N el gennaio 2017, a Milano, dove si vende il venti per cento del totale dei volumi in Italia, la quantità dei libri di Giovanni Arpino in giacenza nelle librerie cittadine è di circa trenta pezzi. Arrivano a sessanta comprendendo il canale dell’usato. L’indagine, allargata alla città adottiva dello scrittore, Torino, raddoppia il risultato. Nel caso di quest’ultima sono le bancarelle dell’usato a possedere il maggior numero di copie dei libri di Arpino. Il totale approssimativo dei punti vendita delle due città è di circa centocinquanta librerie. Se ho bucato esempi virtuosi, me ne scuso.
Questi numeri non per aprire un discorso piagnucoloso sulla profondità dei cataloghi delle librerie, ma soltanto per riportare un dato feroce eppur veritiero, testimone di un oblio, di una dimenticanza: Giovanni Arpino non si legge, non si legge più, nonostante parliamo di un autore in grado di vendere centotrentamila copie nel solo anno di uscita de “La suora giovane”. Quello che, lo dichiaro in principio, considero uno dei massimi scrittori italiani in assoluto, è sparito.
Che cosa è successo a questo fantasma della narrativa del Novecento? Un fantasma che il 27 gennaio di quest’anno compirebbe (soli) novant’anni e di cui a dicembre, il dieci, ricorrono i trent’anni dalla morte. Ce lo siamo dimenticati. La scomparsa è certificata dalla ricerca su Google. La prima pagina è inesorabile. Arpino è soprattutto un Comune in provincia di Frosinone. Le successive pagine sono occupate da alberghi, sagre, bed & breakfast della zona. Per trovare Giovanni Arpino scrittore bisogna specificare. E non trovare granché. Solo chicchi sparsi.
“Consideratemi un autore defunto”
Nasce a Pola. Il padre Tomaso, militare di carriera, è in quel momento lì obbligato. Sono i primi appunti da prendere riguardo la sua biografia. L’incertezza geografica, e la gerarchia, la figura paterna. Arpino si sposta, seguendo la sua famiglia, tra Piacenza e Bra, dove negli anni del liceo Giovanni declina la presenza del padre (rattrappito dopo l’armistizio dell’8 settembre) in due figure: il farmacista Cordero, membro comunista del CLN e ostinato lettore, soprattutto di classici. E Velso Mucci, personaggio reale ma già archetipo della narrativa di Arp. Amico di artisti, nottambulo, uomo da bar, vissuto a Parigi, sarà il suo primo lettore e consigliere.
“Non avevamo fatto altro da anni. Solo sedersi al caffè per giocare a carte e poi alla sera da Norris, fino all’ora di chiusura. Alla fine non si riusciva mai a trovare la voglia di lasciarsi. Per questo ce ne andammo ai giardini, sotto i tigli, sdraiati sulle panchine si poteva aspettare il fresco della notte e sentirselo venire addosso come un vestito nuovo”
Dalla consuetudine placida della vita braidese si sposta verso Genova, dove nella stamberga di via Pré costruisce il romanzo Sei stato felice, Giovanni che viene spedito alla casa editrice Einaudi, dove hanno messo in piedi la collana “Gettoni”, riservata principalmente agli esordienti. Il manoscritto finisce nelle mani di Vittorini, che ne rimane piacevolmente colpito. Italo Calvino non è della stessa opinione, è perplesso, ma Vittorini lo convince a pubblicarlo.
Nel frattempo Arp ha svolto un noioso servizio militare, in cui le attese del padre vengono (ancora) deluse. Si ripara negli uffici, non è il suo mondo l’alzabandiera, non lo appassionano le marce.
Il 25 aprile del 1953 sposa Caterina “Rina” Brero, la sua eterna fidanzata, la donna che gli starà al fianco, nonostante i tradimenti (“Tanto poi ritorna sempre da me!”) e le assenze, fino alla fine dei giorni. Per vivere accetta di occuparsi delle vendite rateali dell’Einaudi, rifiutando il ruolo di lettore di manoscritti, meno sicuro dal punto di vista economico. Un’esperienza che lo porta in giro per l’Italia, da venditore, alimentando la sua visione randagia e spavalda, seppur vestita, dell’esistenza. Nessun luogo, solo treni e visioni.
“La porterei agli stadi, le domeniche, o al mare, sì, mi piacerebbe vederla nuotare e ridere e sentirmi chiamare dall’acqua, io a dire no, non mi sento, ti aspetto qui all’ombra, sì qui, ciao”
Sono gli anni, siamo nella metà dei Cinquanta e l’inizio dei Sessanta, in cui la poetica di Arpino si dibatte, sbatte, avanza e retrocede. C’è la fascinazione verso il romanzo ideologico, suggestione einaudiana dell’epoca, che sfocia ne Gli anni del giudizio e più avanti in Una nuvola d’ira (senza la stessa convinzione). C’è nel mezzo l’exploit de La suora giovane (1959), che lo porta alla notorietà. La novizia Serena è il personaggio che lo accompagnerà per sempre, come lo stesso romanzo di cui è protagonista. Un rapporto ambiguo, per ammissione di Arp, con un testo ancora adesso decisivo all’interno della bibliografia sua. Già qui gli tocca subito divincolarsi, cercare di uscirne, ricordare a lui e al mondo che Giovanni Arpino è altro, o non è niente, di sicuro non vuole essere soltanto quello.
“Non udivamo che il nostro respiro, il sentiero era erto, con improvvisi sassi taglienti, e affondando nel nero di radi alberi, tra brevi gole immote sotto un cielo senza stelle, pareva di inoltrarsi in un vuoto infinito, ciascuno solo col suo badile, distinguendo a malapena la schiena del compagno che gli camminava davanti”
La fase è decisiva. Arpino vince il Premio Strega nel 1964 con L’ombra delle colline, il suo memoir letterario. Sono gli anni in cui demanda ai personaggi dei suoi romanzi il cambiamento, la sua indole liquida (è sua la definizione). Il Serafino Calandra di Un’anima persa, un finto ingegnere nottambulo dalla vita nascosta e truffaldina, siamo nel 1966, segna il distacco. Fondamentale, così come pure, anni dopo, il capitano Fausto de Il buio e il miele (1969). È la virata decisa di Arpino. Non ha più voglia, bisogno, di aderire. Non ne ha mai avuto voglia, bisogno. E nemmeno ci è riuscito. Prende il largo.
“Verso mezzogiorno gli ultimi gruppi di dimostranti avanzarono sbriciolati, li tallonava un tram. Tra le quinte d’una via laterale apparvero i rigidi musi dei camion allineati e fermi. Ombre verdognole di poliziotti, deposti gli scudi, potevano curvarsi ad accendere la sigaretta”
Nel 1971 riceve il Premio Andersen per la favola Zio computer. È la fiaba, il racconto per bambini, il fantastico, il suo orizzonte. Dichiara: “La fiaba è il massimo genere per antonomasia”. Di una collana per ragazzi sarà curatore per Rizzoli, di fiabe e racconti per ragazzi è ricco il suo curriculum. Con Randagio è l’eroe vince il Premio Campiello del 1972. Del fantastico, del fiabesco, si riempie il suo romanzo Domingo il favoloso (1975), uscito prima a puntate (tredici) per La domenica del Corriere. La vita varia e impenitente del protagonista, espedienti quotidiani, viltà e onore, lo riempiono. Un giocatore di carte, come lo stesso Arpino, che sui tavoli ha speso tanto del suo patrimonio.
A fine 1977 esce Azzurro tenebra, il suo romanzo basato sulla pessima avventura italiana ai mondiali di calcio del 1974 in Germania Ovest. Lo sport, il calcio, è fiaba, avventura, da cui deluso si allontanerà nel finire di vita, intravedendone lo spaventoso aspetto mercantile. Dal dicembre 1979 inizia a collaborare con Il Giornale di Montanelli, suo grande estimatore e amico. Pubblica Il fratello italiano, con cui vince il Super Campiello nel 1980, La sposa segreta e Passo d’addio. La trappola amorosa esce postumo nel 1988.
“Una cosa sola può accomunare le erranti e diverse creature che scrivono: la fede in ciò che fanno. Altrimenti ogni pagina – e non importa che sembri bella o sembri brutta – è inutile. E lo scrivere inutile è la peggior forma di tradimento che un uomo può inventare a danno di sé e degli altri. Scrivere romanzi, per me, significa portar testimonianza poetica del mondo in cui viviamo. Significa ricercare personaggi che riassumono i tratti della nostra vita d’oggi. Significa prendere di petto la realtà e spremerne i succhi nascosti, segreti, misteriosi, esemplari”
Quindi dove sono finiti i quattordici romanzi, i circa duecento racconti, la sua corposa produzione poetica, la letteratura per ragazzi?
Accennavo nell’introduzione alla matrice raminga e sfuggente della sua biografia. È un’indole che poco dopo i trent’anni rimane solo nella sua narrativa, smettendo di fargli muovere le gambe. Perché Arpino vive, accetta Torino, e a Torino ambienterà quasi tutta le sue opere. Una Torino in cui è sempre autunno, una scenografia prima di tutto mentale in cui i suo personaggi, alla maniera di Simenon, fanno quasi sempre la stessa cosa: partono. Non importa se per un viaggio lungo, verso una vita diversa, o semplicemente incontro a una sventura. E treni ovunque, tram, poche automobili. Un movimento che nella sua scrittura elegante, tumultuosa ma posata, agita lo sfondo, lasciando in scena uno, due personaggi al massimo per volta. Un trionfo di individualismo, e anarchia. Una proprietà di linguaggio sontuosa e la pennellata della frase morbida. Eppure Arpino non è nel pantheon, non siede con Pavese e Fenoglio, ad esempio. La sua epopea è malinconicamente incompresa, nonostante i premi, nonostante la notorietà, già in vita. Finiti gli anni Ottanta svanirà il suo nome e inizieranno a svanire i suoi libri dagli scaffali e dai comodini, dalle mani.
Forse Giancarlo Fusco (di cui era amico) può essere accostato a lui per spreco di risorse, splendore, e attuale sparizione. Ma se in Fusco la narrativa fungeva apparentemente da divertissement, come un ulteriore giro di danza nella sua vita garibaldina, in Arpino i romanzi sono le colonne portanti dei suoi sessant’anni. Sono il suo mestiere, la sua attitudine, la voce. Una serietà tradita che potrebbe far pensare fors’anche a Luciano Bianciardi, se non fosse che la mitologia di quest’ultimo deve accontentarsi e rimpiangere un solo, grande romanzo, La vita agra.
Così Arpino stesso non si è mai voluto collocare, non si è seduto da nessuna parte, senza accontentarsi o nutrirsi a una sola rassicurante tavola. Ecco che ritorna la tendenza a sfuggire, a distrarsi, a cercare altro.
“Sto bene in nessun posto”
Per non rischiare di essere preso troppo sul serio, per primo da sé medesimo, ecco che tanta della sua energia finisce nello sport. Anche nel giornalismo sportivo però non c’è per lui il pantheon. In quello ci finisce Gianni Brera. Arpino, perseverante irregolare, rimane sempre un girone sotto, forse a giocare a carte con Beppe Viola. Come ha scritto Rolando Damiani “L’intelligenza […] lo rese talora ostico e quasi inamabile, ne fece un solitario e un uomo a sé, pur nella notorietà garantita dalla veste di giornalista. Chi aveva concepito prima dei trent’anni Sei stato felice, Giovanni e La suora giovane poteva esimersi dal dichiarare in pubblico le sue generalità, quand’anche fosse scambiato per un altro. Verrebbe anzi da sospettare, a chi ancora lo ricordi ospite, con un’aria sorniona, in trasmissioni televisive soprattutto di sport, che lui stesso gradisse un certo equivoco sul suo conto”. Inviato, cronista, e anche qui narratore sublime quando prende l’esperienza della sciagurata avventura dell’Italia ai mondiali di calcio e ci scrive sopra Azzurro tenebra, monumento al disincanto giornalistico. Lì dentro mette la sua amarezza, che non è dettata dal fallimento sportivo della nazionale, ma si potrebbe dire dal fallimento del mondo. Perché l’esistenza stessa di Arpino è stata quella di un depresso entusiasta della vita. E di questo ha dovuto soffrire.
“Altissime colonne di zolfo reggevano pallidamente il crepuscolo dei quell’ultima estate. Irregolari cubi di polvere le case, mitragliate da un’infinità d’occhiaie cieche. Nei vuoti del cielo rari guizzi d’uccelli come traiettorie di spade duellanti invisibili. Ora vicine ora remote, dallo sporco muggito uniforme della città, su per le vene di mille strade deserte, arrivano esplosioni, secchissime e brevi: talvolta potevano non essere spari.L’uomo immerse lentamente due dita nel catino d’acqua sul balcone. Le ritirò poi con calcolata pigrizia senza smuovere una sola goccia.
La donna approvava.
Le rispose con un dolce mugolio in gola.
E disse: “Proprio così, Olona. Non possiamo entrare e uscire dal mondo in questo modo. Lasciando nessun segno. Come milioni di altri poveretti. E siamo già vecchi, topa.”
Randagio è l’eroe (il mio romanzo preferito di Arpino), è ingiustamente fuori dal podio delle opere più note. Tanto è vero, ad esempio, che non viene incluso nelle Opere Scelte de I Meridiani Mondadori.
È in questo romanzo che Arp getta al lettore la sua fatica e la sua gioia. Giuan, al solito, fugge, scappa, verso dove non sappiamo. Un omone forte e buono, capace di poche parole e di gesti ruvidi. Apice e abisso. Olona lo aspetta, lo cerca, lo ama. Noi lo vogliamo ritrovare, il mondo ha bisogno di Giuan. Questa volta è Milano ad accogliere la vicenda, soprattutto di notte. Il sacrificio di Giuan è la penitenza di Arpino stesso, il suo dolore e la sua forza sono quelli di chi è messo di fronte alla sciagura, all’umana malefatta, e vi vuole porre rimedio. Ma non c’è rimedio, questo lo sa Giuan e lo sa soprattutto Arpino. Conscio e attento osservatore del mondo, ne comprende tutta la sua ridicola posa. Per questo se ne strugge, per questo si arrabbia, per questo rimane solo. Chi ha compreso i segreti semplici degli uomini sa riderne ed è abituato a piangerne.
Non è sano che uno scrittore efficace e dotato come Giovanni Arpino galleggi alla deriva della memoria nazionale, delle liste scolastiche, delle librerie e dei librai, di scrittori e lettori infine. Ce lo siamo dimenticati e non avremmo dovuto farlo. Ci sono sue pagine così magnetiche e luminose che chiamano l’applauso. Il compiacimento. Di più, la sua letteratura è una salvaguardia del nostro vocabolario, abile com’era nell’utilizzarlo tutto, come un pittore che non dimentica nessuna tonalità, nemmeno quelle ai margini più distanti della tavolozza. La sua assenza è una sconfitta, la morte del suo catalogo un’offesa.
Ho sempre letto Arpino immaginandomi i suoi personaggi come figure di Giacometti. Abitare il mondo ed esserne rinnegato. Indagare il mistero. La desolazione e lo smarrimento. La solitudine.