

N on riesco quasi mai a scrivere della Sicilia. È la terra di mia madre, di metà della mia famiglia, il luogo in cui ho passato più tempo dopo quello in cui sono nato e in cui vivo, Roma. Per certi versi è anche il posto che mi ha visto crescere di più, durante lunghissimi mesi estivi e primaverili. Giornate intere passate per lo più nella solitudine famigliare, in una casa grande e silenziosa, in cui era possibile non incontrare nessuno per ore. La compagnia costante di libri e fumetti, CD, cassette; la piacevole vicinanza di un mare sempre presente sullo sfondo della mente. Un mare freddissimo e a sua volta pieno di storie, popolato da mostri arcaici e leggende omeriche: lo stretto di Messina.
Giornate ammantate di caldo soffocante, lunghi pomeriggi di tedio fruttuoso, quasi allucinato. Poco altro da fare oltre a riflettere, fare i conti con me stesso e gli stimoli culturali in vario formato di cui mi circondavo, divorati famelicamente ora dopo ora. Di Sicilia ho scritto raramente, nonostante scrivere sia il mio lavoro. Eppure la cerco sempre quasi senza accorgermene, come fosse un battito vitale costante. Senza quel suono basso, perderei la bussola di qualcosa che fa parte di me in modo viscerale, inspiegabile. La cerco nei viaggi, che spesso e volentieri vedono la Sicilia come naturale ma forzata tappa di mezzo. Nelle persone e negli oggetti di cui mi circondo, nelle cose che leggo e che ascolto.
I primi tre album sono eterogenei nella pura materia musicale ma con alcune importanti caratteristiche comuni: l’intergenerazionalità degli interpreti; il recupero di tradizioni folk aggiornate al presente; la presenza di un iperuranio narrativo comune, sfumato e indefinibile.Oggi la ritrovo evocata nei primi tre album pubblicati dalla neonata Baccano dischi, la nuova etichetta discografica della Luiss University Press (LUP). Nasce da un’idea di Daniele Rosa, direttore editoriale di LUP, che a sua volta ha affidato la curatela a un volto noto dell’underground romano e nazionale ‒ Toni Cutrone (Mai Mai Mai). I primi tre lavori sono usciti tutti l’11 aprile 2025: Go Dugong & Alfio Antico con La macchia, Lino Capra Vaccina e Mai Mai Mai con I racconti di Aretusa e infine Maria Violenza & Irtumbranda & Tropicantesimo. Album eterogenei nella pura materia musicale ma con alcune importanti caratteristiche comuni: l’intergenerazionalità degli interpreti; il recupero di tradizioni folk aggiornate al presente; la presenza di un iperuranio narrativo comune, sfumato e indefinibile. Una nuvola di fumo siciliano dalla quale ognuno ha pescato pezzi di storie per costruire la propria.
Questo tessuto narrativo quasi indefinito, ancestrale e poco pubblicizzato è una delle caratteristiche che più associo alla Sicilia. Una terra carica di significati diversi, profondi e sconvolgenti, spesso nascosti; celati a chi viene da fuori con un pudore quasi paranoico, che si riflette nella vita di tutti i giorni. In Sicilia è comune che le facciate dei palazzi siano modeste, quando non distrutte. Al contrario, dentro, spesso si scoprono abitazioni ricche, curate e piene di sorprese. Allo stesso modo entrare in intimità con un siciliano può essere difficile, ma una volta che ci si è riusciti è impossibile rimanere indifferenti. D’altronde se riusciamo a sbucciare un fico d’India senza pungerci, in mano rimane un frutto dolcissimo.
Il Sud del mondo è da sempre in mano al Nord. È una narrazione filtrata da un concetto di “mancanza” e inadeguatezza, i cui termini sono stabiliti non dal soggetto che viene descritto, ma da chi lo sta descrivendo.Tutto ciò per dire che la Sicilia continua a rifiutare una delle principali tendenze contemporanee, la stessa di cui mi sono macchiato anche io nei primi due paragrafi: l’autonarrazione. Prendiamo Napoli, che è invece all’estremo opposto di questo asse narrativo. Napoli parla sempre di sé stessa, si racconta all’inverosimile in ogni sfaccettatura. È così da sempre: dalla dinastia dei De Filippo al cinema di Sorrentino, passando al rap dei Co’Sang o il neomelodico 3.0 di Liberato. La Sicilia invece sembra mantenere un atteggiamento che mia madre definirebbe demodé. Con tutti i suoi limiti e pericoli, l’autonarrazione è uno strumento importante. Se da una parte corre il rischio di essere semplificata o strumentalizzata, dall’altro si può rivelare un modo per prendere in mano la propria storia. D’altronde la narrazione sul Sud del mondo è da sempre in mano al Nord. È una narrazione filtrata da un concetto di “mancanza” e inadeguatezza, i cui termini sono stabiliti non dal soggetto che viene descritto, ma da chi lo sta descrivendo. Insomma il Sud viene raccontato sempre passando attraverso uno specchio forzato con il Nord, che per di più decide le regole del confronto. L’autonarrazione, se usata bene, può essere il sasso che fa esplodere questo specchio deformante.
Il disco di Maria Violenza, palermitana doc, riprende una grande tradizione di autonarrazione siciliana, poco pubblicizzata e conosciuta fuori dalla Sicilia: quella dei cuntastorie, trovatori itineranti di derivazione medioevale. Alla loro comparsa rappresentarono l’unico tramite culturale tra il popolo analfabeta e il mondo epico e poetico del poema cavalleresco di Francia, rappresentato poi anche nella tradizione burattinaia dei pupi siciliani; ma anche di storie e leggende locali, legate ad esempio alle figure mitiche dei briganti. Insomma a tutti gli effetti i cuntastorie erano una sorta di griot in versione sicula. Dopo l’avvento della stampa acquisirono sempre più un ruolo che si avvicina al mondo giornalistico, diffondendo fatti e notizie, stampando su fogli le storie che rappresentavano. Una figura evolutasi nel tempo fino ad arrivare al Ventesimo secolo quando, ibridandosi con la musica d’autore, ha regalato personalità leggendarie come Orazio Strano, Ciccio Busacca e Rosa Balistreri.
Il folk viene allargato a dismisura e nelle maglie si infiltrano synth, batterie elettroniche e pause abissali. È così che il mondo onirico e diurno siciliano, incontra quello acido e notturno della capitale: un cocktail di chiaroscuri abbaglianti.Nel disco di Maria Violenza, Irtumbranda e Tropicantesimo le canzoni popolari siciliane vivono nella voce di Maria, accompagnata dalla viola di Luciano Turella (Irtumbranda). Palermitana DOC ed eroina dell’underground europeo ‒ peraltro con un’affinità verso il mondo francese che la inserisce ancora di più nel continuum siculo sopra descritto ‒ Maria prende per mano l’ascoltatore e lo trasporta nei suoi due mondi: tra passato e presente, con l’aiuto della crew romana. Se infatti nel lato A troviamo una collezione di canzoni “canoniche” del canzoniere siculo, in quello B siamo immersi in un frullatore sonico in cui quelle stesse canzoni sono scomposte e ristrutturate con l’aiuto del collettivo. Il folk viene allargato a dismisura e nelle maglie si infiltrano synth, batterie elettroniche e pause abissali. È così che il mondo onirico e diurno siciliano, incontra quello acido e notturno della capitale: un cocktail di chiaroscuri abbaglianti.
Chiaroscuro è una parola chiave per queste uscite. Lo è anche per la Sicilia, dove il sole terrificante che abbaglia e brucia la terra, trova il suo doppio in un’ombra altrettanto spiazzante. Alfio Antico racchiude in sé questa dualità: il timbro della sua voce, la tecnica sopraffina dei suoi tamburi antichi, la sua presenza fisica percepibile anche attraverso il disco. Elementi che trascinano in un non-luogo temporale fatto di materia spiegabile quasi più con il tatto che con l’udito. È come trascinare le orecchie dentro il solco di un aratro. In La macchia il maestro siciliano, pastore fino all’età di diciotto anni, incontra l’elettronica di Go Dugong. Otto brani che disegnano un passato-futuro evocativo e avvolgente, sfidando la nostra concezione di musica tradizionale così come quella di elettronica contemporanea. La sensazione materica in cui siamo immersi è evocata anche dal siciliano, una lingua meravigliosamente onomatopeica. Le parole siciliane sono fatte per evocare i contorni delle cose che descrivono. Prendiamo il secondo brano, “Trezzatura tagliente”: la trezzatura è la tecnica di incrocio della paglia per creare oggetti, sedie, cappelli e via dicendo. Pronunciarla significa vedere gli intrecci nell’aria, dipinti dal suono di una parola che è musica di suo.
Il risultato è un disco psichedelico e profondo. Trentasei minuti che non si capisce quando inizino e quando finiscano. La sensazione inspiegabile è quella di trovarsi subito nel mezzo del discorso musicale, già dai primi secondi, fino all’ultimo: un vero e proprio sortilegio temporale in musica. Nella voce di Alfio Antico vive tutto il Mediterraneo. Vocalizzi che raccontano di intrecci millenari con il vicino Nord-Africa, somiglianze che può riscontrare anche l’orecchio meno allenato. D’altronde è la storia della Sicilia, divisa tra greci e saraceni; capitale della Magna Grecia e porto preferito della cultura musulmana.
Il vibrafono disegna nuvole di suono che scoppiano nell’area come bolle di sapone, sospinte dal vento dei droni e delle percussioni.La geografia della Magna Grecia è ricomposta nel disco di Mai Mai Mai e Lino Capra Vaccina. Calabrese il primo, pugliese il secondo, hanno registrato I racconti di Aretusa nel cuore dell’isola di Ortigia, il centro storico di Siracusa. Il disco nasce infatti da una residenza per Ortigia Sound System, dove i due hanno soggiornato per due settimane suonando e registrando in un luogo di grande suggestione, la Chiesa di Gesù e Maria. Lì a due passi, la fonte Aretusa: secondo la mitologia greca Alfeo, dio fluviale figlio di Oceano, si innamorò di Aretusa, ninfa di Artemide, divenendone ossessionato. Per sfuggire alle sue attenzioni Aretusa invocò l’intervento della dea che la tramutò in fonte. Tra gli echi della chiesa in cui è stato registrato e quelli della mitologia e le antiche tradizioni da cui si lascia affascinare, il disco si divide in quattro racconti. Il vibrafono disegna nuvole di suono che scoppiano nell’area come bolle di sapone, sospinte dal vento dei droni e delle percussioni. L’incontro tra i due artisti è significativo: se Mai Mai Mai è uno dei principali alfieri contemporanei della riscoperta folklorica aggiornata al contemporaneo, Lino Capra Vaccina è una vera e propria leggenda della musica sperimentale italiana, cofondatore di formazioni storiche come Aktuala e Telaio Magnetico ‒ con Franco Battiato.
Oggi che godiamo di un rinascimento nuovo in questo senso, Baccano dischi indica la strada nel recupero di tradizioni che negli ultimi decenni hanno dovuto fare i conti con un’esterofilia che le ha spesso schiacciate fino quasi a non lasciarne traccia.In questo senso siamo di fronte al disco più programmatico dei tre rispetto all’approccio di Baccano dischi: il passato che incontra il presente in tutti i sensi. Come mi ha detto Toni Cutrone in un’intervista per zero.eu “partendo da mondi diversi, si scopre quanto in realtà siano anche simili. Ci accomunano le stesse tradizioni, le stesse memorie – personali e collettive – e il modo in cui queste sono sopravvissute fino ad oggi, custodite dentro di noi ma anche tramandate all’esterno, attraverso la musica, i gesti, le storie”. Oggi che godiamo di un rinascimento nuovo in questo senso, Baccano dischi indica la strada nel recupero di tradizioni che negli ultimi decenni hanno dovuto fare i conti con un’esterofilia che le ha spesso schiacciate fino quasi a non lasciarne traccia. Non appena ho ricevuto i materiali di queste prime uscite, mi è subito venuta in mente una chiacchierata avuta con Marco Castello, natio proprio di Siracusa, qualche anno fa:
Veniamo sempre di più schiacciati, giorno dopo giorno, anno dopo anno, e grossi pezzi vengono ignorati e dimenticati. Ad esempio mi chiedo: “perché, se il posto in cui sono nato e vivo ha un bagaglio culturale del genere mi devo mettere addirittura a scrivere in inglese? Mi sembra assurdo. Perché devo imitare gli americani, se a casa ho una marea di spunti e materiali da sviluppare? Bisogna saper bilanciare. È anche bello immedesimarsi in questioni che diventano globali, è bellissimo poter essere compresi anche a livello extralocale. Ma l’uniformazione del linguaggio è un pericolo reale, in questo momento siamo tutti americani, è quasi incredibile. Qualche volta mi chiedo: “minchia, ma come ballavano alle feste duecento anni fa, a Siracusa, come cantavano, come si vestivano: cosa si faceva per divertirsi?”
Baccano dischi ha iniziato un percorso importante nel recupero di un’autonarrazione italiana che possa emanciparsi da una sterile esterofilia. Lo ha fatto partendo dalla regione più enigmatica e incompresa d’Italia. Un percorso che magari ci porterà a ricordare come ballavamo alle feste duecento anni fa.