Cinema Nomade
Queerness e post-colonialità nel cinema di Claire Denis.
Queerness e post-colonialità nel cinema di Claire Denis.
F ino alla metà del secolo scorso, i film francesi che riguardavano l’epoca coloniale, realizzati perlopiù da registi uomini, si concentrano sulla stesura di una trama centrale binaria – da una parte il colono e dall’altra il colonizzato, entrambi personaggi monolitici e realizzati a partire da cliché – e definiti da uno sviluppo cinematografico e narrativo tipico dei film thriller, romantici ed “esotici”. Durante gli anni Sessanta, invece, sotto l’impulso dei nascenti movimenti rivoluzionari e della Nouvelle Vague, il cinema cominciava a presentare una chiara posizione anti-colonialista: la resistenza africana così come le scorrette e taciute pratiche militari francesi furono rivelate sullo schermo, le contraddizioni e verità silenziate dell’esperienza coloniale spogliate dell’alone di mistero e fascinazione da cui veniva avvolta. Il cinema andava gradualmente a smantellare sia il “glorioso” passato coloniale che il punto di vista utilizzato da parte dei colonizzatori che ne raccontavano i fasti, riappropriandosi di una vera e propria direzione politica, anche attraverso il documentario e il reportage basati sui filmati di guerra.
Con Chocolat Denis integrava i tumulti che si susseguirono dopo la fine del colonialismo in una narrazione personale e intima della propria vita nelle colonie.
Negli anni Ottanta, il cinema francese si avvicinava al colonialismo in maniera differente. In Le colonial féminin: le registe interrogano il cinema francese, Catherine Portuges analizza la quantità di film a tematica postcoloniale diretti da donne in quegli anni. Agnès Varda, ad esempio, è stata una precorritrice in quanto regista indipendente della Nouvelle Vague francese, aprendo la strada a una generazione di giovani cineaste. Claire Denis ha iniziato con Chocolat nel 1988, seguita da Brigitte Rouan con Outremer (1990) e Marie-France Pisier con Le Bal du Gouverneur (1990). Con Chocolat, ad esempio, Denis integrava i tumulti che si susseguirono dopo la fine del colonialismo in una narrazione personale e intima della propria vita nelle colonie. Ciò nonostante, come ha più volte dichiarato la stessa regista, l’idea iniziale di Chocolat non era del tutto legata alla sua esperienza personale; piuttosto, a un insieme di idee preconcette sugli insediamenti coloniali, oltre che di sensazioni e memorie sparse.
L’evocazione di fatti e luoghi trascritti nella propria memoria, la predilezione per alcuni movimenti di macchina, tra cui il carrello, che vanno a sottolineare l’immensità dello spazio in cui si muovono i personaggi, riuscendo a farli emergere in primo piano gradualmente, con una orizzontalità tesa a marcarne una coesistenza in quello stesso spazio, ecco, questi sono solo alcuni degli elementi che contraddistinguono la messinscena di Claire Denis. Un discorso estetico e narrativo portato avanti da Chocolat fino ai suoi ultimi film, con narrazioni che incedono per accumulo, costanti sovraesposizioni e macro-sequenze, che sembrano non avere mai una reale chiusa.
I movimenti di macchina sottolineano l’immensità in cui si muovono i personaggi marcadone la coesistenza nello spazio.
In Chocolat, la macchina da presa si muove in un ambiente dove viene cancellato ogni confine ed è proprio questa zona d’ombra che Denis intende esplorare. France (Mireille Périer) – alter ego della cineasta – e la sua famiglia si trovano in uno spazio e tempo sospesi, nel Camerun sul finire dell’impero coloniale francese. Lì la bambina vive con suo padre, Marc Dalens (François Cluzet) – figura paterna quasi del tutto assente – sua madre Aimée (Giulia Boschi) e il loro “domestico”, Protée (Isaac de Bankolé).
La sequenza d’apertura è un campo lungo che coglie un’ampia sezione del paesaggio e le sagome di un uomo e di un bambino che si dimenano tra la sabbia e l’acqua, probabilmente afro-discendenti, sono troppo lontane sia per essere identificate che per essere raccontate, mentre la colonna sonora è dominata dal rumore confortevole delle onde. Tipico dello stile di Denis e della sua storica direttrice della fotografia Agnès Godard, a un certo punto, le figure umane che escono dall’inquadratura sembrano richiamare l’attenzione dello spettatore e della spettatrice sull’esistenza di un fuori campo. Un fuori campo che s’incarna nella presenza di una piccola figura di donna adagiata sulla sabbia, France. E da lì comincia il racconto vero e proprio.
In quel mondo, un mondo sul punto di scomparire, determinate consuetudini del mondo contemporaneo venivano da un lato reinterpretate e dall’altro eluse completamente dalla vita quotidiana dei personaggi. Denis è abilissima a mettere in luce le contraddizioni che si annidano in un simile contesto socio-culturale. Ad esempio, proprio nel momento in cui sembra possa crearsi una qualche forma di “sintonia”, che vada al di là del rapporto servo-padrone tra il soggetto (Aimée, Marc, France) e l’oggetto (Protée/Isaac de Bankolé) ecco che lì emerge la tendenza, atavica e radicata all’interno dell’individuo, perfino in una bambina, di chi ha imposto per secoli e lustri uno stile di vita e uno sguardo sul mondo diversi da quelli del paese colonizzato. La scena in cui France sta consumando una zuppa preparatagli da Protée dimostra perfettamente l’ambiguità di un rapporto di questo tipo: in un gesto che racconta qualcosa di intimo, ma anche di autoritario, a un certo punto France intima, o meglio, obbliga, Protée ad assaggiare quel pasto per verificare quanto fosse speziato.
L’evocazione di fatti e luoghi trascritti nella propria memoria contraddistingue la messinscena di Claire Denis.
Non c’è possibilità per chi guarda di capire se l’uomo effettivamente avesse avuto voglia o meno di assaggiare quella zuppa, dal momento che, per il più delle volte, Protée resta silente; il suo, tuttavia, non è un silenzio di chi sta semplicemente a eseguire degli ordini, è un silenzio emblematico delle pratiche di asservimento cui è sottoposto. Da una sequenza di pochi minuti, caratterizzata dalla quasi totale assenza di battute e dialoghi, e quindi a partire da una precisa e studiata costruzione dell’immagine, Denis ci dice quanto ogni epoca e ogni cultura abbiano e portino avanti un’attitudine dello sguardo preordinata, convenzionata e determinata, vivendo, cioè, in quello che Martin Jay chiama “regime scopico”. Concetto introdotto dal teorico cinematografico Christian Metz, e ripreso da Jay, il regime scopico definisce le diverse dinamiche dello sguardo (nel caso di Jay, quello legato all’opera d’arte nei vari secoli) a contatto con momenti culturali diversi. Nel 1988 – anno in cui è uscito anche Chocolat – Martin Jay parlava di regimi scopici della modernità: quando c’è una svolta visuale, allora il regime scopico entra in fibrillazione, cioè si risemantizza, ridefinendo i nostri protocolli di visione.
Le domande che bisogna porsi, dunque, sono due. Come eravamo soliti guardare, in un momento di rimessa in discussione di categorie estetiche, narrative e linguistiche che caratterizzano il post-moderno, una sequenza come quella descritta poc’anzi e, in generale, un film di rottura come Chocolat? E com’è cambiata, nel corso degli anni, la modalità di fruizione di immagini e testi elusivi – nel senso di un qualcosa che sfugge a una caratterizzazione narrativa ed estetica binaria – come quelli di Denis, in questo caso?
Le figure umane che escono dall’inquadratura sembrano richiamare l’attenzione dello spettatore e della spettatrice sull’esistenza di un fuori campo.
“Il paesaggio umano portato sullo schermo” scriveva Jean-Louis Bourget su Positif nel giugno del 1988 “è quello di una piccola comunità che vive in autarchia, caratterizzata dall’accostamento di due etnie distinte ma al contempo unite da un rapporto gerarchico imposto dalla guerra e dalla dinamica coloniale. In questa cornice, gesti, sguardi e silenzi si rivelano essere forme di linguaggio che spesso pesano più delle parole.” […] continua Bourget: “la puntualità con la quale l’autrice evoca gli elementi che compongono l’universo memoriale rappresenta una qualità molto distante dall’idealizzazione impersonale dell’Africa tradizionalmente offerta dal cinema, conferendo all’impianto complessivo del film un senso di autenticità garantito da tracce di autobiografismo ben evidenti.”
All’uscita del film, ci si soffermava sul conflitto messo in campo da Denis tra soggetto e oggetto, sottolineando come una simile problematica affiora senza mai risultare ridondante o ricca di enfasi; né, tantomeno, come ci ha abituato non poco cinema contemporaneo, posizionandosi come film “a tesi”. Denis non va a sacrificare la sperimentazione linguistica o l’audacia nella regia per comunicare al pubblico un messaggio – la crudezza dell’esperienza coloniale – ; l’aspetto “poetico” e idealizzato della memoria coloniale e, più specificatamente, del tipo di infanzia che France aveva vissuto in quegli anni è innegabilmente presente in Chocolat. Tuttavia – ed è ciò che rende il film interessante tanto più se visto ai giorni nostri – questa dimensione viene non solo inquadrata, definita e rappresentata, ma viene, soprattutto, “questionata” e investigata. D’altra parte, la stessa regista ha più volte ripetuto quanto si distanzi da una visione romanzata che giustificherebbe retrospettivamente la presenza coloniale, dal momento che il suo è un film che si avvicina al passato, oltre che tramite la Storia, anche con la memoria dell’infanzia, una memoria di per sé soggettiva, ambigua, perseguitata da conflitti impliciti e spesso non detti.
È interessante notare, poi, quanto la riflessione critica e teorica in merito al film passi ad analizzare, col passare del tempo, la questione della corporeità. Secondo quanto scritto dalla critica statunitense Susan Hayward in Postcolonial films and desiring bodies (2002), il corpo di Protée, dello “schiavo”, ha in sé una duplice essenza: è sia “bambino” in quanto deve avere a che fare con la piccola France, in assenza del padre e di una madre che è perlopiù assente, se non per rare eccezioni, e “donna”, dal momento che è lui a rassettare le camere da letto, servire da mangiare, preoccuparsi di tutto ciò che riguarda la cura della casa.
Il cinema di Claire Denis si configura ancora come uno dei più vividi e lampanti dispositivi di apertura e analisi su problematiche di genere e identità.
È ibrido e ambivalente e lontano da una costruzione binaria del corpo e dell’identità. In Questioni di genere, Judith Butler scriveva che “il genere è una complessità la cui totalità è costantemente differita, e non è mai pienamente ciò che è in una data congiuntura temporale. Una coalizione aperta, dunque, affermerà identità che sono di volta in volta istituite e abbandonate a seconda degli scopi del momento.” Si tratterà, quindi, di un insieme aperto che permette convergenze e divergenze multiple, senza che si debba obbedire a una chiusura definitiva. Seguendo Butler, il corpo di Protée risulterebbe essere una complessità mai doma ed incostante di memorie, sensazioni ed elementi che vanno a intrecciarsi in relazione a contingenze storiche e culturali ed è un corpo che, soprattutto, rifiuta di farsi incasellare. Né tantomeno dallo sguardo dominante di Aimée.
A questo proposito, Chocolat dimostra quanto sia insensato e falso imporre al corpo delle costruzioni binarie a priori, a partire dall’intricato rapporto che si crea tra osservato e osservatore. Letto in quest’ottica, come pure sottolinea Hayward nel suo intervento, il film di Denis può essere considerato queer dal momento che problematizza la nozione di identità come qualcosa di fisso, coerente e naturale, esponendo i problemi e le contraddizioni delle soggettività non conformi, come farà, d’altra parte, anche in Beau Travail, J’ai pas sommeil (1994) e Trouble Every Day (2000).
Se, inoltre, pensiamo al dualismo maschile/femminile come costitutivo di ogni cultura occidentale, è implicito, in questo dualismo, un potenziale simbolico che va nella direzione della sua continua ripresa, affermazione, revisione e sovvertimento. Lo spazio dell’esperienza estetica e artistica può essere identificato come uno dei luoghi di sperimentazione di queste forme di superamento e sovversione del dualismo e il cinema di Claire Denis, tanto più se riletto e studiato oggi, alla luce dei cambiamenti socio-culturali che si sono susseguiti nel corso degli ultimi vent’anni, si configura ancora come uno dei più vividi e lampanti dispositivi di apertura e analisi su problematiche di genere e identità, tra le tante altre riflessioni che mette in campo.
La Terza Repubblica considerava il suo passato coloniale come parte fondamentale e integrante della sua ‘missione civilizzatrice’.
Il rifiuto di Aimée, la padrona, da parte di Protée, che avviene più volte nel corso del film, equivale al diniego di un intero sistema di sguardi su un mondo altro, in questo caso quello delle colonie. La stessa Denis, parlando di Chocolat, ha più volte insistito sul fatto che, per quanto si fosse sforzata di fare un film che non assecondi o enfatizzi il sentimento di nostalgia coloniale, non volendo in nessun modo creare un’opera unidirezionale o solo appannaggio del solo punto di vista eurocentrico, non avrebbe mai potuto avere un accesso totale a una prospettiva che non fosse la sua nel racconto del mondo delle colonie:
“[…] for three thousand years,
ha dichiarato la regista, the official view of the world had been a white view and he – riferendosi a uno scritto di Jean-Paul Sartre – now welcomed an alternative: the view from those who had been watched, what they saw when they lookad at us, the white Europeans.”
Tutto Chocolat viene raccontato a partire da “the view from those who had been wachted” (letteralmente, il punto di vista di chi è stato osservato), che si tratti di Protée o anche della piccola France, il cui punto di vista “marginale”, spesso reso invisibile perché considerato non maturo o adatto all’espressione di determinate dinamiche, viene qui messo in luce. Fino agli anni Novanta, quindi, il cinema francese non aveva avuto molto da dire sul postcolonialismo o sull’ ideologia del multiculturalismo. La Terza Repubblica considerava il suo passato coloniale come parte fondamentale e integrante della sua “missione civilizzatrice” minimizzando le conseguenze sull’immagine che dava della nazione anche dopo la lunga e brutale guerra di indipendenza algerina. In questo contesto, raccontando l’esperienza coloniale, il cinema francese è rimasto prevalentemente bianco, eterosessuale e cattolico, e soprattutto unidirezionale, ed è di rado stato di rottura, tranne per poche eccezioni come Le Petit Soldat (1963) di Jean-Luc Godard, a cui fa esplicito riferimento un altro importantissimo film di Denis, Beau Travail.
Quanto alla questione dell’identità e comunità nazionale, l’approccio dello stato francese verso chi proveniva dall’Africa e dalla regione del Maghreb – sia per lavorare nel campo della manodopera a basso costo sia per individuarsi come immigrati permanenti e, quindi, intenzionati a voler inserirsi in una comunità differente dalla propria – è stato per lo più quello dell’assimilazione: integrati, gli “altri”, purché rispettino le leggi francesi e tutto ciò che ne ruota intorno, religione, costumi, codici culturali. La burocrazia e il sistema educativo fortemente centralizzati della Francia e la sua feroce fede nella laicità repubblicana e nella rigida divisione tra chiesa e stato hanno plasmato gli atteggiamenti sia nei confronti degli immigrati sia nei confronti delle narrazioni dell’esperienza coloniale francese, il che potrebbe anche spiegare il motivo per cui i dibattiti sul velo musulmano sono stati così aspri e accesi nel corso degli anni, o perché le rivolte delle banlieue degli anni Ottanta hanno causato un tale shock – rivolte che continuano tutt’ora, basti pensare al cosiddetto “cinema della periferia” che tanto in Francia quanto in Italia ha assunto un’importanza e rilievo socio-culturali non indifferenti.
Integrati, gli ‘altri’, purché rispettino le leggi francesi e tutto ciò che ne ruota intorno, religione, costumi, codici culturali.
Beau Travail, realizzato nel 1999, è stato molto apprezzato sia dalla critica che dal pubblico, ottenendo premi al Festival di Berlino, al Festival del Cinema di Rotterdam e al Chicago Film Critics’ Award. La struttura temporale del film è atipica ed eclettica, mescola flashback, tempo presente e flash forward. Queste diverse temporalità rappresentano, in un certo senso, l’espletazione, sotto forma di una iniziale voce fuori campo, del mondo interiore ed esteriore di un ex ufficiale della Legione Straniera francese stabilitosi a Marsiglia, dopo la fine del suo servizio. Proprio come accade a France all’inizio di Chocolat quando le viene offerto il passaggio dal padre e dal bambino che aveva incontrato in spiaggia, un brevissimo e fugace incontro per strada con un distaccamento di legionari ricorda a Galoup/Denis Lavant il suo passato nella legione, che si era ingloriosamente concluso con il suo congedo dopo aver messo a repentaglio la vita di un suo subordinato, in un premeditato complotto per farlo morire nel deserto.
Commissionato a Claire Denis per una raccolta intitolata “Terre Etrangeres” e liberamente ispirato al racconto di Melville, Billy Budd, Beau Travail è l’opera della cineasta in cui desiderio e corpo, e il loro legame, sono i più scandagliati ed esplorati, a partire dalla vicenda personale di Galoup. Fin dalle primissime immagini siamo trasportati in una terra straniera e in un paesaggio di una bellezza scarna e austera, dai connotati quasi infernali: il vento è una costante negli spazi in cui si muovono i legionari, spazi desertificati e spogli con il mare mai domo ed incostante che ne circonda il perimetro, quasi fosse, per l’appunto, un passaggio di soglia da attraversare. I personaggi principali sono tre: Galoup, la cui fedele ammirazione è tutta rivolta alla figura enigmatica del comandante, Forestier (Michel Subor) e l’ultima recluta, Gilles Sentain (Gregoire Colin), che sarà, con la sola sua presenza e l’ammirazione che suscita in Forestier, causa della sua stessa rovina, fedele in questo al suo archetipo, Billy Budd.
Denis allude alla possibilità che un corpo, per quanto si distingua per fattezze e caratteri prettamente ‘maschili’, possa risultare portatore di ambiguità.
La macchina da prese segue questo “triangolo” con un punto di vista che sonda i sommovimenti e la vita interiore di ognuno lasciando emergere, ancora una volta, come sempre nel cinema di Denis, la natura bruta del desiderio e tutto ciò (gelosia, rabbia, odio) che un sentimento del genere porta con sé. Sguardi affilati, interconnessi, elusivi, quelli dei tre personaggi, ma specialmente di Galoup e Sentain: il punto ultimo del loro confronto silente è un tesissimo faccia a faccia, consapevolmente ispirato alle arti marziali, durante il quale, senza toccarsi, i due si fronteggiano, il volto dell’uno offerto all’altro, con gli sguardi che finiscono col fondersi, senza che l’uno, neanche per un momento, perda terreno. Un duello di sguardi che assomiglia a una danza convulsa e spezzata dal suono dei loro corpi sudati che, pur non arrivando mai a toccarsi, ne lasciano trapelare tutta la forza e il vigore ancestrali. Il lavoro di ripresa della storica direttrice della fotografia Agnès Godard nobilita il movimento della coreografia creando, con il montaggio, un’alternanza di brevi inquadrature di singoli corpi in tensione con inquadrature d’insieme dove l’unità del gruppo viene tanto ricomposta quanto riaffermata.
“I corpi maschili nel film”, sosteneva Denis in una delle interviste che accompagnarono l’uscita del film, “potrebbero benissimo essere maschili. Eppure, nei loro rituali di danza sulla spiaggia o durante la stiratura delle uniformi, sono presentati in modo tale che il confine tra mascolinità e femminilità appare labile, almeno per quanto riguarda i corpi maschili”. La cineasta allude a una questione già sollevata in precedenza in relazione all’immagine del corpo di Protée in Chocolat: la possibilità che questo corpo, per quanto si distingua per fattezze e caratteri prettamente “maschili”, possa comunque risultare, agli occhi di chi guarda, portatore di una certa ambiguità. Denis non si preoccupa di inquadrare i corpi dei legionari sia mentre, ad esempio, fanno attività fisica estrema, rispondendo agli ordini del comandante, sia mentre stirano le proprie divise o cucinano, adempiendo, quindi, a un’attività di cura che non gli spetterebbe, seguendo una tradizione storico-culturale di stampo patriarcale.
Il maschile e il femminile intrattengono un rapporto fondato non sulla separazione ma sulla mescolanza, sull’avvicinamento e sull’ibridazione.
Per tutto il film, dunque, il maschile e il femminile intrattengono un rapporto fondato non sulla separazione ma sulla mescolanza, sull’avvicinamento e sull’ibridazione. I personaggi rappresentati da Denis, a cominciare da Galoup, sembrano vivere esperienze di profonda incertezza e instabilità tanto più se pensiamo alla natura dei desideri di questi uomini, che la cineasta non arriva quasi mai a rendere espliciti. La narrazione (del desiderio, in questo caso) incede con un meccanismo di sottrazione costante, nonostante caratteri che sarebbero potuti risultare respingenti agli occhi dello spettatore come la rarefazione della messinscena, come i ritmi lentissimi e quieti del racconto e l’impianto spazio-temporale alternato che non chiarifica mai i passaggi da una dimensione all’altra del racconto. Sembra quasi voglia non fermarsi mai, Galoup, mentre guida i suoi cadetti nei tortuosi percorsi delle foreste che devono attraversare insieme e all’unisono; il suo corpo – i lineamenti minacciosi del volto di Denis Lavant funzionano perfettamente a rendere la concitazione interiore del protagonista – è febbricitante e insaziabile e arriva al “confine”, al punto in cui non gli risulta più così facile o immediato proseguire, spingendosi oltre, soltanto in presenza di Sentain, che lo mette alle strette, dominandolo con la sola forza dello sguardo.
Il cinema di Claire Denis sfugge a facili etichettature ed è interessante leggerlo alla luce delle molteplici modificazioni di carattere estetico, narrativo e semantico che hanno coinvolto l’audiovisivo, principalmente nella messa in luce di un discorso queer e meno dogmatico sulla rappresentazione del desiderio e dei corpi, per cui i film della cineasta francese riescono ad essere anche più attuali di molte opere realizzate negli ultimi anni. E in questo, benché lo si voglia negare, i film di Denis si distinguono per una forte coloritura politica – basti pensare soltanto alla riflessione sull’ “altro” e sul subalterno implicita in film come White Material (2009) S’en fou la mort (1990) in contemporanea con la nascita e il progresso degli studi postcoloniali.
I processi di scambio e interazione che coinvolgono i corpi dei personaggi di Beau Travail e il loro continuo scivolare tra il “maschile” e il “femminile” ci inducono, infine, a una riflessione su che cosa s’intende per mascolinità oggi e sul modo in cui un certo tipo di cinema è stato abile a decostruirne la tassonomia. La prospettiva queer di Beau Travail emerge, non per caso, proprio a partire dalla messa in discussione dei concetti di cui sopra, in uno spazio narrativo ed estetico volutamente aperto e ibrido. E non c’è niente di più politico e urgente di un discorso che guarda alla creazione di uno spazio estetico, cinematografico, in questo caso, sismico in cui poter rivedere, se non addirittura smontare e rimontare, canoni ormai consolidati.
Quello che ha cercato di fare Claire Denis è stato, in un certo senso, tentare di ‘demitizzare’ la figura totemica e assoluta del maschio.
La ricerca identitaria va di pari passo con la ricerca di spazi immaginari e “utopici” con cui poter arrivare a un’altra modalità d’esistenza. Ma che cos’è davvero la mascolinità? Si chiede Jack Halberstam all’inizio di Maschilità senza uomini, dove lo studioso sostiene che, lungi dall’essere un’imitazione della mascolinità, la cosiddetta “mascolinità femminile “(“female masculinity”) ci offre, in realtà, uno scorcio di come la mascolinità – egemonica – sia stata costruita come tale nel corso dei secoli. “Le mascolinità femminili sono inquadrate come frammenti rifiutati della mascolinità dominante, in modo tale che quella maschile possa sembrare la sola cosa possibile”. Nel libro, infatti, Halberstam esplora le implicazioni del concetto di maschilità femminile in relazione alle politiche femministe, alle pratiche subculturali e alla leggibilità del corpo nello spazio pubblico, inquadrando le mascolinità femminili come frammenti respinti (“rejected scraps”) dalla mascolinità dominante in modo che esclusivamente quest’ultima possa sembrare come la sola unica e reale.
La nostra società vuole che alla mascolinità facciano riferimento le nozioni di potere, legittimità e privilegio, estendendosi tanto all’esterno, e quindi a livello socio-culturale, nel patriarcato, quanto all’interno dei nuclei familiari, che finiscono con l’essere nient’altro che delle contrazioni del sistema sovrastante. “Masculinity represents the power of inheritance, the consequences of the traffic in women and the promise of social privilege”, continua Halberstam ma, senz’altro, molte altre line di identificazione attraversano il terreno della mascolinità, scindendo il suo potere in complicate differenze di classe, sessualità e genere. Se, dunque, seguendo il ragionamento dello studioso americano, quella che chiamiamo “mascolinità dominante” è la conseguenza di una relazione naturalizzata tra mascolinità e potere, esaminare gli uomini per il modo in cui si inseriscono nei contorni della costruzione sociale della suddetta si svuota di significato.
Quello che ha cercato di fare Claire Denis con Beau Travail e Chocolat, così come moltissimo cinema prima e dopo di lei, è stato, in un certo senso, tentare di “demitizzare” la figura totemica e assoluta del maschio, del soldato, nel caso di Beau Travail. Come è stato detto più volte a proposito di Beau Travail, infatti, ci sono alcuni momenti nel film che suggeriscono una fluidità identitaria aliena alle regole militaresche, come la sequenza della danza collettiva precedentemente analizzata, o quando uno dei soldati ripete un gesto simile a quello compiuto poco prima da una donna, qualcosa che ci ricorda, per Denis, quando sia difficile se non impossibile assimilare totalmente una struttura, dei codici comportamentali o un’immagine di sé che si vuole dare gli altri.