T ravolto da un olocausto climatico, il pianeta Terra si presenta rovente, gli esseri umani – gli ultimi sopravvissuti – sono atomizzati, imprigionati in una danza frenetica dell’esplosione. Tutto sembra irreversibilmente compromesso e la sola cosa certa che si attende è una eclissi solare totale. È il 1981 e “Total Eclipse” è una hit che racconta un mondo immaginario, lo stesso mondo che, invece, con un buon principio di realtà probabilmente racconterebbe un adolescente di oggi.
All’apparenza ingenua nel suo futurismo ma alla prova degli anni davvero profetica, “Total Eclipse” è una delle dieci tracce dell’album Klaus Nomi (Rca), l’omonimo disco d’esordio del performer tedesco, che poi produrrà solo un altro lavoro, Simple Man (Rca). Non una persona, piuttosto un personaggio, un fumetto inquietante, un’entità indefinita che ha sintetizzato nella propria musica due mondi distanti: l’elettronica e l’opera lirica. A quarant’anni dalla sua morte – avvenuta il 6 agosto 1983 – resta il ricordo di un artista il cui passaggio sulla Terra è stato breve e appartato, ma seminale per generazioni future di musicisti e performer di tutto il mondo. Sperber all’anagrafe, divenne “Nomi”, richiamandosi all’anagramma del latino “omni”, quel tutto che aspirava a contenere musicalmente. Un’invenzione di sé totalmente libera, che si distinse per mistero e originalità e che ancora oggi continua ad attirare l’attenzione di molti cultori contemporanei, Nomi fece di tutto per smentire la propria natura umana in virtù di una scelta personale basata sul rifiuto di identificarsi con qualsiasi modello riconoscibile.
Nomi fece di tutto per smentire la propria natura umana in virtù di una scelta personale basata sul rifiuto di identificarsi con qualsiasi modello riconoscibile.
Klaus Sperber nasce il 24 gennaio 1944 a Immenstadt, una piccola città della Baviera, in una famiglia che già in passato aveva allevato musicisti e la musica, infatti, è una delle prime, più sincere consolazioni per questo bambino di provincia. Attraverso la radio, il giovanissimo Klaus incontra la musica lirica e se ne appassiona quanto di quella pop: Elvis Presley e Maria Callas saranno i due punti di riferimento sui quali inizierà una lunga e accuratissima formazione canora conseguita quasi interamente da autodidatta. Una delle caratteristiche più interessanti, già nei suoi primi anni di vita è proprio il percorso di formazione solitario con cui Klaus Sperber si costruisce e promuove.
Negli anni Sessanta si trasferisce a Berlino dove – per potersi mantenere gli studi di canto – lavora prima come usciere, poi come maschera alla Deutsche Oper. Il lavoro in teatro gli dà la possibilità di guardare gli spettacoli gratuitamente. Nei racconti dei suoi colleghi dell’epoca, Klaus è un giullare che intrattiene gli altri con serenate o imitazioni delle opere liriche mentre si allestisce o si sgombera il palco. Tra il 1960 e il 1970 la sua vita si divide tra il teatro e il laboratorio dove si specializza come pasticciere, mentre la notte si esibisce nel più importante gay club di Berlino, il Kleist Casino. Oggi si potrebbe dire che la sua vita è stata un lungo e ricchissimo esercizio di preparazione al successo.
Negli anni berlinesi Nomi inizia a coltivare la propria straordinaria estensione vocale da contraltista, che riesce a raggiungere il tipo vocale, molto raro, della più grave delle voci femminili, alternando la voce di petto e quella di testa apparentemente senza sforzo: un esercizio che alla maggior parte dei controtenori risulta complesso da eseguire. “Klaus Nomi cantava come un uomo intrappolato nel corpo di una ragazza morta”: le parole di Morrissey, ex frontman degli Smiths, restituiscono la sensazione di attrazione e ansia che suscitava quella voce “non ordinaria”.
Quando la stranezza che lo caratterizza diventa un ostacolo alle sue aspirazioni, Klaus si trasferisce a New York. Negli anni Settanta l’East Village è un luogo urbanisticamente sventrato e, proprio come una città bombardata, pullula di appartamenti vuoti, mentre le strade sono piene di mobili; arredare casa prendendo quello che si trova ai bordi dei marciapiedi è una prassi. Ad eccezione di alcuni isolati che richiamano le antiche atmosfere di una città dell’est Europa, il Village sembra la concretizzazione architettonica di un brutto sogno cubista, ma alla depressione economica si oppone un fermento culturale eccitante: le gallerie di SoHo cominciano a commercializzarsi e le rivoluzioni sessuali danno vita a una libertà espressiva in tutti i campi dell’arte. Lo scantinato è la dimensione fisica e mentale di tutti gli outsider che finiscono a New York.
Il Club 57, fondato da Stanley Strychacki, si trova nel seminterrato della chiesa nazionale polacca di Holy Cross e dal 1978 al 1983 passa dall’essere un club di polka a uno dei locali più interessanti per concerti di musica punk, serate a tema e mostre d’arte spontanee come la “First Annual Group Erotic and Pornographic Art Exhibition” di Keith Haring. Nessuno ha niente, ma vivere lì non costa nulla. Nel 1978 McDermott affitta da Stanley Stryhaski l’Irving Plaza, un club di veterani polacchi in disuso dove allestisce il “New Wave Vaudeville Show” con una serie di giovani artisti d’avanguardia che vivono in città. È qui che Klaus Nomi fa il suo debutto nel 1978, vestito con un mantello di plastica trasparente sopra una tuta spaziale ed entrando in scena attraverso una nuvola di ghiaccio secco. Canta un’aria di Camille Saint-Saëns e, una volta finita l’esibizione, esce attraverso un’altra nuvola di ghiaccio secco senza dire una parola. Man Parrish, un creativo dell’East Village, ricorda quella notte: “Ricordo di essere corso al piano di sotto e di aver visto Klaus, in piedi in un cono di luce blu avvolto dai fumi con un mantello di vinile trasparente, che cantava un pezzo da Sansone e Dalila. Qualcosa era appena atterrato su questo pianeta e pensai: questo ragazzo non canta in playback, non è una drag queen, lo sta facendo davvero”.
Il giovane immigrato europeo che si guadagna da vivere come lavapiatti e pasticciere quella notte si trasforma in un alieno geometrico.
Il giovane immigrato europeo che si guadagna da vivere come lavapiatti e pasticciere quella notte si trasforma in un alieno geometrico, di cui nessuno sa niente e che si impone immediatamente nella scena dei locali new wave. Ripete l’esibizione in altri club come il Mudd e il Max’s Kansas City, luoghi molto distanti dal mondo dell’opera. “Klaus ha portato il trascendente nel trasgressivo” afferma Anna Magnuson, manager del Club 57 che lo conosce bene. “Che si tratti di arte, musica o moda, capisci di essere arrivato al pubblico quando lasci le persone assolutamente senza parole – e chi meglio di qualcuno che ha dichiarato di non appartenere a questo mondo può far provare un simile stupore?” L’identificazione come alieno ha permesso a Nomi la libertà di esprimersi nel modo più autentico: “Affronto tutto come un assoluto outsider. È l’unico modo in cui posso infrangere così tante regole. Prendo un’esperienza familiare e la inserisco in un ambiente alieno”. Andrew Horn, regista del documentario The Nomi Song (1994), racconta:“L’essere omosessuale non faceva apertamente parte del suo spettacolo, sebbene lo fosse. Non è mai apparso travestito, per esempio, ma poi ha avuto un suo personale, specifico, unico travestimento”.
Nella casa in cui ho vissuto i primi dieci anni della mia vita c’era un lungo corridoio: soffitto alto tre metri, a metà del quale una grande vetrata filtrava la luce del piano di sopra. Non c’è stata una sola volta – anche con la luce accesa – in cui io non abbia percorso quel luogo di corsa. Ai miei occhi di bambina quell’ala della casa, lunga e oscura, appariva come il potenziale parco giochi di mostri cattivissimi, anzi, brutti e dispettosi. In fondo si trovava, appesa al muro, una grande cornice quadrata che conteneva un dipinto spettrale nei toni del viola e del blu cobalto: su un busto triangolare, che aveva l’aria di una grande giacca con ampie spalline, si ergeva una testa scheletrica da cui si diramavano, sottili come fili elettrici, sette, otto capelli. Solo molti anni dopo, quando ho smesso di attraversare quel corridoio correndo, ho scoperto che quella disegnata non era una testa ma un vaso con dei fiori appoggiato su un triangolo rovesciato e mi sono convinta della potenza dell’astrattismo, in cui gli elementi non si connotano necessariamente in senso univoco, ma piuttosto vagano ambigui in una molteplicità di interpretazioni.
Un’esibizione illeggibile, che sfugge sempre alla realtà e che provoca sia applausi che disapprovazione.
La prima volta che ho scoperto l’esistenza di Klaus Nomi, ho pensato istintivamente a quel quadro. Del resto, da quando si trasforma in Nomi, la sua identità è inghiottita dal concetto e si presenta come una sorta di opera astratta vivente: pochissime espressioni facciali umane sotto un pesante trucco bianco e nero che richiama una maschera Kabuki, uno smoking di plastica dalla forma triangolare e passi di danza robotici. Non c’è nulla di naturale di lui – nella natura non c’è alcuna volontà di salvezza, giustizia e perfezione —, è una presenza strana che offre, però, l’esaltante prospettiva di inventare la propria identità indipendentemente da qualsiasi identità normativa preesistente.
Più che l’aspetto estetico, però, è la voce a creare il fascino caotico intorno al suo personaggio. Nella maggior parte delle sue esibizioni pop – da “Total Eclipse” (composta per lui da Kristian Hoffman) alla sua cover synth-pop di “You Don’t Own Me” di Lou Christie (entrambe nella raccolta Encore!) – Nomi alterna la sua voce di baritono a quella di soprano, quindi non è facile capire quale voce sia artificiale e quale reale, mentre nelle interpretazioni operistiche come “Mort coeur s’ouvre a ta voix” dal Samson et Dalila di Saint-Saëns, le arie da Dido and Aeneas e King Arthur di Purcell (“Death”, il lamento di Didone e “The Cold Song”) e la canzone “Der Nussbaum” di Robert Schumann, il performer tedesco canta esclusivamente in falsetto. Klaus Nomi riesce a imitare la vocalità femminile, sostenendo frasi lunghe in falsetto, per poi cambiare registro con pause molto brevi. Questo fatto genera incredulità divertita nel suo pubblico, la stessa che suscitano gli spettacoli delle drag queen, dove alla vista di un corpo dal genere indefinito si accompagnano voci ora maschili ora femminili. Una esibizione illeggibile, dunque, che sfugge alla realtà e che provoca sia applausi che disapprovazione. Per Colin Irwin, critico musicale di Melody Maker, le esibizioni di Nomi – difficili da collocarsi nell’industria musicale all’infuori dei live – “erano una barzelletta che veniva ripetuta all’infinto fino a nausearsi di se stessa”.
La voce rimane uno dei più importanti marcatori d’identità, e voci disincarnate come quella di Nomi, non coerenti al corpo a cui appartengono, possono generare inquietudine. In “The Nomi Song”, il giornalista Alan Platt spiega come l’interesse suscitato dal cantante ruoti intorno alla sua androginia, che non è solo sessuale ma trascende nel dubbio se appartenga al genere umano o no: “Non avevo idea di chi fosse. Ricordo che ero sulla Quarta Avenue e improvvisamente ho visto questo personaggio stravagante, in mezzo alla folla. Tutti si sono fermati e si sono girati, e… ‘Che cazzo è quello?’ La gente si chiedeva ‘Cos’è quello?’, non ‘Chi è quello?’.
La gente si chiedeva ‘Cos’è quello?’, non ‘Chi è quello?’.
La metafora dell’alieno come modello di vita queer non rappresenta nulla di nuovo nella New York di quegli anni, dove David Bowie ormai da tempo canta del suo extraterrestre Ziggy Stardust. Bowie e Nomi si conoscono e nel dicembre 1979 sono protagonisti di una indimenticabile performance al Saturday Night Live. Ispirata al Das Triadisches Ballett (Il balletto triadico) dell’artista Oskar Schlemmer, l’esibizione di “The Man Who Sold the World” di quella notte resta il momento più alto e straziante di tutta la vita del cantante bavarese. David Bowie – imbrigliato in un completo dalla forma rigidamente geometrica che gli impedisce di muoversi – viene trasportato sulla scena da Nomi e dal suo collaboratore, il ballerino Joey Arias, in una perfetta pantomima dadaista, dove il duca bianco è la creatura celeste innaturale e perfetta, supportata, alle sue spalle, dalla maestosità canora di Nomi, che però appare inevitabilmente come un supporto nelle retrovie e nulla più. È, tristemente, il momento più alto della sua carriera – se le vette si misurano quando l’artista incontra il grande occhio delle masse.
Dopo quel live Klaus Nomi riesce a firmare due contratti con la casa discografica Rca, ma da quel momento la sperimentazione inizia il suo processo di arresto e né Bowie, né altri artisti lo coinvolgono in altre collaborazioni. Nel 1982, dopo la pubblicazione dell’album Simple Man parte per un lungo tour europeo, mentre la sua salute inizia a dare segni di un inspiegabile cedimento. Nella primavera del 1983 gli viene diagnosticata la sieropositività all’HIV.
Il 6 agosto 1983, Klaus Nomi muore in un ospedale oncologico di New York. Coerentemente con la sua personale narrazione di creatura venuta dallo spazio, molte riviste titolano la notizia “Klaus Nomi ha lasciato la Terra”. Una partenza rapida, feroce e disumanizzante: “Cominciò a sembrare un mostro”, ricorda il suo amico Joey Arias, l’unico che gli resta accanto quasi fino alla fine. “I suoi occhi erano piccole fessure viola e il suo corpo era ricoperto da macchie, completamente devastato. Ho sognato che avrebbe recuperato le forze e sarebbe tornato sul palco, ma che avrebbe dovuto velarsi come il fantasma dell’opera, per nascondere quelle tracce. Rise, gli piacque molto questa immagine”.