È una tarda mattina di fine estate: il sole è verticale sugli ombrelloni puntellati sulla spiaggia, ma sulla linea del mare c’è una tempesta che minaccia di trasformarsi in una di quelle trombe d’aria che riempiono i notiziari. Un signore anziano dice in dialetto salentino alla moglie di non preoccuparsi, la burrasca resterà lontana, benché ai primi fulmini qualche gruppo stia già abbandonando la spiaggia per precauzione. All’improvviso, un bambino a passeggio col padre sulla battigia adocchia un castello di sabbia incustodito: con un grido selvaggio e un salto a piè pari, si getta sulla costruzione, distruggendola.
È una scena quasi allegorica, da carta dei Tarocchi: la premonizione di un futuro funesto all’orizzonte, la saggezza degli anziani e la giocosità dirompente di un bambino verso ciò che è venuto prima di lui. Esattamente come per un Arcano, l’interpretazione della scena non è necessariamente univoca, anzi; richiede piuttosto l’individuazione di una serie di significati: cosa rappresenta il castello? Cosa rappresenta la giocosità distruttiva del bambino? È moralmente condannabile a prescindere, o ha — potenzialmente — una sua legittimità?
La risposta a queste domande dipende prima di tutto da come definiamo il giocare: se come un’attività separata dalla vita ordinaria, regolata da norme proprie, o se come un’attitudine che può riguardare ogni aspetto della vita e che è, sostanzialmente, appropriativa e sovversiva. E anche da come definiamo, più nello specifico, il giocare alla fine del mondo — una coordinata filosofica che si fa sempre più concreta nei tempi che ci troviamo a vivere.
Costruzione e distruzione nel gioco
Nella storia della letteratura sociologica e filosofica che si è cimentata nell’impresa, definire in modo univoco cosa significhi giocare si è dimostrata una missione impossibile — al punto che lo studio indipendente di videogiochi Molleindustria ha fabbricato un gioco molto ironico a riguardo, intitolato The Definition of Game. Questo perché facciamo rientrare volgarmente sotto l’ombrello “giochi” attività molto diverse tra loro, dal semplice nascondino ai complicati videogiochi di strategia, passando per le partite di calcetto, i drinking game e le campagne di Dungeons & Dragons con gli amici il martedì sera. Paradossalmente, è facile essere d’accordo su cosa sia un gioco e cosa no fuori dal mondo accademico, perché cresciamo con l’idea condivisa che il gioco è un’attività ricreativa, relegata al tempo libero — non è lavoro, non è studio, non è pranzare dalla nonna. A conferma di questo, lo sport smette di essere solo un gioco appena diventa da professionisti, assurgendo al dignitoso status di lavoro.
Se esiste però un sine qua non del giocare su cui concorda più o meno tutta la letteratura dei cosiddetti Game Studies, è il rispetto del consenso e delle regole concordate. In altre parole, se siamo costretti a partecipare a un gioco, non è più un gioco. E se bariamo o infrangiamo le regole, non siamo buoni giocatori. Come spiega la studiosa di giochi dell’infanzia Linda A. Hughes nel saggio del 1983 Beyond the Rules of the Game: Why Are Rooie’s Rules Nice?, le regole di uno stesso gioco possono ovviamente cambiare in modo significativo da contesto a contesto, ma è la comunicazione implicita ed esplicita tra i giocatori a fare da vero collante all’esperienza. Per fare un esempio semplice: una regola non scritta del biliardino è che è vietato “frullare” le pedine, perché considerata una mossa da “incompetenti” che produce risultati spesso caotici e sproporzionati. Eppure, se a giocare sono tutte persone a cui l’elemento caotico del frullio delle pedine non importa, o addirittura diverte, è chiaro che il gioco resta tale e godibile, benché non corrisponda alla sua versione ideale. Addirittura, traslando l’esempio di un altro gioco che Hughes porta nel saggio, il frullio potrebbe essere concesso solo ai giocatori meno esperti, per dare loro una sorta di vantaggio relativo. Il consenso al gioco è rispettato, le regole sono semplicemente riscritte.
Tendiamo a elogiare gli aspetti costruttivi o creativi del giocare. L’aspetto distruttivo si trova in una posizione ben più ambigua.
Questa premessa è fondamentale per comprendere anche come discutiamo gli aspetti costruttivi e distruttivi del giocare, e come il secondo richieda in genere un numero di specifiche maggiore, perché associato a una funzione più ampia di prevaricazione e di perdita del fattore di “piacevolezza” (o “niceness”) individuato da Hughes. Tendiamo a elogiare gli aspetti costruttivi o creativi del giocare: i mattoncini da costruzione sono, da generazioni, un gioco legato allo sviluppo di abilità logiche nell’infanzia, e guardiamo con ammirazione le complesse opere che utenti esperti realizzano dentro il popolare videogioco Minecraft.
L’aspetto distruttivo, dal canto suo, si trova in una posizione ben più ambigua. Può indubbiamente presentarsi come regola di gioco — o meccanica, se parliamo di videogiochi — prevista e desiderabile. Minecraft non sarebbe lo stesso gioco se, oltre alla parte di costruzione, non avesse anche quella di distruzione, e il numero di giochi e videogiochi che si basa sull’annientamento delle risorse di partenza rasenta l’infinito, da giochi antichi e analogici come Battaglia Navale, a fenomeni di massa moderni come Fortnite. Ma l’aspetto distruttivo può presentarsi anche come devianza o decadenza: spostare i personaggi nella piscina e togliere la scaletta per lasciarli annegare lentamente, soddisfava un certo lato oscuro in The Sims, un gioco che pone il giocatore nella posizione di creatore onnipotente di un mondo simulato. Non era una mossa proibita dalle regole (o, meglio, dal design) del gioco, eppure la sua dubbia moralità è così innegabile da essere diventata un gradino sulla scala di cattiveria condivisa basata su riferimenti alla cultura pop. Infine, dai vecchi Tamagotchi ad Animal Crossing, un mondo di gioco può autodistruggersi lentamente se il giocatore non lo frequenta con costanza, come una sorta di punizione.
Giochi distruttivi e panico morale
Per menzionare un ulteriore livello di discorso, la componente distruttiva di un gioco è anche spesso oggetto di preoccupazione, se non proprio panico morale. Non solo se un gioco è percepito come troppo violento nelle sue meccaniche, per cui ci domandiamo come società se “faccia male” ai bambini (argomento complesso, che non andremo ad approfondire qui). Ma anche, in modo più aprioristico, ci preoccupiamo se il giocare in sé, nel suo contrapporsi alla realtà in favore di una finzione immersiva, non rischi di negare del tutto la vita “vera”, recidendo il contatto con essa nelle menti più fragili. Questa reinterpretazione moderna del Paese dei Balocchi di Pinocchio, oltre a molti discorsi retorici, ci ha regalato anche una delle prove attoriali più memetiche di Tom Hanks, nel film per la TV del 1982 Mazes and Monsters. Nel film, una campagna di un gioco di ruolo (ricalcato su Dungeons & Dragons) sfugge di mano ai suoi giovani giocatori, e uno di loro (Hanks) finisce per immedesimarsi così tanto nel suo personaggio magico da tentare di volare giù da un ponte.
Mazes and Monsters, come qualsiasi prodotto culturale, non è saltato fuori dal nulla, ma è figlio della sua epoca: la prima edizione di Dungeons & Dragons è stata pubblicata nel 1974 e nel decennio successivo non ha solo conquistato un vasto pubblico e ispirato tematicamente i primi MUD, antenati testuali dei MMORPG — ma si è anche guadagnato il podio tra le opere messe all’indice da varie istituzioni (religiose e laiche) perché avrebbe promosso stregoneria e satanismo e istigato a suicidio e omicidio. Al punto che, nei primi anni Novanta, l’FBI monitorava segretamente alcuni gruppi di giocatori. Li definiva, come si legge nei documenti dell’epoca desecretati in anni recenti, come “individui dall’intelligenza eccezionale,” che “vivono in modo frugale per sostenere le spese del loro hobby” e tendenzialmente “sovrappeso e dall’apparenza poco curata”. L’FBI è arrivata persino a prelevare e torchiare alcuni di questi giocatori, perché convinta che fossero implicati nelle attività dell’Unabomber americano.
Nei primi anni Novanta, l’FBI monitorava segretamente alcuni gruppi di giocatori.
Ora tralasciando per un attimo il panico morale/religioso, potremmo forse individuare un panico più sottile, legato piuttosto a quel “vivere in modo frugale” — cioè non partecipando ai tipi di consumo “previsti” dall’economia —, al piacere e a un termine che il filosofo Miguel Sicart associa, nel libro del 2014 Play Matters, al gioco: carnevalesco. Con questa parola, Sicart fa riferimento alla natura ambigua del giocare, che incarna un equilibrio tra creazione e distruzione nella risata. È un concetto simile alla catarsi data dalla commedia dopo la tragedia in antica Grecia, ma non solo: coincide anche con il potere dirompente della risata in faccia all’autorità, il prendersi gioco di qualcuno o qualcosaproprio della satira. Quel potere sovversivo che uccide la paura e non fa più “credere in Dio” — per usare le parole di frate Jorge da Burgos ne Il nome della rosa — o nel sistema vigente e che quindi va temuto, monitorato, magari persino represso.
Ora, è chiaro che l’industria di giocattoli, giochi e videogiochi è ben lontana da essere un movimento di resistenza al consumismo e alle logiche del capitalismo, anzi: il settore videoludico in particolare genera oggi profitti superiori a grossa parte del resto dell’intrattenimento messo insieme — per una serie di ragioni che vanno dalla capacità del capitalismo di inglobare fenomeni controculturali e sociali di ogni tipo, alle campagne di marketing iniziate proprio per salvare il settore dalla sua più grande crisi economica negli anni Ottanta (i cui effetti sono ancora visibili oggi), passando per tutto ciò che ha comportato l’evoluzione tecnologica e di internet. Ma quei primi giocatori di Dungeons & Dragons erano spaventosi per le autorità non in quanto adoratori di Satana, ma perché davano priorità nella loro vita a un’attività che è, per definizione, improduttiva e autotelica; davano priorità al piacere anziché al dovere. In altre parole, nel loro giocare, non era il contatto con la realtà a essere reciso (come succede per il personaggio di Hanks in Mazes and Monsters); piuttosto, il contratto con essa, in favore della costruzione di nuove realtà immaginate e separate dall’obbligo. Ma immaginare nuove realtà diventa particolarmente interessante — e ben più dirompente — se, anziché definire il gioco come un’attività separata dalla vita ordinaria e dai suoi obblighi, lo definiamo come un’attitudine. E dunque una pratica di messa in discussione del piano di realtà condiviso.
Il gioco: attività separata o attitudine al mondo?
Il primo testo a dare una definizione di gioco ed esplorare le sue funzioni sociali è il saggio Homo Ludens, scritto dallo storico e linguista olandese Johan Huizinga nel 1938. Huizinga introduce qui un termine diventato poi particolarmente importante per i Game Studies, ovvero il “cerchio magico”: una dimensione temporanea, separata dalla vita ordinaria e regolata da norme proprie e limiti prestabiliti, in cui si manifesta il giocare. Un esempio banale della necessità di quei limiti è nascondino: in una partita a nascondino è fondamentale stabilire dei confini spaziali — quanto sarà grande l’area di gioco — e dei confini di tempo, anche al netto del limite fornito di base dal gioco che è “quando tutti i giocatori sono stati trovati o l’ultimo giocatore libero tocca la parete/albero su cui chi cerca ha contato.” Una partita di nascondino di un’ora è ben diversa da una lunga un paio di giorni.
Huizinga offre anche un altro paio di punti interessanti: il gioco precede la cultura, perché anche gli animali giocano, addomesticati o no; il gioco è un’attività libera e volontaria, priva di interessi materiali e da cui non è possibile trarre profitto. E che è l’elemento del “divertimento” che caratterizza l’essenza del gioco, per quanto resista a ogni analisi. Sulla maggior parte di questi elementi concorderà, vent’anni dopo, anche un altro testo: I giochi e gli uomini del sociologo francese Roger Caillois, che specifica come neanche nel gioco d’azzardo ci sia un profitto effettivamente generato; piuttosto, uno scambio tra le parti di una somma di beni che resta in sé stessa invariata.
Immaginare nuove realtà più dirompente se definiamo il gioco non come un’attività separata dalla vita ordinaria ma come un’attitudine.
Fin qui, però, in buona sostanza, l’aspetto fondamentale del giocare è il suo essere limitato a momenti specifici, che sono contrapposti alla realtà — fatta di lavoro, studio e pranzi dalla nonna. Nel 1978, il filosofo Bernard Suits scrive un altro testo sul gioco: The Grasshopper: Games, Life and Utopia (tradotto in italiano solo di recente, da Edizioni Junior, col titolo La cicala e le formiche. Gioco, vita e utopia). Questo libro — oltre a presentarsi come un gioco con le forme della scrittura stessa — fa un passo in una direzione interessante, definendo il gioco non solo come attività di svago e distrazione dagli obblighi della realtà come il lavoro, ma come dimensione ideale dell’essere umano nell’utopia, ovvero dove non esistono più bisogni materiali da soddisfare. In altre parole, il gioco è la massima espressione della libertà creativa umana, non semplicemente una cosa divertente da fare dopo il lavoro. Similmente, nel libro del 1985 The Abolition of Work, l’avvocato e scrittore anarchico Bob Black scrive che, una volta abolito il lavoro — fonte di ogni male — sarà possibile creare “una nuova forma di vita basata sul gioco,” ovvero “un’avventura collettiva nella gioia generalizzata e nell’esuberanza liberamente interdipendente.” L’utopia descritta da Suits non è esattamente dietro l’angolo, ma c’è forse un trucco: spostare la prospettiva e guardare il gioco — persino il suo cerchio magico — in modo diverso; non come una distrazione, né solo come l’obiettivo finale dell’utopia. Piuttosto, come uno strumento concreto e già disponibile con cui gettare i primi semi di una rivoluzione.
Secondo Suits il gioco è la massima espressione della libertà creativa umana.
Sicart, nel già citato libro Play Matters, spiega che il gioco non è affatto opposto alla realtà, ma è piuttosto un “modo di essere nel mondo, come le lingue, i pensieri, la fede, la ragione e il mito.” Il gioco, per Sicart, è appropriativo e dirompente: per quanto possa avvenire secondo limiti, norme concordate e in spazi adibiti (come la cameretta di un bambino), può altrettanto occupare spazi non progettati per il gioco, mutandone il significato temporaneamente e permettendoci di vedere le norme non scritte e i codici invisibili di quello spazio. Cosa succede se giochiamo a nascondino in sei o sette persone al parchetto? Probabilmente nulla di speciale. Cosa succede se invece giochiamo a nascondino in centinaia di persone nella caserma della polizia, in un museo o dentro un negozio di arredamento? Cosa succede se organizziamo un LARP (cioè una sessione di gioco di ruolo dal vivo), non in un bosco ma dentro la metro di Milano? Probabilmente qualcuno cercherà di fermarci.
Qualche anno fa, è girata la notizia di un migliaio di adolescenti che si stavano organizzando su un gruppo Facebook per partecipare a una partita di nascondino dentro un negozio Ikea in Scozia. Un negozio Ikea non è — tecnicamente — progettato per giocare a nascondino, eppure, se mai siete entrati in uno dei suoi colossali punti vendita, vi sarà capitato di pensarci: i suoi spazi, equivalenti a un frattale infinito di ambienti domestici, sarebbero perfetti per giocare a nascondino. Quel gruppo di adolescenti ha deciso di trasformare in realtà questo pensiero, ma la cosa interessante è il risultato: il gioco non è mai avvenuto, perché il piano è stato scoperto anzitempo e sono intervenute le autorità, che hanno impedito l’entrata a qualunque adolescente per il giorno prefissato.
Un innocente gioco d’infanzia è diventato una minaccia, al punto da spingere un colosso industriale a respingere potenziali clienti (e profitti) per un giorno intero. Quei giocatori non hanno solamente rivelato le norme implicite di uno spazio; ma anche il potere sovversivo — ed estremamente sottovalutato — del gioco. Invadere uno spazio e cambiarne il significato temporaneamente, rivelando le sue regole invisibili, è al centro anche di un’altra pratica culturale, ovvero la performance art; e non è un caso che artisti come Joseph Delappe abbiano agito anche dentro a videogiochi, perché questi ultimi, oltre a un prodotto di intrattenimento, sono di fatto anche spazi. Con la performance dead-in-iraq, Delappe ha occupato ostinatamente il gioco FPS America’s Army (prodotto dall’esercito americano) dal 2006 al 2011, copiando e incollando nomi di soldati morti nel conflitto in Iraq nella chat. Di certo lontana dal concetto di divertimento o piacere del gioco, l’opera di Delappe è però esattamente una riappropriazione sovversiva di un ambiente, con lo scopo di ribaltare il significato dominante del gioco di guerra.
Infine, per citazione doverosa, è evidente che le teorie di Bernard Suits facciano eco all’Internazionale Situazionista, movimento filosofico che ha operato tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Settanta, promotore di un discorso radicale sulla relazione tra ambiente e comportamento umano. La differenza più significativa in questo parallelo sta però proprio nel hic et nunc del gioco: per il Situazionismo il gioco non è un’attività fine a se stessa, ma una pratica di resistenza creativa e collettiva al lavoro e al consumo, e di riscoperta e riappropriazione degli spazi urbani. Da attuare ora, non in un’utopia lontana.
Per il Situazionismo il gioco non è un’attività fine a se stessa, ma una pratica di resistenza. Da attuare ora, non in un’utopia lontana.
Potremmo concludere che, se consideriamo il gioco come un’attitudine, o persino una pratica rivoluzionaria che possa mettere in dubbio un sistema economico e sociale iniquo, applicare le sue forme a ogni cosa sia la cosa giusta da fare. Vero, se non ché quello stesso sistema economico ha colto il potenziale “energizzante” del gioco e imparato rapidamente a sfruttarlo a suo vantaggio.
La grande illusione della Gamification
La Gamification è definita come l’uso di elementi di game design in contesti non ludici. La designer e autrice Jane McGonigal spiega nel libro del 2011 Reality is Broken — Why Games Make Us Better and How They Can Change the World, che i giochi ci piacciono perché ci offrono compiti da svolgere che vengono ricompensati, fornendo un senso di “flow” che nella vita quotidiana spesso manca. Per questo, strutturare la vita — e il lavoro in particolare — in modo più “gameful” garantirebbe un senso di soddisfazione maggiore. McGonigal parte da un punto assolutamente valido: anziché risolvere i problemi della realtà, abbiamo inventato strategie — tra cui giochi e videogiochi — di escapismo dal senso di noia, alienazione e ansia che proviamo quotidianamente. Dunque, sostiene l’autrice, dovremmo portare ciò che ci soddisfa nel gioco, fuori da esso e progettare “realtà alternative.”
Il problema è che “gameful” e “playful” non sono la stessa cosa (nonostante la lingua italiana ci tradisca, facendole coincidere con lo stesso termine, ovvero “giocoso”). Se la playfulness di cui parla Sicart e che riecheggia nel Situazionismo e nelle teorie di Suits è un atteggiamento di resistenza e messa in discussione dello spazio (urbano, sociale, culturale) e delle sue regole, la gamefulness è l’appropriazione del senso di divertimento proprio del gioco, allo scopo di mascherare un’attività o contesto non di gioco. Insomma, un po’ una trappola.
Sia chiaro: non tutta la gamification vien per nuocere. Per fare un esempio personale, le speranze che io prenda mai la patente sono sicuramente incrementate dal poter studiare su una app con una buona componente di gamification, che inganni il mio cervello con una patina di “divertimento” e ricompense per il tempo necessario al compimento dell’obiettivo. Ma prendere la patente è un percorso limitato nel tempo (si spera), con uno scopo univoco e definito. Una volta raggiunto, il gioco finisce senza strascichi.
Il problema sta nel momento in cui la gamification è applicata a sfere della vita — come il lavoro, la salute, o le relazioni — che non sono temporanee, ma prolungate, e potenzialmente identitarie. La gamification è spesso introdotta in questi contesti per rispondere in modo superficiale a un senso di insoddisfazione o frustrazione profondo, culturale ed endemico, con elementi che rappresentano una parte assolutamente minima del perché ci piace giocare: punti e trofei.
La playfulness è un atteggiamento di resistenza e messa in discussione dello spazio e delle sue regole. La gamefulness è una trappola.
Come spiega Margaret Robertson su Kotaku, “la gamification garantisce un sacco di altri slogan come Immersione! e Coinvolgimento Emotivo! e Monetizzazione Socializzata! Sarai in grado di capire quando qualcosa è stato gamificato perché avrà punti e trofei. Ed è qui che sta il problema,” perché punti e trofei non sono il nucleo dell’esperienza di gioco, legata piuttosto a ricchi stimoli cognitivi, emotivi e sociali. Ciò che vediamo oggi con la maggior parte delle esperienze gamificate è piuttosto una “puntificazione”. La “puntificazione” funziona bene per certe cose, come le promozioni al supermercato. Molto peggio se lo scopo è incentivare la produttività in un ambiente lavorativo, dove la ricompensa intrinseca (ciò che faccio mi gratifica), viene sostituita con una ricompensa estrinseca, scollegata e dunque rapidamente meno motivante. Inoltre, come spiega la designer Kathy Sierra in un’intervista con Wired, la gamification introdotta in un call center di servizio clienti potrà incentivare fattori quantitativi come la rapidità della risoluzione di un problema, o il numero di chiamate effettuate in un certo tempo. Non può incentivare fattori qualitativi come la cura verso il cliente.
La gamification, in molti ambiti, diventa insomma poco più di una carta regalo per impacchettare gli stessi problemi, soprattutto se posta come alternativa al sistema universale di riconoscimenti e ricompense spendibili che già esiste, per dirla con le parole dell’autore Greg Costikyan, e che si chiama denaro. E studi su studi dimostrano che un lavoratore è più produttivo non quando riceve una stellina dorata, ma quando il suo lavoro è ricompensato adeguatamente e l’equilibrio tra lavoro e vita privata è rispettato. A questo punto, resta da chiedersi: come evitare la gamefulness in favore della playfulness, e come rivendicare una dimensione di gioco che sia effettivamente rivoluzionaria e non solo un’illusione di gratificazione?
Giocare alla fine del mondo
Se torniamo all’immagine iniziale di questo articolo, al bambino che salta sul castello di sabbia e lo distrugge, mentre una tempesta monta all’orizzonte, potremmo liquidare il suo gesto come un esempio di cattivo comportamento: il castello è il gioco di un altro bambino e lui non sta rispettando quel consenso fondamentale all’ottenimento della “piacevolezza” del giocare teorizzato da Hughes nel 1983. Eppure, quel castello era incustodito: nell’immagine non è più un gioco altrui, ma quasi un simbolo puro — l’incarnazione di un sistema dato. Allora, la dirompenza del bambino si fa a sua volta simbolica: rappresenta la messa in discussione, carnevalesca, ilare e distruttiva, del sistema dato.
Affinché il giocare sia un modo di essere nel mondo, una lente per indagarlo, deve essere una pratica costante, non una carta regalo che promette di risolvere crisi umane e culturali come una specie di panacea colorata. Deve domandarsi, per ogni sistema dato, quali sono le regole che non vediamo, cos’è proibito e per quali motivi. Ci saranno sistemi in cui le regole ci appariranno sensate — non giochiamo coi fornelli perché ci bruciamo — altri, ben più complessi (e meno legati alle verità sacrosante della fisica naturale), di cui potremo rivelare le regole arbitrarie e ingiuste e dunque smontarle.
Affinché il giocare sia un modo di essere nel mondo, una lente per indagarlo, deve essere una pratica costante.
Ci troviamo a vivere in un momento storico che è spesso paragonato all’orlo della fine del mondo, o apocalisse. Condivido almeno in parte l’idea che usare questa parola finisca per essere un deterrente a qualsiasi azione necessaria per risolvere i problemi in cui navighiamo — la crisi climatica, i conflitti mondiali, la discriminazione, l’inequità economica e via dicendo —, perché porta con sé un senso di inevitabilità e dunque di inutilità dell’agire. Ma qui voglio rivendicarne un senso diverso, sulla base della sua etimologia. Apocalisse, in greco antico, significa infatti “rivelazione.”
Voglio chiudere con un paio di esempi pratici del giocare come attitudine beneficamente distruttiva. Durante la prima campagna elettorale di Donald Trump, un gruppo internazionale estremamente esteso di perlopiù adolescenti fan della musica K-pop si è organizzato per comprare in massa i biglietti di alcuni suoi discorsi pubblici. L’obiettivo non era presentarsi agli eventi, ma fare in modo che — per chi era effettivamente interessato ad andare — non ci fosse più posto e l’evento risultasse dunque molto meno frequentato del previsto. Il sistema dato è un insieme di eventi di propaganda demagogica, il gioco sovversivo è sfruttare le regole di acquisto per svuotare anziché riempire.
Lo stesso gruppo — capitanato dalle Army, la fanbase della band coreana BTS — durante le proteste del movimento Black Lives Matter in seguito all’omicidio di George Floyd per mano della polizia nel 2020, si è organizzato per invadere gli hashtag più usati dalla polizia e da esponenti della destra estrema su Twitter e Instagram, nonché una app messa a disposizione delle persone a Dallas per inviare alla polizia video identificativi di chi partecipa alle proteste. Ha inondato ognuna di queste piattaforme con immagini, video amatoriali e GIF di concerti K-pop, al punto da renderle inutilizzabili per lo scopo prefissato. Una specie di attacco DDoS, infinitamente più giocoso della media.
Ancora, nel 2021, Un gruppo di utenti di Reddit nel subreddit r/WallStreetBets, si è accorto che le azioni di GameStop— una catena di vendita di videogiochi in copia fisica — erano sottostimate e una serie di sfondi speculativi titanici stava scommettendo sul fallimento della catena, facendo “vendita allo scoperto.” Acquistando in massa le azioni di GME (il gruppo di GameStop), quegli utenti di Reddit hanno fatto impennare il valore delle azioni e forzato uno “short squeeze”, mettendo in ginocchio i colossi della finanza, costretti a ripagare azioni “prese in prestito” a prezzi molto più alti del previsto. Il gioco è durato relativamente poco, e il sistema finanziario è intervenuto per impedire che continuasse e mandasse in bancarotta totale questi fondi. Eppure, un risultato è stato ottenuto: le regole invisibili di un sistema sono state smascherate e ribaltate, tramite un’azione dirompente (e profondamente memetica).
Nel 2024, ha preso piede su TikTok un movimento chiamato “pay each other’s debt”, in cui persone comuni si spingono i contenuti video a vicenda a forza di cuori e commenti, affinché il maggior numero possibile di loro diventi virale ed entri nel programma creator di TikTok (che permette di monetizzare i propri contenuti). Il sistema dato (il programma creator) nasce per il mondo influencer, in grossa parte strumento e sintomo del capitalismo di consumo. Le sue regole sono state però “hackerate” dal movimento, perché i suoi membri riuscissero a ripagare debiti medici e scolastici debilitanti. Non si tratta, ovviamente, di una soluzione al problema della sanità e dell’istruzione private e costosissime, ma è rivelatorio: mostra l’estensione del problema. E, rispetto al più diretto uso di piattaforme di crowdfunding per lo stesso scopo, si riappropria in parte delle risorse disponibili.
Nessuna di queste istanze è una bacchetta magica che risolve istantamente condizioni di iniquità profonde, ma sono esempi di una pratica che, se operata in modo collettivo e su scale sempre maggiori, diventa resistenza. Come dice la filosofa, youtuber e attrice Abigail Thorne, se apocalisse significa rivelazione, ciò che dobbiamo chiederci, rispetto al mondo che sta finendo, è cosa ci mancherà e di cosa, invece, possiamo fare già a meno. Quali castelli di sabbia, fatti di regole arbitrarie, possiamo già distruggere, giocando.