare con la musica, quella per il film dei Safdie sembra rappresentare un momento a suo modo decisivo, visto col senno di poi. Dal tema principale del film, la meravigliosa “The Ballad of Howie Bling”, un flusso circolare che si snoda tra voci e synth per oltre otto minuti, è possibile capire che il suo lavoro su un certo tipo di sonorità è diventato qualcosa di più consolidante, e non di mero contorno.
Al contempo, Again è il diario personale dei suoi ascolti. Forse per questo è il suo disco più intimo e diretto, anche senza contenere nessun pezzo pop – una volta tanto. Un diario in cui emerge ancor più che in alcuni dischi precedenti (Garden of Delete su tutti) l’amore per i suoni Novanta e di inizi Duemila. Lopatin, che era un amante del post-rock e in generale dell’alt-rock Nineties, il classico ragazzo con cappello con su scritto “Loser”, chiama a raccolta nientemeno che Jim O’Rourke, guru dei suoni altri da almeno tre decenni, e Lee Ranaldo, storico membro dei monumentali Sonic Youth. In “On an Axis” riesuma i loveliescrushing, antica leggenda shoegaze attiva dai primi Novanta. In “Krumville” e “Locrian Midwest”, due tra i brani più intensi del disco, spicca il nome degli Xiu Xiu per le voci: un modo per connotare ulteriormente questa attitudine alternativa, dirottandola verso una dimensione tutta esistenziale e subconscia. Gli Xiu Xiu sono stati uno dei gruppi che più ha rappresentato l’ansia di vivere del nuovo millennio.
Again
è il diario personale dei suoi ascolti. Forse per questo è il suo disco più intimo e diretto, anche senza contenere nessun pezzo pop – una volta tanto.
Nel disco ci sono molte chitarre, tanto per tornare sui Nineties. Ma nella poetica di Lopatin il chitarrismo non è più soltanto riferimento all’immaginario di gruppi come Korn e Soundgarden (vedi il già citato Garden of Delete), bensì un modo nuovo per approcciare alla struttura dei suoi brani. Un modo per guardare dentro alla coscienza e alla colonna sonora che accompagna il lavoro misterioso di questa. In fondo lo shoegaze era un genere così chiamato per la posa assunta dai suoi esponenti di rivolgersi con lo sguardo sulla pedaliera degli effetti chitarristici, un genere sicuramente sommesso, introverso, intimo. La musica alternativa dei Novanta era perlopiù un movimento da cameretta, fatto di introspezione e contornato da riflessioni senza fronzoli e retoriche sulle esistenze dei giovani. La scoperta della possibilità di capirsi diversi dagli altri, e di trovare con la musica una comunità. Poi arrivò internet. E insieme ad esso tante altre musiche. Tra queste anche l’asetticità e la freddezza della teutonicità glitch, che ha dettato legge sull’avanguardia musicale della prima decade di questo millennio. Ma anche lì, come per quasi ogni genere, spiccavano nomi particolari, più versatili, meno quadrati e certamente più lirici. Uno tra questi – e una delle influenze più dirette, a mio parere, riscontrabili in Again – è Christian Fennesz. Mentre tutti i suoi colleghi titolavano i loro dischi con stringhe di numeri e parole incomprensibili che simulavano la matrice del web, lui osava uscirsene con Endless Summer o Venice – titoli dal sapore quasi ECM – o collaborare con Ryuichi Sakamoto. Mentre i suoi amici sfornavano brani che erano più matematica che musica, lui, con la sua chitarra effettata, scaldava i cuori con brani come “Caecilia” e “Rivers of Sand”. Lopatin non ha mai nascosto il suo amore per Fennesz: Venice è uno dei suoi dischi preferiti, e nel 2010 il musicista austriaco fece un bellissimo remix di “Returnal”.
‘Ogni canzone sembra un capitolo che avrebbe potuto essere una strada attraverso una carriera musicale che non ho intrapreso, ma che avrei potuto’.
Lopatin è quindi tutto questo. La metabolizzazione di questi suoni e di tutte queste differenti gamme dell’esistenza. Secondo le sue parole: “Ogni canzone sembra un capitolo che avrebbe potuto essere una strada attraverso una carriera musicale che non ho intrapreso, ma che avrei potuto”. Ma qui le parole non riescono a spiegare e qualsiasi teoria risulta troppo cerebrale. Meglio ascoltare un pezzo che arriva verso il finale del disco, poco prima della doppietta emozionale “Ubiquity Road” e “A Barely Lit Path” – quasi una crasi sdoppiata dei clamorosi “Boring Angel” e “Chrome Country”, che aprivano e chiudevano R Plus Seven – e che si chiama “Memories of Music”: il brano più simbolico dell’album. Batteria, organo, chitarra fennesziana, e melodie che arrivano dall’esistenza profonda di chi si è cibato dei prodotti culturali degli ultimi sei o sette decenni, frantumandoli e rielaborandoli ricomponendo forme surreali e cubiste.