I n un passo tra i più divertenti della sua autobiografia, Winston Churchill racconta il suo primo contatto, a sette anni, con il latino. Il maestro inizia la lezione consegnandogli un foglio con la prima declinazione da imparare a memoria, destando confusione nel giovane:
“Posso sapere cosa vuol dire?”. “Vuol dire quello che dice. Mensa, la tavola”, ripeté. “E come mai mensa vuol dire anche, O tavola?”. “O tavola è il caso vocativo. Questa espressione lei la può usare per rivolgersi a una tavola, per invocare una tavola”. “Ma è una cosa che non faccio mai” mi lasciai sfuggire in preda a un’onesta sorpresa. “Se fa l’impertinente sarà punito, e punito molto severamente, le posso assicurare” fu la sua risposta finale.
L’aneddoto dell’ex primo ministro britannico rappresenta un’istantanea abbastanza fedele, per quanto colorita ed estremizzata, di un approccio mnemonico e coercitivo dell’insegnamento delle lingue classiche che vige nelle scuole italiane, quasi nelle stesse identiche modalità, dalla riforma Gentile del 1923 ad oggi. Un’impostazione didattica che non è certo di matrice esclusivamente neoidealista, ma ha radici più profonde che risalgono almeno all’inizio del XVIII secolo, periodo in cui il declino del latino parlato porta alla costituzione di un metodo traduttivo affine a quello del greco, incentrato sugli aspetti morfosintattici della lingua. In questo processo le competenze strettamente linguistico-comunicative vengono meno e le lingue classiche diventano sempre più un sapere formale ed elitario, le cui motivazioni d’apprendimento si riducono a un modello tripartito sopravvissuto fino ai giorni nostri. Lo studio delle lingue classiche aiuta a: 1) migliorare la padronanza della lingua madre, 2) sviluppare l’intelligenza logico-matematica grazie alla ginnastica mentale della versione, con annessi benefici anche per le materie scientifiche, 3) formare l’uomo e il cittadino tramite i numerosi “exempla” della cultura antica.
Oggi, in un contesto socio-scolastico italiano allarmante – analizzato dettagliatamente da Christian Raimo e Simone Giusti sulle pagine di minima&moralia – dove dati di dispersione scolastica tra i più alti d’Europa (oscillano tra il 15 e il 26%) si accompagnano all’imponente fenomeno dell’analfabetismo di ritorno (solo il 46% degli italiani legge almeno un libro all’anno), il cospicuo e crescente calo d’iscrizioni ai licei classici ha rinfocolato il dibattito sull’utilità dello studio del latino e del greco. Dalla difesa accorata dell’impianto classicistico come ultimo baluardo di una scuola difficile e rigorosa, fatta propria soprattutto da Il Sole 24 Ore, alle posizioni più aperte al rinnovamento metodologico di Luca Serianni, Luigi Berlinguer e Maurizio Bettini, traspare l’obiettivo comune di preservare il patrimonio classico dall’oblio di un mondo sempre più orientato a una concezione utilitaristica dell’istruzione. Ma come farlo al meglio?
Abbiamo deciso di discuterne anche noi con due professionisti nel settore dell’insegnamento e della ricerca delle lingue classiche: Emanuele Lelli, professore di latino e greco al liceo Torquato Tasso di Roma e curatore di opere per Bompiani, e Leopoldo Gamberale, docente di letteratura latina all’Università La Sapienza di Roma, ora in pensione.
Emanuele Lelli: Questo è un problema generale di natura culturale e didattica. La cultura classica non rappresenta più un polo di attrazione per le nuove generazioni perché le nuove tecnologie e i nuovi ambiti del sapere la rendono meno affascinante, e ci si chiede quale sia il fine di uno studio così massiccio di queste materie. Lo studio della cultura antica andrebbe forse definito a livello europeo, perché si tratta delle radici culturali comuni a tutta l’Europa, ma visto che un sentimento di appartenenza sovrannazionale, europea, non è radicato oggi in nessun paese del continente, è difficile far passare questo messaggio nel mondo della scuola.
L’aspetto logico di queste materie, ovvero l’aspetto tecnico, strutturale, morfosintattico delle lingue antiche, che potenzia proprio la capacità logica, è l’aspetto più difficile da comunicare ai ragazzi a scuola. In questo non siamo facilitati dal contesto. La diffusione capillare del web ha reso praticamente impossibile l’azione fortemente formativa dei compiti a casa. Qualsiasi testo è già tradotto, qualsiasi esercizio è già svolto. L’uso delle nuove tecnologie è diventato oramai una sorta di centro di formazione iperconnesso e permanente che ha reso secondarie quelle che una volta erano le principali fonti di formazione dei giovani: la scuola e la famiglia. Questo avviene perché la scuola non si rinnova, è rimasta ancorata alla lezione frontale: con il professore, il libro e lo studente alla lavagna col gessetto, quando le informazioni arrivano ai giovani tramite immagini, suoni, filmati. La didattica frontale e tradizionale è anacronistica, gli studenti si distraggono, sanno studiare sempre meno con i libri, e quando tornano a casa non sanno più riprodurre quella modalità comunicativa. Questo riguarda tutte le materie, ma principalmente il latino e il greco perché i docenti di lingua classica sono meno preparati all’uso delle nuove tecnologie e sono più refrattari al cambiamento.
Dovremmo arrivare a vedere la tecnologia non come un nemico ma come uno strumento, e finalizzare una parte della ricerca alla creazione di applicazioni per un uso individuale, in un sistema chiuso e controllato, con le quali fare didattica a scuola. La lavagna elettronica non basta, riproduce le stesse modalità d’uso della lavagna tradizionale: la vera sfida è tenere tutti gli studenti attivi e partecipativi durante la lezione. Per quanto un professore possa essere appassionante, per quanto il ragazzo possa essere motivato, un adolescente di oggi difficilmente presterà più attenzione a un foglio di carta spiegato da un docente piuttosto che a un’esperienza conoscitiva immersiva e totalizzante. I costi sarebbero sicuramente accessibili, già oggi un libro digitale costa meno della metà di un libro di carta. Sarebbe un’operazione oltretutto più democratica e meno classista.
Leopoldo Gamberale: Sono convinto che per quanto riguarda l’insegnamento del latino e del greco a scuola non possiamo prescindere dall’aspetto linguistico, perché come ci hanno insegnato i grandi linguisti del nostro tempo, ultimo dei quali Tullio de Mauro, la lingua è il principale strumento culturale, il marker dell’identità di una civiltà. Se prescindiamo dalla lingua il popolo non parla. Tanti anni fa ho assistito a un dibattito tra il grande storico antico Arnaldo Momigliano e un illustre etruscologo che a conclusione di un seminario sosteneva con fervore l’importanza degli etruschi all’interno del mondo romano. La risposta di Momigliano fu ironicamente spiazzante: “D’accordo collega, tu avrai anche ragione, ma il problema è che gli etruschi non parlano”. I latini e i greci per fortuna sì.
Forse quindi dovremmo ripartire da premesse diverse, il nostro grammaticalismo rischia di essere un metodo vecchio, ma spesso si tende a sostituirlo con alternative che non funzionano, come il metodo naturale, il cosiddetto metodo Orberg, ovvero lo studio del latino e del greco come lingue vive. Ma si tratta di un falso, perché il contesto comunicativo di queste lingue purtroppo è inesistente. Quasi tutti i giorni senza neanche rendercene conto giriamo in macchina intorno al Colosseo a Roma. Il Colosseo fa parte non di un parco archeologico ma di un paesaggio urbano contemporaneo, quindi della realtà urbana e urbanistica di Roma del 2017. Possiamo dire lo stesso della lingua latina? In qualche misura sì. Roma è piena di iscrizioni latine, anche moderne, e sempre Tullio de Mauro faceva riflettere che più del 50% del lessico della principale lingua veicolare contemporanea, l’inglese, è di origine latina.
Allora, invece di ritornare a studiare latino sin dalle scuole medie, come alcuni propongono, andrebbero svolte in quel tipo di scuola serie riflessioni sull’italiano e la sua struttura linguistica. Successivamente al biennio superiore bisognerebbe fare una riflessione larga e comparata tra lingue classiche e lingue moderne. A maggior ragione adesso che la diversità culturale è sempre più presente nelle scuole. Ci sono ragazzi italofoni di prima generazione, asiatici o africani, che probabilmente sanno più del latino che della loro lingua d’origine. È inutile allora fare un discorso puramente grammaticalistico affine all’aritmetica, i criteri devono essere diversi, ma bisogna partire da un approccio linguistico-grammaticale, sicuramento alleggerito per quanto riguarda l’impegno orario, con cui si cerchi di capire che cosa ha portato il latino nelle altre lingue con cui è venuto a contatto. Per poi approfondire, sicuramente nel triennio classico e forse anche in quello scientifico, l’aspetto letterario.
Nel suo ultimo libro, A cosa servono i Greci e i Romani?, il filologo Maurizio Bettini, individua nella prova scritta dell’esame di maturità classica, la versione, il principale ostacolo al superamento degli aspetti più tradizionali e formalistici di queste materie. Ha ancora senso affrontare la pratica traduttiva in queste modalità e così presto a scuola?
Leopoldo Gamberale: La pratica traduttiva è forse uno dei prodotti più originali della cultura latina. Nessun’altra civiltà complessa ne aveva fatto un’operazione culturale consapevole, insegnandoci a riflettere su un procedimento che implica appropriarsi dei contenuti e delle forme di un’altra cultura attraverso meccanismi di lingua. Una serie di operazioni che ancora oggi usiamo nelle stesse identiche modalità.
La prima forma di contatto e d’interpretazione che una persona ha con una lingua, se questa non è una lingua di comunicazione, è la traduzione. Se uno non pensa in quella lingua la deve per forza tradurre. Anche io dopo tanti anni di esperienza quando ho di fronte un testo in latino o in greco lo devo tradurre. Nessuna comprensione prescinde dalla traduzione. Al contrario, invece, almeno qui in Italia abbiamo la cattiva abitudine scolastica di impostare anche lo studio delle lingue straniere moderne (queste sì lingue di comunicazione) in un modo analogo a quello delle lingue classiche, tant’è che la competenza linguistica che si acquisisce alla fine dei 13 anni di studio di lingua straniera è pessima, uno sforzo non proporzionale ai risultati.
È fondamentale iniziare a tradurre dalla scuola perché l’assenza della pratica traduttiva crea danni permanenti irreversibili. Nelle prove orali di dottorato avevamo l’abitudine di dare ai candidati piccoli brani di autori noti, non cose esoteriche, per analizzarli. Abbiamo dovuto smettere, perché la lettura dei testi in lingua si fa sempre meno, e quella è un’attività che bisogna cominciare a fare il prima possibile se si vuole affrontare lo studio delle materie classiche all’università. Una grande fetta di responsabilità ce l’hanno sicuramente le grandi casi editrici, che da anni impongono a generazioni di studenti forme antologiche nelle quali l’interpretazione è rappresentata per la quasi totalità dalla traduzione già svolta, al posto del commento, favorendo una preparazione mnemonica da parte dei discenti, su una traduzione non fatta da loro.
Si parla molto ultimamente di cittadinanza, e non posso fare a meno di pensare a un bellissimo passo di Cicerone: l’inizio del secondo libro del De legibus, dove Cicerone porta l’amico Attico, un greco, a visitare la sua zona natale, l’attuale Isola del Liri. Qui Cicerone spiega all’amico che esistono due tipologie di cittadinanza, una più grande e una più specifica. Quella specifica è quella del luogo natale, quella più grande è la cittadinanza romana che comprende sia la sabinità di Catone, sia l’irpinità di Cicerone, sia la grecità di Attico. Entrambe sono cittadinanza. È un discorso di un’attualità straordinaria, ed è un discorso fatto in latino, bisogna conoscere questa lingua e saperla tradurre per leggerlo e comprenderlo.
Emanuele Lelli: L’unico scopo della traduzione, e direi del ginnasio o del biennio, così come è stato concepito negli anni Trenta, è esercitare la capacità mnemonica e logico-deduttiva nell’applicazione di una regola. Basta. È un procedimento perfettamente identico a quello della matematica, si studia latino e greco solo perché sono legate alla nostra tradizione culturale, ma altrimenti, come disse una volta Umberto Eco, avremmo potuto anche fare la lingua swahili o il sanscrito. Lo svilimento dell’insegnamento del latino e del greco al liceo sta proprio nel fatto che spesso i docenti intendono questo insegnamento, circa 630 ore in cinque anni, come una sorta di lunghissima e faticosa preparazione a quelle 4 ore di quel giorno: la seconda prova della maturità.
Dobbiamo abituarci – e rassegnarci – a pensare a uno studio delle lingue antiche non per forza fondato sulle competenze grammaticali. Ritorniamo sempre alla questione dello sviluppo tecnologico: il tempo è centrale, come la macchina ha soppiantato il carretto perché faceva guadagnare tempo, la stessa cosa fa il correttore automatico o i traduttori simultanei quando scriviamo, questa è la legge del progresso. È ovvio che sarebbe più bello e formativo non fare i conti con queste cose, come sarebbe più bello fare un viaggio su un calesse che su un’areo da cui non si ha modo di vedere nulla di ciò che ci sta intorno.
La traduzione è l’esercizio più importante e formativo ma è anche il più difficile, quello che corre più lontano dal modus operandi delle tecnologie. Attualmente adotto in una classe ginnasiale il metodo naturale per l’insegnamento del greco, puntando all’apprendimento dei lessemi e del vocabolario, per avere una capacità di comprensione globale del testo, non di traduzione precisa e letterale, similmente a quanto si fa con le lingue moderne. Questo è chiaramente più difficile attuarlo con il greco che con il latino, visto che questa lingua ha un alfabeto diverso dal nostro. Anche se lo studente dopo due anni non sa tradurre parola per parola, rispettando tutte le strutture sintattiche, ha tuttavia la capacità di comprendere. Questo alla fine non è un deficit perché quantitativamente si punta a raggiungere una competenza superiore.
Dopo due anni di metodo tradizionale in due ore si traducono parola per parola dieci righe, col metodo naturale in due ore si comprendono quattro pagine. Le competenze grammaticali comunque si sviluppano e consolidano, ma la lezione si fa coinvolgendo i ragazzi anche con metodologie di problem solving più aggiornate, come attività di gruppo, visto che è necessario sapersi relazionare al giorno d’oggi dove difficilmente si lavora più in maniera individuale. Gli studenti affrontano così brani in lingua sin dall’inizio, con un livello di difficoltà testuale e grammaticale crescente, senza seguire l’ordine tradizionale degli elementi morfosintattici. Il primo verbo che si affronta in greco con il metodo naturale è l’aoristo, perché è il verbo più impiegato in greco, il futuro per esempio si fa alla fine perché la sua frequenza è bassissima. Stare quattro mesi sul perfetto come si fa nell’insegnamento tradizionale è inutile perché il perfetto ha un’occorrenza quasi ridicola. In questo modo i ragazzi non hanno timore del testo, non si spaventano, sono abituati a leggere.
Leopoldo Gamberale: Le università dovrebbero formare i nuovi docenti. Da almeno quarant’anni, gli anni dell’università di massa, è chiaro che il sistema universitario non può formare solo ricercatori, siamo troppi. Si dovrebbe far capire che quello del docente è un bel mestiere, ma spesso tra gli studenti c’è una repulsione verso l’insegnamento. Dovremmo far capire che invece insegnare a scuola è una prospettiva non degradante, nonostante lo status sociale del docente sia stato fortemente ridimensionato negli ultimi anni.
L’università non dovrebbe essere una scuola di nozioni, ma una scuola di formazione metodologica del personale didattico, e questo dovrebbe essere fatto all’interno del percorso universitario, non alla fine con i vari TFA e le altre forme di abilitazione. Si è pensato che l’aspetto docimologico, o pedagogistico, fosse completamente separato dal resto, ma non è così. È assodato che il contatto col discente e la capacità di un approccio comune siano necessari, e si imparano anche insegnando. Ma l’università in questo senso dovrebbe avere un’attenzione particolare per le facoltà con sbocco professionale all’insegnamento, come filologia classica, dando gli strumenti opportuni ai propri studenti. Questo oggi non avviene e in realtà non è mai avvenuto.
Quando io mi sono laureato i corsi di laurea duravano quattro anni. Poi avevamo la prova di abilitazione e di concorso. Anche lì nessuno ti preparava a insegnare, eri buttato nella mischia e imparavi sul campo. Oggi si studia per cinque anni, e se si aggiungono gli anni di dottorato, post-doc e abilitazioni arriviamo almeno a nove anni di studio prima di cominciare a lavorare. È ovvio che forse i quattro anni di prima erano troppo pochi, ma più del doppio oggi è altrettanto un’esagerazione. Come è altrettanto ovvio che un giovane insegnante di 23 anni dal punto di vista dell’entusiasmo e della creatività è ben diverso da un trentenne. Tutto questo comporta poi precariato giovanile, con una conseguente mancanza di contributi previdenziali. Finché l’università e le istituzioni che le stanno a monte non si rendono conto che ci vuole una sinergia complessiva non andremo molto lontani.
Pochi mesi fa Claudio Giunta in suo articolo su la Domenica de Il Sole 24 ore parlava della fine del liceo classico – e quindi del latino e del greco – come metonimia della classe dirigente: questa scuola non è più il veicolo privilegiato per la selezione delle élite. Questo vuol dire che possiamo pensare all’insegnamento delle materie classiche come offerta didattica non più esclusiva del sistema liceale?
Leopoldo Gamberale: Non credo che in Italia attualmente ci sia più una classe dirigente. Una buona scuola è essenziale. Mediamente oggi il liceo classico e lo scientifico sono in Italia buone scuole. Il professionale mediamente non lo è, ma questo perché l’abbiamo svalutato, considerandolo in maniera classista una scuola di serie C. L’artigianato è stata una delle eccellenze italiane, e a livello elevato è alla base della grande arte italiana. La bottega di Michelangelo non sapeva il latino, ma padroneggiava il proprio mestiere. E la cultura gastronomica italiana non è certo meno valida del patrimonio delle lingue classiche. Questo per dire che è essenziale migliorare questo tipo di scuole, senza introdurre le materie classiche – anche alleggerite senza la loro parte linguistica – nei loro programmi. È giusto però mettere queste materie, insieme a quelle scientifiche, al centro di un altro tipo di indirizzo superiore, quello liceale, di pari dignità e livello a quello professionale, ma che sia incentrato sullo sviluppo di capacità critiche e riflessive. Per far questo non dobbiamo rinunciare al latino e al greco, entrambe proprie del nostro patrimonio culturale: la Magna Grecia era il nostro Sud Italia, qui adesso ci sono forse le città greche meglio conservate, più che nella stessa Grecia. Ridiamo motivazioni facendo capire che questo patrimonio è proprio del nostro DNA. Distruggerlo sarebbe come distruggere il Colosseo.
Emanuele Lelli: Solo in Italia si studiano le materie classiche in questo modo perché siamo tra i pochissimi paesi con una storia territoriale e culturale – e quindi anche letteraria – antichissima. Paradossalmente questa ricchezza è una condanna perché in ogni scuola si dedica quasi la metà delle ore al nostro patrimonio storico-umanistico che nessun altro ha. Ne risente quindi lo studio delle scienze e dell’informatica, dove stiamo indietro rispetto agli altri paesi. L’opzionalità delle materie classiche, come avviene nel resto d’Europa, non credo sia percorribile nell’immediato futuro, perché andrebbe a scontrarsi con uno dei tabù del nostro sistema scolastico che è “la scuola solo la mattina”. Come è difficilmente percorribile, per mancanza effettiva di tempo, l’introduzione di ore di cultura classica in tutti gli indirizzi superiori. Ma il greco e latino con una parte morfosintattica più alleggerita possono rappresentare sicuramente ancora l’ossatura di uno degli indirizzi scolastici.
Cinquant’anni fa poteva servire fare un liceo classico portentoso perché si diventata professore universitario a 28 anni. Tutto era anticipato, era un full immersion. Oggi forse si diventa incaricati a 40 anni, che senso ha sfornare così presto dei geni in latino e in greco se poi bisogna aspettare così tanto? In questo modo si crea un’aspettativa che viene frustrata, perché ancora oggi gli studenti più brillanti che fanno poi filologia classica all’università, si laureano a 23 anni, con una preparazione eccellente, e fanno 15 anni di precariato. La piena competenza tecnico grammaticale dovrebbe essere raggiunta a fine ciclo universitario, non a 19 anni, perché non serve spendere quella competenza oggi a quell’età. Se continuiamo a persistere con un insegnamento tradizionalista di queste materie, siamo destinati – didatticamente – a sparire. Se l’impulso non verrà dai docenti, verrà prima o poi dalle famiglie che toglieranno i loro figli da questi indirizzi. Cosa che già sta succedendo.